Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.29315 del 12/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1272-1-2(119 proposto da:

G.N., elettivamente domiciliato in ROMA, piazza CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMILIANO VIVENZIO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE PRESSO LA PREFETTURA UTG DI MILANO – SEZIONE DI MONZA E DELLA BRIANZA 80185690585;

– intimato –

avverso il decreto n. 59290/2017 del TRIBUNALE, di MILANO, depositato il 04/03/9019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata. del 02/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARINA MELONI.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Milano sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, con decreto in data 4/3/2019, ha confermato il provvedimento di rigetto pronunciato dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Monza in ordine alle istanze avanzate da G.N. nato in Pakistan, il 10/12/1987, volte, in via gradata, ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, del diritto alla protezione sussidiaria ed il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria.

Il richiedente asilo proveniente dal Pakistan aveva riferito alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di essere fuggito dal proprio paese per paura dei membri appartenenti alla casta Cheema che lo cercavano per vendicarsi dell’uccisione di uno di loro ad opera di suo fratello. Avverso la sentenza del Tribunale di Bologna il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha spiegato difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n.25, art. 35 bis, commi 8,9, 10 ed 11, come modificato dal D.L. 17 febbraio 2017 n. 13, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il Tribunale di Milano, nonostante la espressa istanza del ricorrente, non aveva fissato l’udienza di comparizione delle parti e sentito la ricorrente sebbene mancante la videoregistrazione dell’audizione svoltasi davanti alla competente Commissione Territoriale.

Il motivo di ricorso, attinente ad una questione di rito, è totalmente infondato e deve essere respinto in quanto risulta dal provvedimento impugnato che il Tribunale territoriale, in mancanza della videoregistrazione delle dichiarazioni rese davanti alla competente Commissione Territoriale, ha fissato e regolarmente tenuto l’udienza di comparizione delle parti. Non sussiste, d’altra parte, alcun automatismo tra la mancanza di videoregistrazione e la rinnovazione dell’ascolto del richiedente (Cass.sez.1 n.17717/18), per cui rettamente il Tribunale, dopo aver adempiuto all’obbligo di disporre l’udienza di comparizione delle parti, ha ritenuto di poter decidere in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, e cioè il verbale o la trascrizione del colloquio personale (v., in tal senso, Corte di giustizia dell’Unione Europea, 26 luglio 2017, causa C348/16 Moussa Sacko contro Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano, p. 49); tanto più che, nella specie, il ricorso neppure indica se e quali nuovi elementi fosse indispensabile acquisire.

Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, per aver ritenuto non credibile il ricorrente.

La censura contiene una serie di critiche agli accertamenti in fatto espressi nella motivazione della corte territoriale che, come tali, si palesano inammissibili, in quanto dirette a sollecitare un riesame delle valutazioni riservate al giudice del merito, che del resto ha ampiamente e rettamente motivato la statuizione impugnata, esponendo le ragioni del proprio convincimento circa l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente.

A tal riguardo occorre osservare che il legislatore ha ritenuto di affidare la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo non alla mera opinione del giudice ma ha previsto una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui al D.Lgs. cit., art. 5, comma 3, lett. c)), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, “non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda” (Cass. ord. 26921/2017).

Alla luce di quanto sopra appare evidente che il dovere del giudice di considerare veritiero il racconto del ricorrente anche se non suffragato da prove richiede pur sempre che le dichiarazioni rese dal richiedente asilo siano ” considerate coerenti e plausibili” (art. 3, comma 5, lett. C) e che il racconto del richiedente sia in generale “attendibile” (art. 3, comma 5, lett. E). La difficoltà di provare adeguatamente i fatti accaduti prevista espressamente dal legislatore nel citato art. 3, comma 5, non impone certo al giudice di ritenere attendibile un racconto che, secondo una prudente e ragionevole valutazione, sia incredibile e fantasioso anche perchè i criteri legali di valutazione della credibilità di cui all’art. 5, comma 3, sono categorie ampie ed aperte che lasciano ampio margine di valutazione al giudice chiamato ad esaminare il caso concreto secondo i criteri generali, basti pensare ai concetti di coerenza, plausibilità (lett.c) e attendibilità (lett.e) che richiedono senz’altro un’attività valutativa discrezionale.

Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs n. 286 del 1988, art. 5, comma 6, riguardo alla mancata concessione della protezione per motivi umanitari in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

In ordine alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria il motivo si rivela inammissibile, a prescindere da ogni questione concernente l’applicazione al caso di specie della normativa recentemente introdotta dal D.L. n. 113 del 2018, convertito con modificazioni dalla L. n. 132 del 2018, fin quanto censura l’accertamento di merito compiuto dal Tribunale in ordine alla insussistenza di una particolare situazione di vulnerabilità del ricorrente: il ricorrente invero, a fronte della valutazione comparativa espressa dalla Corte di merito con esaustiva. indagine circa le condizioni rispettivamente descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, (valutazione in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede),non ha neppure indicato se e quali ragioni di vulnerabilità avesse allegato, diverse da quelle esaminate nel provvedimento impugnato.

Per quanto sopra si impone il rigetto del ricorso. Nulla per le spese in mancanza di attività difensiva del Ministero.

Infine deve darsi atto che sussistono nella specie i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Ricorrono i presupposti processuali per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione della Corte di Cassazione, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2019

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