LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CIRIELLO Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10946/2015 proposto da:
B.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE FONTANA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO RUSCONI;
– ricorrente –
contro
CASALP – CASA LIVORNO E PROVINCIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DELL’EMPORIO 16/A, presso lo studio degli avvocati ILARIA PAGNI e RICCARDO DEL PUNTA, che la rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 102/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 17/02/2015 r.g.n. 165/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/07/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA CIRIELLO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo;
udito l’Avvocato RICCARDO DEL PUNTA.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 165 del 17 febbraio 2015 la Corte di Appello di Firenze, confermando la decisione di primo grado, per quanto qui rileva, ha respinto la domanda di B.V., dirigente dell’azienda ATER dal 3.6.1988, con la quale questi, tra l’altro, chiedeva il ricalcolo della retribuzione di anzianità, commisurata sull’intera anzianità maturata presso l’ente pubblico A.T.E.R., prima del passaggio alla S.p.A. C.A.S.A.L.P. (a decorrere cioè dalla data in cui era stato nominato dirigente, il 3.6.1988), invece che dalla data di decorrenza di tale passaggio, avvenuto il 1.4.2004.
La corte rigettava, altresì, la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno da demansionamento che il B. deduceva di aver subito, a seguito del passaggio a CASALP.
La Corte, richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. 14208/2013 e Cass. 25021/2014) e sul rilievo in fatto che non fosse in contestazione che al ricorrente fosse stata comunque riconosciuta la retribuzione individuale di anzianità, riteneva che tale operazione avesse soddisfatto la prescrizione del contratto collettivo volta a commisurare la retribuzione all’anzianità maturata, evidenziando come, pur risultando la successione tra l’ente pubblico e la CASALP s.p.a. disciplinata dall’art. 2112 c.c., non potesse darsi luogo alla applicazione retroattiva della regola invocata dal ricorrente, poichè non vigente nel corso dei “segmenti cronologici nei quali in astratto il diritto sarebbe maturato” e che, “se il passaggio non deve risolversi in un trattamento deteriore rispetto alla astratta progressione secondo le regole pregresse, ciò non comporta che esso debba rappresentare una condizione necessariamente migliorativa sulla base della pretesa applicazione del nuovo contratto su passate vicende del rapporto”.
Quanto al demansionamento, la corte giudicava infondata la relativa domanda poichè, in fatto, non emergeva in quali aspetti concreti lo stesso si fosse tradotto, giacchè le mansioni espletate dal ricorrente erano rimaste pacificamente le medesime nel nuovo assetto, unitamente alla qualifica e alla retribuzione, affermando come il lavoratore si fosse limitato ad un astratto raffronto tra le mansioni espletate e la qualifica assegnata.
Per la cassazione della sentenza B.V. ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui ha resistito CASALP, che ha depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Sintesi dei motivi di ricorso.
1.1 Con il primo motivo parte ricorrente denuncia la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la Corte d’appello, segnatamente con riferimento alla L.R. Toscana 4 aprile 1997, n. 26, art. 7, agli artt. 1362,1363,1365 c.c. ed agli artt. 10 e 38 del c.c.n.l. per i Dirigenti di Imprese Aderenti alla Confederazione Nazionale dei Servizi, rigettando la domanda senza applicare l’art. 7 cit. e disattendendo i canoni legali di ermeneutica dttcontratti e le clausole del contratto collettivo.
In particolare, secondo il ricorrente, dall’art. 7 della L.R. citata, emergerebbe l’intenzione del legislatore di assicurare ai lavoratori coinvolti nella vicenda traslativa di conservare tutti i diritti connessi alla esperienza e capacità professionale maturata. Nella stessa ottica si porrebbero gli artt. 10 e 38, del contratto collettivo, da cui si dovrebbe dedurre come, al lavoratore, in seguito al passaggio dal datore di lavoro pubblico al nuovo datore di lavoro privato, sia garantita non solo continuità di impiego, ma pieno riconoscimento dell’anzianità maturata, computata in relazione all’intero periodo per cui il lavoratore ha prestato opera in qualità di dirigente, nel caso di specie, indipendentemente dal soggetto che gestiva l’attività.
