Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.30356 del 21/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. R.G.N. 1841/2014 proposto da:

D.G., rappresentato e difeso, come da procura speciale in atti, dagli Avv.ti Salvatore Capomacchia e Cesare Persichelli, con domicilio eletto presso lo Studio di quest’ultimo in Roma, via Crescenzio n. 20;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia-Giulia n. 65/11/13, depositata il 23 maggio 2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 settembre 2019 dal Consigliere Dott. MICHELE CATALDI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Stanislao Matteis, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. dello Stato Giovanni Palatiello per la controricorrente.

FATTI DI CAUSA

1. D.G. propone ricorso, affidato a sei motivi, per a cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia-Giulia n. 65/11/13, depositata il 23 maggio 2013, che ha rigettato il suo appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Udine, che aveva accolto solo in parte il ricorso del contribuente contro l’avviso d’accertamento con il quale l’Ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, e ss., aveva rettificato, ai fini IRPEF, il reddito dichiarato dal contribuente per l’anno d’imposta 2007.

2. Infatti, l’Ufficio – dopo aver inviato al contribuente il questionario con il cui richiedeva, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32, la documentazione relativa ai beni patrimoniali disponibili ed alle spese per incrementi patrimoniali di cui al periodo interessato – aveva fondato l’accertamento sintetico:

– sulla disponibilità di alcuni beni (due autovetture ed una residenza principale, utilizzata per otto mesi) le cui spese di mantenimento erano imputate integralmente al contribuente; oltre che di altri beni (due residenze secondarie) rispetto ai quali le spese di mantenimento gli erano attribuite solo in parte;

– su due assicurazioni, con relativi premi annui, imputate interamente al contribuente;

– sulle spese, per incrementi patrimoniali nel quinquennio 2007/2011, per un importo complessivo, al netto dei disinvestimenti realizzati, di Euro 65.064,00.

Concludeva pertanto l’Ufficio che il reddito dichiarato dal contribuente nel periodo d’imposta accertato si discostava di oltre un quarto da quello sinteticamente determinabile in base ai predetti indici, rideterminando quindi l’imponibile effettivo e l’imposta dovuta, oltre agli interessi ed alle relative sanzioni.

3. La CTP aveva accolto il ricorso del contribuente limitatamente ad una parte della voce relativa agli incrementi patrimoniali, rideterminando il reddito imponibile accertato (ridotto da Euro 87.476,48 ad Euro 74.001,19).

4. Proposto appello principale dal contribuente, la CTR lo ha respinto, ritenendo che il contribuente non avesse fornito la prova, neppure presuntiva, del possesso di altri redditi che, esenti o già tassati, fossero idonei a sostenere le spese necessarie al mantenimento dei beni ed agli incrementi patrimoniali imputati al D. nel periodo accertato.

Contestualmente, la CTR ha altresì escluso che fossero fondate le contestazioni del contribuente relative sia alla qualificazione delle somme percepite come rimborsi delle spese per le trasferte di lavoro, escludendo che potessero considerarsi redditi esenti; sia alla rilevanza dell’abitazione principale, ribadendo che trattasi di bene che il c.d. redditometro considera indice di capacità contributiva; sia alla pretesa incongruità delle tariffe utilizzate per determinare il costo di gestione delle autovetture, escludendo che fosse consentito utilizzare parametri (le tariffe predisposte dall’A.C.I.) diverse da quelle previste dal legislatore.

Inoltre, la CTR ha rigettato anche l’appello incidentale dell’Ufficio.

5. Proposto dal contribuente ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, l’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il giudice a quo omesso di pronunciarsi sul motivo d’appello relativo alla carente motivazione dell’atto impositivo, che avrebbe ignorato le giustificazioni e le dimostrazioni fornite, nel contraddittorio che ha preceduto la sua emissione, dal contribuente al fine di contrastare le risultanze dell’applicazione del c.d. redditometro. La relativa questione era stata proposta dal contribuente nel ricorso di primo grado (cfr. pag. 3 del controricorso dell’Ufficio) ed era stata respinta dalla CTP, secondo la quale l’obbligo di motivazione dell’accertamento non si spingeva al punto di dover replicare analiticamente ad ogni argomento sviluppato dal contribuente (cfr. pag. 2 del controricorso). La stessa questione è stata quindi riproposta come motivo dell’appello del contribuente (v. pag. 2 della sentenza impugnata).

