LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
Dott. GORI Pierpaolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 33795/2018 proposto da:
D.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Davide Verlato, domiciliato presso la Cancelleria della Corte;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t.;
– intimato –
avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il 10/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/10/2019 da GORI PIERPAOLO.
RILEVATO
che:
Con decreto n. 5383 depositato in data 15.4.1996, alias il 15.4.1998, nella controversia iscritta all’RGN 13298/2017 il Tribunale di Venezia rigettava il ricorso proposto da D.A., nato a ***** (alias *****), in impugnazione del provvedimento prefettizio di diniego notificatogli il 24.11.2017 dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona, sez. di Vicenza, con cui gli è stata rigettata la richiesta di riconoscimento tanto della protezione internazionale-sussidiaria quanto di quella umanitaria.
In particolare, il ricorrente teme i maltrattamenti dello zio con cui è cresciuto dopo la morte dei genitori, che non lo tollera perchè pensa porti sfortuna e crede che i genitori siano morti per tale ragione, volendo, inoltre, conservare per i propri figli il terreno lasciatogli dal padre in eredità. Avverso la decisione il richiedente ha proposto ricorso, notificato il 30.11.2018, affidato a due motivi, e il Ministero dell’Interno non si è difeso, restando intimato.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 il richiedente denuncia la violazione ed falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 in quanto il Tribunale di Venezia non avrebbe correttamente applicato il canone dell’onere della prova, in particolare circa la valutazione delle dichiarazioni del ricorrente, ritenute non credibili, e, avrebbe omesso di attivarsi al fine di una cooperazione istruttoria in ordine all’accertamento delle condizioni aggiornate del Paese di origine del richiedente.
Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il richiedente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. a), b) e c), del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, che impone al Tribunale di decidere sulla base di informazioni precise ed aggiornate, relativamente alla situazione generale dello Stato di origine, senza alcun automatismo discendente dalla ritenuta non credibilità del richiedente.
I motivi, strettamente connessi e attinenti all’onere della prova nei termini applicati dal Tribunale, sono destituiti di fondamento. Va reiterato il principio secondo il quale: “In materia di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, verifica sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 21142 del 07/08/2019, Rv. 654674 – 01).
Nel caso di specie la decisione censurata identifica i soprusi subiti dallo zio in Mali come una persecuzione meramente privata, che non integra i presupposti per le forme di protezione richieste, anche perchè per natura e frequenza degli episodi dedotti, questi non paiono sulla base del racconto giungere al livello di violazione grave dei diritti umani; nè induce a ritenere che il richiedente, ove rientrasse nella regione di origine, potrebbe essere perseguitato e correrebbe pericoli per cui è prevista la tutela richiesta, secondo un ragionamento immune da vizi logici censurabili in questa sede. Inoltre, il Tribunale non ha omesso di valutare le condizioni socio-politiche della zona e del Paese d’origine del richiedente, identificando con precisione sulla base delle fonti internazionali (in particolare ACCORD) la regione di Lasso ove è collocata la città di Sikasso, come una parte del Mali relativamente stabile dove non si sono registrati attentati nè morti, come in altre parti del Mali, escludendo motivatamente l’esistenza di uno stato di guerra diffusa o violenza generalizzata.
Per completezza, anche se in nessuno dei due motivi di ricorso si censura esplicitamente la decisione del Tribunale di mancata concessione della protezione umanitaria, si osserva che la deduzione, contenuta nella parte finale del secondo motivo, riferita all’attività lavorativa svolta dal ricorrente in Italia sino alla scadenza del permesso di soggiorno, va letta alla luce della giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 4455/2018), secondo la quale l’inserimento lavorativo, linguistico e affettivo costituisce un fattore concorrente, ma non sufficiente da solo ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria e il Tribunale, con un accertamento in fatto non debitamente impugnato in questa sede ha escluso la sussistenza di elementi di vulnerabilità che attingano il richiedente.
In conclusione, il ricorso va disatteso, e nessun provvedimento va adottato quanto alle spese, in assenza di effettive difese svolte dal Ministero.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2019