LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17089/2018 proposto da:
S.M., elettivamente domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso, per procura in calce al ricorso, dall’avv. Maria Monica Bassan che chiede di ricevere le comunicazioni relative al processo alla p.e.c.
maria.bassan.ordineavvocatipadova.it e al fax n. 049/8646524;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA presso la Corte di Cassazione, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI VERONA – Sezione Padova;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1008/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 24/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/05/2019 dal Consigliere Paola GHINOY.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Venezia confermava l’ordinanza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da S.M., proveniente dal Bangladesh, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale.
2. La Corte riferiva che il richiedente aveva dichiarato che la sua famiglia di origine era molto povera, che la famiglia della moglie non aveva accettato il matrimonio e che per questo era stato aggredito ed aveva dovuto lasciare il paese. Non aveva potuto portare con sè la moglie, che ora abita con un parente, per l’indisponibilità del denaro necessario. La moglie gli aveva riferito che i familiari di lei lo cercano ancora e che lo odiano in quanto lui è povero e loro benestanti e di non tornare perchè la se lo trovano lo uccidono. Aveva aggiunto di non aver denunciato le minacce perchè in Bangladesh la polizia è corrotta e si occupa solo delle persone che hanno soldi.
3. La Corte veneziana riteneva che le ragioni dell’allontanamento del richiedente dal paese di origine non fossero inquadrabili in alcuna delle fattispecie di protezione internazionale ed inoltre che il racconto non fosse credibile, in quanto non adeguatamente circostanziato e privo di coerenza e plausibilità. Inoltre, l’opposizione al matrimonio da parte della famiglia della moglie costituiva una vicenda privata, rispetto alla quale neppure risultava che l’autorità locale fosse incapace di assicurare tutela.
4. Aggiungeva che dal Report by the UN High Commissioner for Refugees aggiornato al 29.9.2017 non risultava che nella zona di Vobanipur e Daka (dove il richiedente è nato e per sua stessa ammissione ha sempre vissuto) vi fosse una situazione di violenza generalizzata o di conflitto armato o di anarchia senza il controllo delle autorità.
5. Neppure ravvisava i presupposti per la protezione umanitaria, mancando qualsiasi elemento anche a livello di allegazione idoneo a definire la presumibile durata di una esposizione a rischio.
6. Per la cassazione della sentenza S.M. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, cui gli intimati non hanno opposto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
7. Il richiedente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 per mancata valutazione della situazione del paese di origine (Bangladesh) ai fini del riconoscimento della sussistenza dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
8. Lamenta che la Corte territoriale abbia degradato la situazione riferita ad una questione meramente privata, senza valutare la mancanza di protezione da parte delle forze dell’ordine. Riferisce che nel rapporto Easo 2017 sul Bangladesh si legge che la Polizia è considerata dalla popolazione inaffidabile e che vi è una cultura dell’impunità.
9. Aggiunge che le affermazioni della Corte secondo cui la zona di Daka da cui proviene non sarebbe soggetta a rischio non trova conferma delle fonti ufficiali, potendosi ricavare dal sito del Ministero degli esteri che restano possibili “atti ostili provenienti da cellule terroristiche dormienti o da ambienti del locale estremismo”.
10. Lamenta altresì la mancata valutazione delle condizioni di vulnerabilità per le condizioni di instabilità del paese e che non sia stata compiuta una valutazione comparativa tra la situazione di integrazione raggiunta in Italia (contratto di lavoro prorogato sino al 12.6. 2018 con mansioni di commesso) e quella che troverebbe in caso di rimpatrio, che può comportare la limitazione dell’esercizio di diritti umani ineliminabili.
11. Il ricorso non è fondato.
Occorre ribadire che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018). Il ricorso al Tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale. In difetto di allegazioni circa la sussistenza di ragioni tali da comportare – alla stregua della normativa sulla protezione internazionale – per il richiedente un pericolo di un grave pregiudizio alla persona, in caso di rientro in Patria, la vicenda narrata deve considerarsi di natura strettamente privata, come tale al di fuori dai presupposti per l’applicazione, sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) (cfr. Cass. 15/02/2018, n. 3758).
12. Nel caso, la Corte territoriale ha ritenuto non credibile il racconto del richiedente operando una specifica valutazione basata sulla contraddittorietà e genericità di quanto riferito, privo dei sia pur minimi dettagli che consentissero di ritenere veritiera l’opposizione violenta della famiglia della moglie al matrimonio e la mancanza di protezione da parte delle forze dell’ordine che sarebbe stata il motivo dell’applicazione del principio di non-refoulement. Ha infatti riferito che il richiedente neppure aveva riferito dove i coniugi avessero vissuto per due anni in patria per sfuggire alle aggressioni, nè per quale motivo la moglie non fosse stata sottratta al marito, neppure una volta che questi era uscito dal paese, nè era stato fornito alcun riscontro proveniente dalla moglie, con la quale il richiedente pur assumeva di essere in contatto; inoltre, il richiedente aveva dapprima riferito di essersi rivolto alla Polizia che però non riusciva a trovare i parenti, mentre in Tribunale aveva detto di non averlo fatto perchè inutile in quanto la Polizia è corrotta. La valutazione risulta pertanto coerente con gli oneri motivazionali e con i parametri legali di giudizio (D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 3, comma 5).
13. Le circostanze fattuali tali da determinare il pericolo di coinvolgimento in atti di persecuzione nel paese di origine avrebbe dunque dovuto essere dedotto in giudizio dall’attuale ricorrente, che però non vi ha adeguatamente provveduto, come risulta dallo stesso ricorso per cassazione, in cui si allega, al più, la compatibilità del racconto con tale situazione e la situazione generale del Bangladesh.
14. Nella parte in cui i motivi si sostanziano in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal giudice territoriale sulla non credibilità del racconto dello straniero e nella prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle sue dichiarazioni essi sono poi inammissibili, considerato che il vizio di motivazione rappresentato (travisamento di fatti decisivi) non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico che ha evidenziato con coerenza le ragioni dell’inattendibilità della narrazione del ricorrente stesso.
15. La delibazione circa l’esclusione dell’esistenza in Bangladesh di una situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)) è stata inoltre compiuta dalla Corte di merito ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, correttamente attingendo le informazioni elaborate da agenzia di tutela dei diritti umani operanti a livello nazionale (Cass. n. 25083 del 23/10/2017), le cui risultanze non sono efficacemente contrastate mediante prospettazione di circostanze di fatto decisive di segno contrario, tale non essendo la (mera) possibilità di atti ostili provenienti da cellule terroristiche riferita dal sito del Ministero degli Affari Esteri e valorizzata nel ricorso.
16. Infondato è parimenti il motivo nella parte in cui lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, secondo la normativa anteriore alla modifica operata con il decreto L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito in L. n. 132 del 2018.
17. E’ evidente infatti che l’attendibilità e la rilevanza della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante anche ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, pur partendo dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente (Cass. 4455/2018), la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi. La rilevanza e l’attendibilità di quanto narrato dall’istante sono state, peraltro, escluse, nel caso di specie, per i motivi suesposti.
18. Nessuna rilevanza può, inoltre, attribuirsi di per sè al contratto lavoro e all’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria.
Questa Corte ha infatti chiarito (v. Cass.23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.
19. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072).
20. Segue coerente il rigetto del ricorso.
21. Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
22. Ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater non risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2019