Il motivo è infondato.

Infatti, la formula del dispositivo (” conferma l’impugnata decisione;”) della sentenza impugnata, letta in coerenza con le espressioni utilizzate più volte nella motivazione dello stesso provvedimento (“Nel merito, il Collegio rigetta l’appello del contribuente ritenendolo infondato (…) Le motivazioni esposte nell’atto di appello principale sono pertanto tutte prive pregio e del tutto ininfluenti (…)”) e tenendo conto anche dell’individuazione dei motivi dell’appello principale nella parte espositiva della decisione (che menzionava espressamente anche il preteso vizio di motivazione dell’accertamento), inducono a ritenere che la CTR si sia pronunciata, rigettandoli, su tutti i motivi dell’appello principale, compreso quello rispetto al quale il ricorrente lamenta invece la violazione dell’art. 112 c.p.c..

2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42; della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3; della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, e art. 12, comma 7.

Assume il contribuente che, ove si ritenga che la CTR si sia pronunciata, rigettandolo, anche sul motivo d’appello relativo alla censurata motivazione dell’accertamento, tale decisione sarebbe allora comunque in contrasto con le elencate norme, che imporrebbero invece di ritenere nullo l’atto impositivo controverso, che nella sua parte motiva avrebbe trascurato le giustificazioni e le dimostrazioni fornite, nel contraddittorio preventivo, dal contribuente al fine di contrastare le risultanze dell’applicazione del c.d. redditometro.

Il motivo è inammissibile, essendo generico e non autosufficiente, non risultando soddisfatti i requisiti posti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3. 4 e 6.

Infatti, nel ricorso per cassazione è essenziale il requisito, prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’esposizione sommaria dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, da effettuarsi necessariamente in modo sintetico, con la conseguenza che la relativa mancanza determina l’inammissibilità del ricorso, essendo la suddetta esposizione funzionale alla comprensione dei motivi nonchè alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte. (Cass., 24/04/2018, n. 10072 del 24/04/2018, ex plurimis).

I requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (Cass., 13/11/2018, n. 29093. Cfr. altresì Cass., 22/09/2016, n. 18623).

Il ricorrente, inoltre, deve specificare, a pena di inammissibilità, il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso.

In particolare poi, il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), – di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile (Cass., 28/09/2016, n. 19048).

In applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., con riferimento ai ricorso con il quale si censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è quindi necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (Cass., 28/06/2017, n. 16147. Conformi Cass., 13/02/2015, n. 2928; Cass., 17/10/2014, n. 22003; Cass., 19/04/2013, n. 9536).

2.1. Nel caso di specie il ricorrente, nel corpo del motivo, nè indica specificamente quali siano le argomentazioni, ed i relativi documenti a sostegno, che avrebbe prodotto nel corso del contraddittorio preliminare all’emissione dell’accertamento e che la motivazione dello stesso atto non avrebbe adeguatamente preso in considerazione; nè trascrive, quanto meno nella parte rilevante, la stessa motivazione dell’atto impositivo, tacciata della lamentata carenza. Il motivo è quindi inammissibile.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, e seguenti.

Afferma infatti il ricorrente che il giudice a quo avrebbe errato nell’affermare che, una volta dimostrata dall’Ufficio la disponibilità, in capo al contribuente e nel periodo rilevante, dei beni considerati dalla norma, e dai decreti ministeriali da essa previsti, indicativi della maggior capacità contributiva, grava sullo stesso contribuente l’onere di fornire la prova contraria, dimostrando il possesso di renditi non tassabili.

