Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.29103 del 11/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9642-2017 proposto da:

SAN RAFFAELE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GORIZIA 52, presso lo studio dell’Avvocato MARCO TAVERNESE che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BRONZINI, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO LEPORE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 755/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/02/2017 R.G.N. 662/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per inammissibilità in subordine rigetto;

udito l’Avvocato MARCO TAVERNESE;

udito l’Avvocato CARLO LEPORE.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 755 del 13.2.2017 la Corte d’appello di Roma, in sede di reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58 ed in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato il 14.4.2014 a C.L. – per mancanza del titolo abilitativo all’esercizio della professione di tecnico di laboratorio chimico biologico – dalla società San Raffaele s.p.a. in considerazione del mancato assolvimento dell’obbligo di repechage, con conseguente applicazione della tutela risarcitoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.

2. La Corte territoriale, accertato il mancato possesso di un titolo valido (ossia aggiornato, a seguito di domanda di equiparazione da presentarsi alla Regione Lazio in ottemperanza alla Delib. Giunta 9 marzo 2012, n. 84) per l’esercizio delle mansioni di tecnico di laboratorio, ha ritenuto insufficientemente assolto l’onere probatorio relativo all’obbligo di repechage in considerazione delle ulteriori mansioni di natura amministrativa svolte in maniera prevalente e continuativa nonchè sussistente una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede in considerazione dell’omessa informazione, da parte del datore di lavoro, della scadenza dei termini per conseguire l’equipollenza del titolo posseduto dalla lavoratrice; ha conseguentemente dichiarato risolto il rapporto di lavoro ed applicato la tutela indennitaria, condannando la società al pagamento di venti mensilità della retribuzione globale di fatto tenuto conto delle difficoltà economiche dell’azienda, dell’anzianità di servizio della lavoratrice, della peculiarità della vicenda e del colpevole silenzio serbato dalla società in ordine alla regolarizzazione del titolo presso la Regione Lazio.

3. La società San Raffaele s.p.a. ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Alcuni giorni prima dell’udienza è stata depositata rinuncia al mandato dagli avvocati Davide Gallotti ed Emanuela Cusmai e costituzione di nuovo difensore nella persona di Marco Tavernese, che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. La lavoratrice ha depositato controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo (rubricato come A) la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1418,1421,2126 c.c., art. 32 Cost., D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 6, comma 3 della L. n. 42 del 1999, dell’Accordo Stato Regioni n. 17 del 10.2.2011 recepito con D.P.C.M. 26 luglio 2011 e del D.M. n. 745 del 1994 (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la perdita del titolo abilitante richiesto dalla normativa vigente per l’esercizio della professione di tecnico di laboratorio determinava la nullità del contratto di lavoro per violazione di norme imperative di ordine pubblico, con conseguente legittimità del licenziamento.

2. Con i motivi dal secondo al quarto (rubricato come B, C, e D) la società ricorrente denuncia violazione degli artt. 2103,1175,1375,1464,2909 e 1256 c.c., art. 324 c.p.c., art. 116 c.p.c., comma 1, , artt. 2 e 41 Cost., nullità della sentenza per omessa valutazione degli elementi documentali offerti, vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto che la C. svolgesse mansioni amministrative in maniera prevalente e continuativa ed erroneamente valutato “il non interesse alle prestazioni residuali offerte dalla lavoratrice”, nonchè ritenuto che l’onere di allegazione e prova di ulteriori posizioni lavorative incombesse unicamente sul datore di lavoro. In ogni caso, non è stata valutata la produzione documentale (con particolare riferimento al Libro unico del lavoro, LUL dell’anno 2014) e, inoltre, l’impossibilità di prestare l’attività di tecnico di laboratorio non era temporanea, non sussistendo elementi che rendessero prevedibile la cessazione dell’impossibilità, intervenuta per negligenza della lavoratrice (che aveva omesso di regolarizzare il titolo in suo possesso).

3. Con il quinto motivo (rubricato come E) la ricorrente denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 18, commi 5 e 7, artt. 1464, 1227, 1218 c.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, preso a parametro di riferimento, ai fini dell’indennità risarcitoria, la retribuzione piena percepita dalla lavoratrice, dovendo invece considerare una retribuzione ridotta in via equitativa posto che il recesso era imposto da una impossibilità parziale della prestazione e le mansioni residue erano, comunque, di ordine secondario.

4. Il primo motivo è infondato.

Questa Corte (cfr. Cass. Sez. U. n. 11559 del 2011), come rammenta il ricorrente, ha affermato (con particolare riguardo agli insegnanti) che il possesso del titolo legale di abilitazione rappresenta un requisito di validità del contratto di lavoro (con conseguente nullità del contratto e sussistenza di una giusta causa di licenziamento in caso di mancato possesso; vicenda analoga è stata affrontata da Cass. n. 12996 del 2016, citata dal ricorrente, ove si discuteva dell’esercizio di attività libero-professionale in assenza di titolo abilitativo).

I casi esaminati da questa Corte e richiamati dal ricorrente concernevano, peraltro, la mancanza, ab origine, del titolo legale di abilitazione per l’esercizio della mansione (di insegnante, di medico dentista) svolta dal lavoratore, con conseguente difetto originario strutturale dell’atto.

