LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARRATO Aldo – Presidente –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28924-2016 proposto da:
P.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. BERTOLONI 26-B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO BRUGNOLETTI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO ECONOMIA FINANZE *****;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1917/2016 della CORTE DI APPELLO DI MILANO, depositata il 08/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera del 11/09/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
P.V. ha presentato ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 1917/2016, depositata in data 8 giugno 2016.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha svolto attività difensive.
P.V. propose ricorso D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 6 dinanzi al Tribunale di Como, contro il Decreto dirigenziale n. 410684 del 9 giugno 2014, impositivo della sanzione amministrativa di Euro 23.296,00, emesso a suo carico dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per violazione del D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 3. L’infrazione contestata, accertata dall’Ufficio delle Dogane di Como, Sezione di Ponte Chiasso, assumeva che il P., in data 22 ottobre 2013, attraversando la frontiera verso la Svizzera, avesse omesso di redigere la dichiarazione di importazione al seguito di sette assegni, privi dell’indicazione del beneficiario, dell’importo complessivo di Euro 68.240,00.
Il Tribunale di Como, con sentenza n. 91/2015 dell’11 marzo 2015, accolse parzialmente l’opposizione, riducendo la sanzione contenuta nell’ordinanza-ingiunzione ad Euro 17.472,00. P.V. propose gravame, respinto dalla Corte di appello di Milano con sentenza dell’8 giugno 2016.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380 bis.1 c.p.c..
I.Il primo motivo di ricorso di P.V. censura la “violazione e falsa applicazione dell’art. 221 c.p.c. e art. 2699 c.c.: errores in procedendo per contraddittoria, illogica e infondata motivazione”, in ordine alla querela di falso presentata dal ricorrente per far dichiarare la falsità ideologica del “verbale di accertamento e sequestro per violazione della normativa valutaria”, redatto in data 22 ottobre 2013, prot. 15354/RI, presso l’Ufficio delle Dogane di Como. La Corte di Milano ha ritenuto priva di influenza decisiva la querela di falso proposta in via incidentale, giacchè finalizzata a dimostrare che gli operatori doganali non lo avessero avvisato dell’obbligo di dichiarare la disponibilità di denaro o titoli per un importo superiore ad Euro 10.000,00, essendosi limitati a chiedere “Nulla da dichiarare?”. Per la Corte d’Appello, tale ipotizzata condotta degli operatori di Dogana, che la querela di falso intendeva dimostrare, non avrebbe comunque escluso la sussistenza della infrazione contestata, neppure sotto il profilo della buona fede. Secondo il primo motivo di ricorso, l’asserito collegamento, di cui alla motivazione della sentenza della Corte di appello, tra la querela di falso incidentale e la non rilevanza della facoltà in capo al ricorrente di comprovare l’esimente della buona fede sarebbe illegittimo, in quanto estraneo all’istituto in esame che è funzionalmente tipizzato alla rimozione dall’ordinamento giuridico di atti pubblici, dotati di fede privilegiata ex art. 2699 c.c., a seguito di accertata falsità.
I.1. Il primo motivo di ricorso è del tutto infondato.
Il D.Lgs. 19 novembre 2008, n. 195, art. 3, comma 1, dispone che “chiunque entra nel territorio nazionale o ne esce e trasporta denaro contante di importo pari o superiore a 10.000 Euro deve dichiarare tale somma all’Agenzia delle dogane. L’obbligo di dichiarazione non è soddisfatto se le informazioni fornite sono inesatte o incomplete”. Del medesimo art. 3, il comma 5 aggiunge: “Le disposizioni del presente decreto non si applicano ai trasferimenti di vaglia postali o cambiari, ovvero di assegni postali, bancari o circolari, tratti su o emessi da banche o Poste italiane s.p.a. che rechino l’indicazione del nome del beneficiario e la clausola di non trasferibilità (…)”.
A proposito dell’analoga infrazione contenuta nel D.L. n. 167 del 1990, art. 3 convertito nella L. n. 227 del 1990, poi abrogata proprio dal D.Lgs. n. 195 del 2008, questa Corte aveva già affermato, con interpretazione che va ribadita con riguardo al D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 3, che l’infrazione relativa all’importazione o esportazione di denaro o titoli al portatore per un importo superiore a quello prescritto ha carattere oggettivo, perfezionandosi con la sola omissione della dichiarazione all’ufficio doganale di confine del possesso di titoli per un importo superiore al predetto, e le cause di esenzione sono quelle tassativamente indicate dalla legge. Trattasi di adempimento non inteso ad evitare illeciti trasferimenti di somme, quanto preordinato alla rilevazione globale dei movimenti di capitali verso le frontiere, imponendo l’obbligo di specifici avvisi senza alcun onere finanziario. L’infrazione relativa all’importazione o esportazione di titoli al portatore, postula, peraltro, sotto il profilo soggettivo, soltanto un comportamento cosciente e volontario, ancorchè non preordinato a fini illeciti, o non consapevole dell’illiceità del fatto (Cass. Sez. 5, 12/06/2009, n. 13670; Cass. Sez. 5, 28/02/2008, n. 5248; Cass. Sez. 1, 15/11/1997, n. 11337). D’altro canto, il più generale principio posto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3 secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa, va inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a quest’ultimo l’onere di provare di aver agito incolpevolmente (per una fattispecie simile, Cass. Sez. 1, 21/01/2000, n. 664).