Secondo il ricorrente, invece, il ricorso agli indici del redditometro, da parte dell’Amministrazione, non sarebbe sufficiente ad onerare il contribuente della prova contraria, poichè l’Ufficio dovrebbe dimostrare ulteriormente la credibilità del preteso maggior reddito, attribuito in conseguenza dello scostamento di quello dichiarato da quello ricavabile dai dati statistici espressi dai beni indice.

Il motivo non è fondato.

Infatti, questa Corte ha già avuto modo di precisare che, in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dal D.M. 10 settembre e D.M. 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicchè è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., 31/10/2018, n. 27811. Conformi Cass., 30/05/2018, n. 13602 del 30/05/2018; Cass., 19/07/2017, n. 17793; Cass.,10/08/2016, n. 16912).

Pertanto, una volta dimostrata, da parte dell’Amministrazione, l’esistenza dei fatti (ovvero la disponibilità dei beni-indice) su cui si basa l’accertamento sintetico e la correlata presunzione di disponibilità di un reddito non dichiarato, è rimesso al contribuente l’onere della prova che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore, ovvero che le spese elevate – in conseguenza delle quali l’Amministrazione finanziaria ha ricalcolato il suo reddito complessivo nelle forme dell’accertamento sintetico ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, – sono state in realtà finanziate mediante redditi soggetti a ritenuta alla fonte, oppure esenti, o provenienti da finanziamenti di terzi, e pertanto legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.

Non si è quindi discostato, rispetto a tale orientamento, il giudice a quo.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38; del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22; e del D.M. 24 dicembre 2012, art. 5, affermando che il giudice a qua sarebbe incorso in un errore di diritto non applicando retroattivamente le modifiche recate dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38.

Il motivo è infondato, giacchè il D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, espressamente prevede che le modifiche che esso reca al testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, abbiano “effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”, vale a dire per gli accertamenti del reddito relativi ai periodi d’imposta successivi al 2009, tra i quali non è compreso quello sub iudice.

A sua volta, il cit. D.M. 24 dicembre 2012, art. 5, comma 1, intitolato “Contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva sulla base dei quali può essere fondata la determinazione sintetica del reddito.”, prevede che “Le disposizioni contenute nel presente decreto si rendono applicabili alla determinazione sintetica dei redditi e dei maggiori redditi relativi agli anni d’imposta a decorrere dal 2009.”.

Al riguardo questa Corte (Cass., 06/10/2014, n. 21041; Cass., 6/11/2015, n. 22744; Cass., 29.01.2016, n. 1772), nell’escludere l’applicazione retroattiva della novella in questione, ha già avuto modo di chiarire che:

a) non sono in questione i principi sulla retroattività, atteso che la giurisprudenza che afferma l’applicabilità degli indici previsti dal D.M. 10 settembre, e dal D.M. 19 novembre 1992, ai periodi d’imposta precedenti alla loro adozione (da ultimo, ex plurimis, Cass., 26/02/2019, n. 556) si fonda piuttosto sulla natura procedimentale delle norme dei decreti, dalla quale soltanto (e non dalla retroattività) consegue la loro applicazione con riferimento al momento dell’accertamento;

b) neppure è in questione il principio del favor rei, la cui applicazione di tale principio è predicabile unicamente rispetto a norme sanzionatorie, non invece in materia di poteri di accertamento o di formazione della prova, rilevanti in materia di redditometro;

c) l’individuazione della norma applicabile è questione di diritto intertemporale, che tuttavia necessariamente recede a fronte alla esplicita previsione di diritto transitorio, già richiamata, che inequivocabilmente identifica la norma applicabile.

Nè, peraltro, come apoditticamente sostiene il ricorrente, a fronte delle inequivoche disposizioni intertemporali e delle differenze strutturali delle relative fattispecie, possono essere automaticamente trasfusi, in materia di “nuovo” redditometro, i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sull’applicazione retroattiva dei provvedimenti che modificano gli studi di settore, per effetto della prevalenza dello strumento più recente rispetto a quello precedente, perchè più affinato e, pertanto, più affidabile.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, affermando che il giudice a quo avrebbe errato in diritto nell’escludere che possano qualificarsi come redditi esenti, al fine di giustificare il maggior reddito accertamento sinteticamente, i rimborsi-spese di trasferte, connessi all’uso della propria auto, pagati al D. dalla società della quale era amministratore.

