LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24034-2018 proposto da:
H.W., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LIVIO NERI;
– ricorrente
contro
MINISTERO DELL’INTERNO ***** COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI MILANO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
contro
PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimata –
avverso la sentenza n. 429/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO TERRUSI.
RILEVATO
che:
la corte d’appello di Milano ha respinto il gravame di H.W., pakistano, contro l’ordinanza del tribunale di Milano, di rigetto dell’opposizione avverso la decisione della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale;
per la cassazione della sentenza è adesso proposto ricorso in tre motivi, ai quali il ministero dell’Interno ha replicato con controricorso.
CONSIDERATO
che:
col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, e l’omesso esame di fatti decisivi a proposito del dovere di cooperazione istruttoria; assume di aver prodotto documentazione rilevante (segnatamente alcuni supporti fotografici del proprio matrimonio e dell’attività di sartoria svolta in Pakistan, la copia tradotta in italiano della denuncia sporta alle autorità locali di polizia per denunciare l’episodio di violenza subito dai familiari della moglie, la documentazione attestante la prassi dei matrimoni combinati in Pakistan) e lamenta che tale documentazione sia stata ignorata dalla corte d’appello, la quale si sarebbe limitata a motivare la decisione di non credibilità del richiedente in termini non rispondenti ai criteri di legge;
col secondo motivo egli denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5 e 8, stante l’irrilevanza della natura non statuale della persecuzione subita, avendo specificamente dichiarato e documentato giustappunto di aver sporto denuncia per l’aggressione subita, per quanto in un contesto di generale tolleranza in Pakistan del delitto d’onore;
i primi due motivi possono essere esaminati unitariamente;
dalla sentenza risulta che il richiedente aveva dedotto di esser stato costretto ad abbandonare il Pakistan per sfuggire alle minacce sfociate in un’aggressione armata da parte dei familiari della moglie, contrari al suo matrimonio;
la corte d’appello ha negato che la dedotta situazione di pericolo personale fosse stata allegata col giusto grado di specificità, e che fosse stata in qualche misura provata nei termini riferiti; ha inoltre e in ogni caso escluso, ai fini della protezione sussidiaria, che la zona di provenienza del richiedente (posta a nord della regione del Punjab) fosse interessata (in base al più recente rapporto Easo) da conflitto armato o da condizioni di violenza indiscriminata;
ora il primo motivo è generico nel riferimento all’onere di cooperazione istruttoria, dal momento che dalla sentenza non risulta che il ricorrente abbia posto a fondamento della domanda il pericolo di danno derivante da sistemi di regole non scritte socialmente accettate e generalizzate, sebbene esclusivamente un fatto di vita privata (l’opposizione al matrimonio da parte dei familiari della moglie);
non giova dunque invocare il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, poichè tale norma pone a caco dell’autorità decidente un più incisivo obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine – allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti (v. Cass. n. 7333-15, Cass. n. 2531915); non anche invece che si debbano fare approfondimenti di natura esplorativa dinanzi ad allegati rischi (per la vita o l’incolumità fisica) derivanti da contrasti di ordine puramente familiare e privato, ancorchè motivati da asserite ragioni etniche, rispetto ai quali contrasti neppure si comprende in qual senso e con riguardo a quali mezzi obiettivi e funzioni un’ indagine del genere potrebbe essere utilmente assolta;
nè miglior sorte possiede l’unito rilievo di vizio motivazionale, dal momento che l’attuale versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, esclude che possa tradursi in simil modo la doglianza di omesso esame di elementi documentali, essendo il vizio correlato, invece, alla mancata considerazione di “fatti storici”, puntualmente dedotti e dei quali sia ben spiegata la decisività (Cass. Sez. U n. 8053-14); cosa che dalla redazione del motivo di ricorso non emerge affatto;
da tanto deriva l’assorbimento del secondo motivo, poichè la riconduzione dell’episodio di minaccia al rango di vicenda personale e privata di per sè esclude – a fronte della non censurata affermazione della corte d’appello circa l’inesistenza di violenze generalizzate da conflitto armato nella zona di provenienza del richiedente – la pertinenza del riferimento all’istituto della protezione sussidiaria nelle distinte forme del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14;
col terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell’art. 5 T.U. immigrazione, per avere la corte d’appello escluso la sussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari;
pure il terzo motivo è inammissibile;
la corte del merito ha sottolineato che la vicenda del ricorrente, di valenza solo privata, era rimasta in sè sfornita di verosimiglianza e di supporto probatorio, il che non poteva supportare neanche il giudizio di personale vulnerabilità, essendo tale concetto da associare a valori internazionalmente e costituzionalmente tutelati; ha poi oltre tutto escluso che il ricorrente avesse raggiunto una soglia minima di integrazione sociale e lavorativa in Italia, non ricavabile dalla documentata mera dichiarazione di disponibilità all’assunzione da parte di un terzo;
il ricorrente censura la decisione affermando che la corte d’appello avrebbe dovuto comparare nel giudizio la situazione lasciata nel paese di provenienza, anche alla luce delle prospettive di integrazione sociale e lavorativa;
la tesi, che fa leva sul precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 4455-18, è del tutto astratta e avulsa dall’accertamento dei fatti, e non incrina la valutazione del giudice a quo;
codesta si concretizza in un giudizio di fatto correttamente attestato proprio sugli elementi della comparazione che si richiede; e di tale giudizio di fatto surrettiziamente si tenta di sovvertire l’esito;
invero nell’ottica di Cass. n. 4455-18 la valutazione comparativa costituisce presidio del discernimento di vulnerabilità personale per la riscontrata esistenza, innanzi tutto, di una “significativa ed effettiva compromissione dei (..) diritti fondamentali” a fronte del parametro dell’altrettanto effettivo “inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia”; il che la corte d’appello ha motivatamente escluso;
la declaratoria di inammissibilità del ricorso implica doversi dare atto dell’esistenza del presupposto per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato (Cass. n. 9660-19), se dovuto (Cass. Sez. U n. 23535-19).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.100,00 oltre le spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo idi contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2019