In tale cornice ermeneutica, risulta corretta la decisione della Corte d’appello di ritenere irrilevante la querela di falso diretta a comprovare gli operatori di dogana non avevano menzionato compiutamente al P. l’obbligo di dichiarazione.
A differenza di quanto si suppone nel primo motivo di ricorso, al giudice della causa principale (e non a quello della querela, il cui unico compito consiste nell’affermare o negare la falsità dell’atto) è devoluta proprio la questione della rilevanza dell’eventuale falsità del documento, impugnato con la querela in via incidentale di cui all’art. 221 c.p.c., come può evincersi dal disposto dell’art. 222 codice di rito cit., secondo il quale soltanto se il giudice istruttore valuta rilevante il documento in funzione della sentenza attinente al giudizio di merito può autorizzare la proposizione della querela (Cass. Sez. 1, 13/03/2015, n. 5102; Cass. Sez. 2, 28/05/2007, n. 12399), finendosi diversamente per dilatare i tempi di decisione del processo, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, (Cass. Sez. U, 23/06/2010, n. 15169).
La circostanza che gli operatori doganali non avessero in realtà avvisato P.V. dell’obbligo, imposto dalla legge, di dichiarare la disponibilità di denaro o titoli per un importo superiore ad Euro 10.000,00 (come invece risulta dal verbale di accertamento), essendosi limitati a chiedere “Nulla da dichiarare?”, non conclamerebbe un errore determinante delle autorità competenti e, quindi, un comportamento incolpevole del ricorrente, tale da provocare l’incosciente o involontaria omissione della dichiarazione del possesso degli assegni all’Ufficio doganale di confine, con conseguente irrilevanza della dedotta falsità.
Quanto, poi, al riferimento fatto in rubrica alla “contraddittoria, illogica e infondata motivazione” (che si trova ripetuto anche negli altri motivi), occorre solo considerare come, nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134, non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva ex se come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 c.p.c..
II. Col secondo motivo di ricorso P.V. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost. e del D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 8, commi 3 e 5, “error in iudicando per contraddittoria, illogica ed infondata motivazione”. La Corte d’Appello di Milano ha disatteso il primo motivo di gravame circa l’assunta tardività del decreto di irrogazione della sanzione del 26 giugno 2014, calcolando che il termine di centottanta giorni dalla data di ricezione dei verbali di contestazione del 22 ottobre 2013 doveva intendersi prorogato di sessanta giorni per la richiesta di audizione, come stabilito dal D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 8, comma 5. La sentenza impugnata ha negato la fondatezza giuridica della tesi “inventata dall’appellante” circa la congruità di un termine di proroga ridotto a quaranta giorni, basata su un richiamo al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 204, comma 1-ter. Il ricorrente insiste nel prospettare “l’applicazione analogica e costituzionalmente orientata” dei termini di cui al D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 204, comma 1-ter, sicchè “il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze doveva terminare in data 30.05.2015, ovvero in data 20.04.2015 terminavano i primi 180 giorni e in data 30.05.2015 i restanti 40 giorni, arco temporale resosi necessario per dare atto all’audizione dell’interessato”.
HA. Come ritenuto dalla Corte d’Appello, la doglianza del P., ribadita nel secondo motivo di ricorso, è sprovvista di qualsiasi fondamento normativo.
Il D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 8 indica chiaramente che il decreto di irrogazione della sanzione “è adottato dal Ministero dell’economia e delle finanze nel termine perentorio di centottanta giorni dalla data in cui riceve i verbali di contestazione” (comma 3) e che “in caso di richiesta di audizione, ai sensi del comma 1, o in caso di richiesta di valutazioni tecniche, di cui al comma 4, il termine di cui al comma 3 è prorogato di sessanta giorni”. Viene così delineata una proroga automatica ex lege del termine di centottanta giorni entro il quale il Ministero dell’economia e delle finanze deve emanare il decreto di determinazione della sanzione e di ingiunzione del pagamento ai sensi del D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 8, comma 2, (sulla cui decorrenza, cfr. Cass. Sez. 2, 18/04/2018, n. 9521), proroga condizionata all’esercizio della facoltà dell’interessato di richiedere di essere sentito dall’Amministrazione. Il ricorrente ravvisa un’esigenza di armonizzazione della disciplina del termine per l’irrogazione delle sanzioni in materia valutaria con la disciplina delle sanzioni amministrative per le violazioni previste dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, in relazione alle quali, quando l’interessato abbia fatto richiesta di audizione personale, il termine per l’ingiunzione si interrompe con la notifica dell’invito al ricorrente e resta sospeso fino alla data fissata per l’espletamento dell’audizione stessa. L’oggettiva diversità delle situazioni sostanziali correnti tra le esigenze istruttorie delle infrazioni valutarie e quelle delle sanzioni amministrative per violazione del codice della strada giustifica il diverso trattamento normativo, senza in alcun modo ledere alcuno dei principi costituzionali dettati in tema di diritto di difesa, rientrando comunque nella discrezionalità del legislatore la determinazione della durata (più o meno breve) dei termini per l’istruttoria e l’irrogazione delle sanzioni amministrative. Nè vi sarebbe ragione per far ricorso alla analogia, come propone il ricorrente, essendo esso consentito dall’art. 12 preleggi solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria.