La CTR ha richiamato, sul punto, le ragioni del rigetto dello stesso motivo da parte della CTP.

Il motivo è inammissibile, atteso che il ricorrente non ha nè riprodotto la documentazione relativa ai predetti rimborsi; nè ha indicato, nel corpo dello stesso motivo, in quale grado e fase dei giudizi di merito l’abbia prodotta, non adempiendo pertanto l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575), quindi precludendo la verifica, in questa sede, della natura delle attribuzioni patrimoniali in questione e della correttezza o meno della loro censurata qualificazione da parte del giudice a quo.

6. Con il sesto motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, artt. 2, 5 e 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, affermando che la CTR avrebbe errato nel respingere il motivo d’appello del contribuente fondato sulla “non applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie per difetto di colpevolezza”.

La lettura del complesso del motivo evidenzia come esso si articoli in due distinte censure.

Con la prima, il ricorrente sostiene che “Contrariamente a quanto affermato nella sentenza della CTR di Trieste, spettava all’Ufficio fornire la prova della sussistenza dell’elemento psicologico, dandone contezza nella motivazione dell’atto. (…) La colpa o il dolo non possono comunque formare oggetto di presunzione… (…). In ipotesi di accertamento standardizzato, basato su di un impianto statistico, la mancata dimostrazione (da parte dell’Ufficio) di una connotazione psicologica di condotta colposa o dolosa, esclude l’applicabilità delle sanzioni.”.

La censura, che ha quindi per oggetto l’attribuzione dell’onere della prova in ordine all’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, è infondata, atteso che, per giurisprudenza costante di questa Corte, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai fini dell’affermazione di responsabilità del contribuente, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, è sufficiente una condotta cosciente e volontaria, senza che occorra, da parte dell’Amministrazione finanziaria, la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso (Cass., 13/09/2018, n. 22329. Conformi, ex plurimis, Cass., 15/05/2019,n. 12901; Cass., 20/02/2009, n. 4171; Cass., 15/06/2011, n. 13068).

E’ quindi corretto il censurato capo della sentenza impugnata, che ha rigettato il relativo motivo d’impugnazione del contribuente.

Tuttavia, la stringata motivazione in diritto adottata dalla CTR, secondo cui sarebbe “irrilevante l’invocato difetto di colpa nel caso di indimostrata inapplicabilità al caso concreto dell’accertamento sintetico”, va integrata e corretta in conformità al predetto principio ed alla sua applicazione giurisprudenziale.

Con la seconda censura, il ricorrente sostiene che, nel caso in esame, la punibilità dovrebbe essere esclusa per le obbiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo delle disposizioni tributarie.

In parte qua, il motivo è inammissibile, non avendo il ricorrente dedotto, nel corpo della censura, se, ed in quale grado e fase dei giudizi di merito, la questione della ricorrenza della causa di non punibilità di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, (che è diversa da quella relativa all’onere della prova della colpa, di cui al cit. D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5), nella specie delle obbiettive condizioni d’incertezza relativamente alla norma tributaria, sia stata già sollevata prima del giudizio di legittimità.

Peraltro, la censura è inammissibile anche per la sua genericità, atteso che non individua nè le disposizioni tributarie rispetto alle quali dovrebbe riscontrarsi la dedotta incertezza obiettiva; nè, di conseguenza, specifica quale sia l’oggetto e la rilevanza di quest’ultima.

Infatti, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il contribuente ha l’onere, rimasto inadempiuto nel caso di specie, di allegare la ricorrenza degli elementi che giustificano l’esenzione per incertezza normativa oggettiva (Cass., 13/07/2018, n. 18718).

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2019

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