LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21542-2014 proposto da:
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, C.F. *****, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12;
– ricorrente –
contro
P.O., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO, 13, presso lo studio dell’avvocato OLGA GERACI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato EMILIO DOLFI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 857/2011 del TRIBUNALE di LIVORNO, depositata il 26/04/2012 r.g.n. 985/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/04/2019 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine rigetto;
udito l’Avvocato EMILIO DOLFI.
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Livorno, con sentenza del 26.4.2012, accertava il diritto di P.O. al risarcimento del danno quale conseguenza di comportamenti vessatori e “mobbizzanti” posti in essere nei suoi confronti da alcuni colleghi dell’ufficio distaccato del Provveditorato alle OO.PP per la Regione Toscana e condannava il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti al pagamento, in favore della predetta, al titolo dedotto, della somma complessiva di Euro 109.917,20, di cui Euro 93.350,00 a titolo di danno biologico da inabilità temporanea parziale ed Euro 16.567,20 per invalidità permanente ed aumento personalizzato per l’ulteriore danno non patrimoniale.
2. Il Tribunale rilevava: che la lavoratrice, dipendente del Ministero quale dattilografa (e successivamente con qualifica di operatore amministrativo), con inquadramento nel IV livello del c.c.n.l., aveva dedotto di avere subito, da parte dei colleghi e soprattutto dal proprio dirigente, una serie di atti qualificabili come mobbing, dai quali le erano derivati danno biologico permanente e temporaneo e danno non patrimoniale e morale; che il ricorso andava accolto, avendo i testi escussi confermato gli episodi di scherno dedotti; che avevano trovato riscontro le discriminazioni denunciate, l’esercizio abusivo delle prerogative datoriali in tema di controllo sulle presenze ed orario lavorativo, delle pause; che la tensione con il dirigente sulla fruizione degli incentivi alla progettazione e la sua ingiustificata pretesa non legittimavano il superiore ad apostrofarla con espressioni denigranti o ad affiggere in bacheca rifiuti della prestazione lavorativa da parte della lavoratrice accompagnati da espressioni di disprezzo, così come ulteriori condotte datoriali. Osservava che tale contegno datoriale, che, pur a fronte di inadempienze della P., avrebbe ben potuto consistere in reazioni disciplinate dall’ordinamento, quali irrogazione di sanzioni disciplinari, aveva creato nell’ufficio un clima che mal si attagliava alle esigenze di rispetto della dignità della lavoratrice, incidendo sulla salute della stessa e contrastando con il precetto di cui all’art. 32 Cost., in relazione all’art. 2087 c.c..
3. Osservava il Tribunale che il nesso causale tra condotte tenute dai colleghi di lavoro e dai superiori della ricorrente e le patologie da quest’ultima sofferte era stato acclarato a mezzo cc.tt.uu. in atti, che avevano ravvisato un’ inabilità temporanea in capo alla P. nella misura del 50% ed un’ invalidità permanente del 8% del totale.
4. La Corte d’appello di Firenze dichiarava inammissibile il gravame, con ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., comma 3, del 14.7.2014 (secondo quanto assume il ricorrente).
5. Della decisione del Tribunale ha chiesto la cassazione il Ministero, con unico motivo, cui ha resistito la P..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Sono dedotte violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 e dell’art. 2087 c.c., assumendosi che la Corte d’appello ha conferito rilievo alla deposizione dell’unico teste escusso, per affermare che l’appello avverso la sentenza di primo grado non aveva ragionevoli possibilità di successo. Si censurano vari passaggi motivazionali della sentenza della Corte d’appello ed omissioni nelle quali si assume essere incorsa quest’ultima, sia con riguardo alle ragioni per le quali era stato conferito credito alle risultanze di una c.t.u., piuttosto che ad altra pure espletata, sia con riguardo alla mancanza di ogni pronunzia sulla dedotta extrapetizione in relazione al danno biologico ed in relazione ad analoga mancanza sul motivo di gravame con cui asseritamente si denunziava che il periodo preso in esame doveva riguardare solo quello dall’1.7.1998, per difetto, in relazione al precedente, della giurisdizione del G.O.