III. Col terzo motivo di ricorso P.V. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., L. n. 689 del 1981, art. 3 e art. 116 c.p.c., art. 115 c.p.c., “error in iudicando per contraddittoria, illogica ed infondata motivazione”, avendo la Corte di Milano erroneamente rigettato il motivo di gravame volto a censurare l’implicita statuizione assunta dal giudice di primo grado, in sede di verbale di prima comparizione del 4 dicembre 2013, allorchè furono “ritenute superflue le prove orali dedotte”. Tali prove, a dire della censura, erano dirette a dimostrare la sussistenza delle buona fede del P. nella condotta omissiva osservata, nonchè la difformità dei fatti rispetto a quanto emerge dal verbale di accertamento e di sequestro.
III.1. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Secondo uniforme interpretazione di questa Corte, contrasta con l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il motivo con il quale viene denunziato un vizio di violazione di legge o di motivazione in ordine alla mancata ammissione di deduzioni istruttorie, omettendo di specificare a sostegno della censura gli atti inerenti ai capitoli di prova non ammessi ed asseritamente concludenti e decisivi al fine di pervenire a soluzioni diverse da quelle raggiunte nell’impugnata sentenza (cfr. da ultimo Cass. Sez. 6 – 3, 10/08/2017, n. 19985; Cass. Sez. L, 20/09/2013, n. 21632). Era, dunque, onere del ricorrente fornire analitica indicazione nel motivo di impugnazione delle circostanze che dimostrassero di aver agito incolpevolmente all’atto della dichiarazione negativa resa alla dogana, secondo il tema di prova specificato a proposito del primo motivo, in maniera da consentire a questa Corte di controllare la decisività dei fatti da provare e delle prove negate sulla sola base delle deduzioni contenute nella censura, non potendosi altrimenti colmare le lacune con indagini integrative.
IV.Il quarto motivo di ricorso censura la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 6, comma 5, e sempre l'”error in iudicando per contraddittoria, illogica ed infondata motivazione”, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto non perentorio il termine di sessanta giorni ivi indicato.
La Corte di Milano ha negato l’illegittimità del sequestro degli assegni bancari rinvenuti sia quanto all’assunta utilizzazione dei titoli contro la volontà della società titolare del conto corrente su cui gli essi erano stati tratti, sia per la mancata decisione sull’opposizione proposta entro i sessanta giorni stabiliti dall’art. 6, comma 5, citato, in quanto termine non definito perentorio dalla legge. Per il ricorrente, dalla locuzione “entro sessanta giorni” contenuta nella norma in questione dovrebbe al contrario desumersi la perentorietà del termine.
IV.1. Anche questo motivo è privo di fondamento.
Il D.Lgs. n. 195 del 2008, art. 6, comma 5, su cui poggia la quarta censura, contempla la facoltà per l’interessato di proporre opposizione al Ministero contro il sequestro del denaro trasferito o che si tenta di trasferire, prevedendo che “il Ministero dell’economia e delle finanze decide sull’opposizione con ordinanza motivata entro sessanta giorni dalla data di ricevimento dell’opposizione e del relativo atto di contestazione”.
Per l’infondatezza della doglianza del ricorrente circa l’illegittimità del sequestro degli assegni bancari depone a monte il principio giurisprudenziale secondo cui con riguardo al sequestro cautelare di cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nè l’atto che dispone il sequestro, nè il provvedimento che rigetta l’opposizione in sede amministrativa contro il sequestro stesso sono impugnabili in sè, dovendo chiedersi l’accertamento della illegittimità della suddetta misura nel ricorso giurisdizionale contro il provvedimento di confisca e, comunque, non disgiuntamente rispetto all’accertamento sulla legittimità del verbale di accertamento della violazione (cfr. Cass. Sez. 3, 09/08/2000, n. 10534; Cass. Sez. 2, 22/12/2011, n. 28362; Cass. Sez. 1, 13/06/1991, n. 6708).
V. Consegue il rigetto del ricorso. Non occorre regolare le spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha svolto attività difensive. Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione rigettata.
Come da istanza presentata in data 27 agosto 2019 dall’avvocato Massimiliano Brugnoletti nell’interesse di P.V., “ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. n. 163 del 2003, art. 52” (da intendersi: D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), ritenuta la legittimità dei motivi ivi addotti, si dispone di apporre a cura della cancelleria sull’originale di questa ordinanza un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione del provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Si dispone di apporre a cura della cancelleria sull’originale di questa ordinanza un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione del provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2019