Nel caso di specie, non può utilmente invocarsi l’ipotesi di nullità per vizio genetico del contratto posto che risulta che la C., alla data di assunzione (maggio 1994), fosse regolarmente in possesso del titolo richiesto, ratione temporis, per l’esercizio della professione di tecnico di laboratorio, essendo sopravvenuta solamente nel 2012 (la Delib. Giunta Regione Lazio 9 marzo 2012, n. 84) la necessità di integrazione del titolo posseduto.

La Corte distrettuale ha, dunque, correttamente rinvenuto un vizio sopravvenuto del contratto conseguente al mutato assetto normativo, ossia un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa incompatibile, in concreto, con la prosecuzione del rapporto che rientra nella nozione di giustificato motivo oggettivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 (nozione che ricomprende altresì fatti inerenti alla persona del lavoratore ma incidenti sull’organizzazione aziendale: cfr. consolidata giurisprudenza in materia di perdita dei requisiti soggettivi indispensabili per l’esecuzione della prestazione lavorativa come la scadenza del permesso di soggiorno per il lavoratore extracomunitario, cfr. ex multis, Cass. n. 9407 del 2001, la sospensione del porto d’armi o il ritiro del titolo per la guardia giurata, Cass. n. 13986 del 2000, Cass. n. 16924 del 2006, il ritiro del tesserino doganale per il lavoratore aeroportuale, Cass. n. 5718 del 2009, Cass. n. 19613 del 2014).

Secondo orientamento consolidato di questa Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (cfr. ex plurimis, Cass. n. 4460 del 2015, Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017, Cass. n. 10435 del 2018).

5. I motivi dal secondo al quarto sono in parte inammissibili e per la parte residua infondati.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie. La ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 nella parte in cui il giudice del merito rileva l’assenza di elementi probatori circa l’inesistenza, in azienda, di altri posti di lavoro e l’adibizione della C. altresì in mansioni amministrative in maniera prevalente e in modo continuativo, si induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertata e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo così all’impugnata sentenza censure del tutto inammissibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

La Corte distrettuale ha accertato che la C. era altresì adibita a mansioni quali l’inserimento dati nel computer, l’accettazione delle analisi da effettuare sui pazienti, la refertazione al computer delle analisi eseguite, l’ordinazione di materiale sia da altre sedi della società sia da fornitori esterni, compiti che svolgeva “prevalentemente lei ed in modo continuativo (e non già occasionale)”, mansioni “in origine del tutto secondarie rispetto a quelle di tecnico di laboratorio; compiti “rimasti comunque necessari proprio per l’attività del settore o unità organizzativa cui era adibita la reclamante” ( C.).

I motivi sono, per la parte residua, infondati posto che, secondo orientamento ormai consolidato, sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 12769 del 2005; Cass. n. 19616 del 2011; Cass. n. 15258 del 2012; Cass. n. 5592 del 2016; Cass. n. 12101 del 2016; Cass. n. 20436 del 2016; Cass. n. 160 del 2017; Cass. n. 9869 del 2017; Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017; Cass. 2 maggio 2018 n. 10435).

6. Il quinto motivo di ricorso non è fondato.

La Corte distrettuale, accertata la mancanza, da parte della C., di un titolo di abilitazione professionale equivalente al diploma di rango universitario (come previsto dall’Accordo Stato Regioni n. 17 del 2011 e dalla Delib. Giunta Regione Lazio n. 84 del 2012), ha ritenuto effettivamente ricorrente un causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa (e quindi l’esigenza della soppressione del posto di lavoro) ma ha rilevato l’illegittimità del licenziamento per osservanza dell’obbligo di repechage da parte del datore di lavoro. Ha, conseguentemente, proceduto ad applicare il regime sanzionatorio indennitario dettato dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, (come novellato dalla L. n. 92 del 2012), determinando l’importo risarcitorio in venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tenendo conto “dell’anzianità di venti anni della lavoratrice, nonchè della difficoltà economica della società”… oltre alla peculiarità della vicenda e al colpevole silenzio serbato dalla società per circa due anni dopo la scadenza dei termini formalmente assegnati dalla Regione Lazio per richiedere l’equipollenza del titolo.

La Corte di appello ha, pertanto, correttamente tenuto conto – fornendo adeguata motivazione – degli elementi indicati dal legislatore ossia anzianità di servizio, dimensioni dell’azienda e dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti prendendo a parametro di riferimento l’ultima retribuzione globale di fatto (come dispone la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5).

Secondo consolidata giurisprudenza, in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo per il quale non sia applicabile la disciplina della cosiddetta stabilità reale, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità risarcitoria spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria (cfr. Cass. n. 13732 del 2006, Cass. n. 107 del 2001).

Pur rilevandosi che la censura è stata avanzata secondo l’archetipo dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non secondo il n. 5 del medesimo articolo), va sottolineato che la sentenza impugnata ha fornito congrua motivazione delle modalità di calcolo dell’indennità risarcitoria.

7. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

8. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonchè in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

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