LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18812-2017 proposto da:
G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 83/A, presso lo studio dell’avvocato WLADIMIRA ZIPPARRO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE 0636339100, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 79/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 02/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE GRASSO.
FATTO E DIRITTO
ritenuto, per quel che qui rileva, che della vicenda processuale è opportuno ricordare quanto appresso:
– in accoglimento dell’opposizione proposta da G.F. il Tribunale adito annullò le ordinanze-ingiunzione dell’importo di Euro 14.000,00 e di Euro 4.200,00 emesse dal Direttore della competente Agenzia delle Entrate, con la quale l’opponente, all’epoca agente di custodia e, quindi, pubblico dipendente, era stato sanzionato per avere ricoperto il ruolo di amministratore di fatto di talune società, senza aver previamente chiesto e ottenuto l’autorizzazione da parte della P.A., in violazione della L. n. 165 del 2001, art. 53, commi 9-11,;
– la Corte d’appello, riformando del tutto la decisione di primo grado, assumendo provata la contestata attività, rigettò l’opposizione;
ritenuto che avverso quest’ultima statuizione il Gravina ricorre sulla base di quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria, e che l’intimata amministrazione resiste con controricorso;
considerato che il primo motivo, con il quale il ricorrente denunzia nullità della sentenza ex artt. 348 bis c.p.c. e art. 348 ter c.p.c., in relazione agli artt. 360, n. 4 e 112, c.p.c., per non avere la Corte locale preso in esame la preliminare eccezione d’inammissibilità dell’appello per violazione dei mentovati artt. 348 bis e ter, c.p.c., è radicalmente destituito di giuridico fondamento per il concorrere di due ragioni, ognuna delle quali idonea a sostenere l’assunto:
a) questa Corte ha reiteratamente affermato che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dello stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito (Sez. 6, n. 13716, 5/7/2016, conf. Sez. L. n. 6715 del 2013), nel mentre qui il ricorrente lamenta non essere stata presa in esame richiesta di definizione anticipata ai sensi degli artt. 348 bis e ter c.p.c.;
b) la Corte d’appello, lungi dal non avere considerato l’ipotesi di dichiarare inammissibile l’appello, l’ha esclusa, avendo giudicato fondata l’impugnazione e, quindi, per forza di cose, ammissibile;
ritenuto che con il secondo, il terzo e il quarto motivo, tra loro osmotici, il Gravina prospetta violazione o falsa applicazione dell’art. 2639,2392,2393,2393 bis, 2394,2395 e 2697, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendosi, in sintesi, che:
– non v’era prova del fatto che il ricorrente avesse, con continuità e significatività, compiuto attività gestionali delle società di cui si discute, assumendo decisioni autonome;
– la Corte d’appello aveva tratto da una sentenza di patteggiamento penale il convincimento che il Gravina avesse gestito le predette società, nel mentre dalla sentenza in discorso poteva ricavarsi il solo argomento che l’imputato aveva abusato della sua qualità di agente di custodia;
considerato che il complesso censuratorio è inammissibile per le ragioni di cui appresso:
a) la sentenza d’appello fonda il proprio convincimento su una serie di convergenti indici rivelatori (molteplicità delle operazioni effettuate sul conto corrente bancario delle società “d’ordine mio proprio”; collocazione di sedi legali e operative presso immobili trovantesi nella disponibilità del Gravina, senza che constasse un uso derivante da titolo negoziale; assenza di qualunque prova dell’addotto scopo personale dei prelievi; emergenze ricavabili dalla sentenza di p atteggiamento);
b) il ricorrente, invece che contrapporre argomenti precipuamente avversativi dell’assunto, dopo aver riportato i principi di diritto in materia e alcune massime giurisprudenziali, sfuggendo al concreto confronto, si limita a contestare il risultato al quale giunge la Corte locale;
c) la evocazione di una norma, denunziata come violata o male applicata, perciò solo non determina nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente; diversamente, come accade qui, nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, la doglianza investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione (qui, in verità, non sperimentato per via esplicita) dell’art. 116, c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299);
d) quanto alle inferenze tratte dalla decisione assunta in sede penale deve rilevarsi l’aspecificità del rilievo, sub specie di non autosufficienza, in quanto non consta essere stata messa a disposizione della Corte la sentenza di cui si discute, senza contare che la predetta inferenza non assume, peraltro, rilievo decisivo nel ragionamento della Corte d’appello;
– considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;
considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della pubblica Amministrazione controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019