2. Secondo il principio affermato da questa Corte a s. u., con sentenza 15.5.2018 n. 11850, al mancato deposito di copia dell’ordinanza di inammissibilità dichiarata ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. consegue l’improcedibilità del ricorso per cassazione. Il ricorso per cassazione proponibile, ex art. 348 ter c.p.c., comma 3, avverso la sentenza di primo grado, entro sessanta giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione, se anteriore, dell’ordinanza d’inammissibilità dell’appello, resa ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., è soggetto, ai fini del requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, ad un duplice onere di deposito, avente ad oggetto la copia autentica sia della sentenza suddetta sia, per la verifica della tempestività del ricorso, della citata ordinanza, con la relativa comunicazione o notificazione; in difetto, il ricorso è improcedibile, salvo che, ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice “a quo”, la Corte, nell’esercitare il proprio potere officioso, rilevi che l’impugnazione sia stata proposta nei sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell’una e dell’altra, entro il termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c. (Cass. s. u. 11850/18 cit.). Tale onere viene meno solo nell’ipotesi, prevista da Cass. 28.6.2018 n. 17020, secondo cui “in materia di giudizio di legittimità, chi propone ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, a norma dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3, è sollevato dall’onere di allegare la comunicazione (o la notificazione, se antecedente) dell’ordinanza che ha dichiarato inammissibile l’appello, qualora il ricorso sia stato proposto entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza, poichè, in tal caso, non occorre dimostrare la tempestività dell’impugnazione”.
3. Nella specie il ricorso è stato notificato il 16 luglio 2014, oltre il 60 giorno dalla data di pubblicazione della ordinanza della Corte di appello (avvenuta, per ammissione dello stesso ricorrente, il 14 luglio 2014), e pertanto occorreva conoscere la data di avvenuta comunicazione o notificazione della stessa.
4. Ancor prima occorre, tuttavia, osservare, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione, che le ragioni della stessa, in sede di ricorso ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3, devono riferirsi alla decisione di primo grado, ciò che invece non si rileva dal motivo di ricorso del Ministero, che è riferito a vizi della pronunzia di appello.
5. Quest’ultima non è oggetto dell’impugnazione ai sensi della norma suindicata, salve l’ammissibilità di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, limitatamente ai vizi propri della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del giudizio sotteso all’ordinanza in questione (cfr. Cass., s. u., 2 febbraio 2016 n. 1914) e la ricorribilità diretta per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c. senza che possa trovare applicazione l’art. 348-ter c.p.c., comma 3 – avverso il provvedimento con il quale il giudice, pur dichiarando l’inammissibilità dell’impugnazione ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., rilevi l’inesattezza della motivazione della decisione di primo grado e sostituisca ad essa una diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto, che, sebbene avente la veste formale di ordinanza, ha contenuto sostanziale di sentenza di merito (Cass. 23 giugno 2017 n. 15644).
6. Sul punto, tuttavia, è stato da ultimo osservato che “non costituisce vizio proprio dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., deducibile come motivo di ricorso per cassazione, la circostanza che il giudice di appello abbia motivato diffusamente le ragioni per le quali l’appello non aveva ragionevole probabilità di accoglimento, posto che l’eccesso motivazionale non può essere causa di nullità di un provvedimento giudiziario, e tanto meno dell’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., sia perchè non nuoce al soccombente, sia perchè non impedisce il raggiungimento dello scopo” (cfr. Cass. 19.2.2019 n. 4870).
7. Alla stregua di tali osservazioni – che assorbono ogni altra ragione di inammissibilità posta in evidenza dalla controricorrente, per la prevalente esigenza di conformazione degli istituti processuali alla garanzia della ragionevole durata del processo (cfr. Cass. 13.12.2018 n. 32331, Cass. 23.3.2018 n 7305, con richiamo alle predenti, Cass. n. 2723 del 2010; Cass. SS.UU., n 6826 del 2010; Cass. n. 15106 del 2013, concernente una ipotesi di notificazione nulla; oltre che Cass. SS.UU. n. 22079/2014 cit.) – deve pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità del ricorso.
8. Le spese del presente giudizio cedono a carico del Ministero e sono liquidate in dispositivo;
9. Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater nei riguardi del Ministero.
PQM
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso. Condanna il Ministero al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della inssussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2019