Evidenza, ancora, il ricorrente come la corte territoriale avrebbe dovuto tenere conto del tenore letterale dell’art. 38 del contratto collettivo il quale stabiliva come la valutazione del periodo svolto quale dirigente debba essere calcolata “a tutti gli effetti del presente contratto” ed avrebbe dovuto collegare tale disposizione all’art. 10 del medesimo contratto che stabilisce come “il computo dei bienni ha inizio dalla data di nomina a dirigente presso l’azienda”.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il vizio di violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello, rigettando la domanda di risarcimento dei danni da dequalificazione sul rilievo che il ricorrente si fosse limitato ad un astratto raffronto tra le mansioni espletate e la qualifica assegnata.
2. I due motivi non sono fondati.
2.1. Quanto al primo motivo, il ricorrente sostanzialmente chiede l’applicazione dell’art. 10 del CCNL Confservizi del 21 dicembre 2004 applicato dalla cessionaria, disciplinante gli scatti di anzianità, retroattivamente, ossia dall’inizio del rapporto presso l’ente pubblico di provenienza (ove la contrattazione non prevedeva tale diritto).
Sul punto, la corte di appello ha correttamente evidenziato come non sia consentita tale applicazione retroattiva e che la vicenda debba essere regolata dalla norma di cui all’art. 2112, comma 3, che prevede la sostituzione di un c.c.n.l. all’altro nella vicenda del trasferimento d’azienda.
La giurisprudenza di questa corte, in più occasioni ha avuto modo di evidenziare, interpretando l’art. 2112, c.c., comma 3, quanto al contratto collettivo applicabile in caso di trasferimento di azienda, che la contrattazione collettiva dell’impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto, da quella applicata nell’impresa cessionaria anche se più sfavorevole (Cass. n. 10614/2011; Cass. n. 5882/2010; Cass. n. 2609/2008; Cass. n. 9545/1999); tale sostituzione, tuttavia, non può ovviamente comportare l’applicazione retroattiva di norme contrattuali non vigenti nel periodo pregresso, ma regolare il periodo successivo, con tutti le garanzie ed i temperamenti previsti dall’art. 2112 medesimo.
In tale prospettiva la omessa considerazione, da parte della corte di appello, dell’art. 7 della L.R. cit., non comporta il vizio denunciata, poichè tale norma prevede che “il personale trasferito conserva la posizione giuridica ed economica in godimento all’atto del trasferimento, compresa la anzianità già maturata”, così limitandosi a riprendere il testo dell’art. 2112 c.c..
La decisione appare in sostanza conforme alla copiosa giurisprudenza di questa corte che ha avuto modo di chiarire, in vicende analoghe, con specifico riferimento alla fattispecie ora scrutinata (v Cass. n. 10385/2015 ex multis), e con orientamento che si intende in questa sede ribadire, la distinzione, “tra anzianità fatto storico, che di per sè non genera diritti, e diritto che deriva solo a seguito di norme che considerano tale fatto storico quale presupposto di fatto per il suo riconoscimento”; è stato dunque precisato che deve “ritenersi non imposta dall’art. 2112 c.c., la ricostruzione del trattamento scatti secondo la disciplina collettiva in essere presso il cessionario in riferimento all’anzianità maturata in precedenza presso l’ente cedente”; ciò perchè il diritto agli scatti non è correlabile con l’anzianità già conseguita, appunto perchè presso il datore di lavoro precedente non esisteva a tale diritto e comporterebbe una applicazione retroattiva del nuovo trattamento contrattuale, non imposta nè prevista dalla legge (e non appare, dunque, neppure viziata l’interpretazione dell’art. 38 del c.c.n.l., ove la corte ha correttamente riferito la valutazione dell’anzianità nel suo complesso, alla mera liquidazione delle indennità di fine rapporto).
2.2. Inammissibile è poi il secondo motivo di ricorso.
Con tale motivo il ricorrente si limita a contestare la decisione della corte di appello, che ha negato l’invocato risarcimento del denunciato demansionamento, con argomentazioni generiche che non si confrontano con la motivazione svolta dal collegio.
Dalla mera lettura della sentenza di appello, invero, emerge che la corte, dando atto delle emergenze istruttorie da cui si evinceva come le mansioni del ricorrente, nel cambio di gestione, fossero rimaste sostanzialmente invariate, ha quindi ritenuto come le allegazioni del ricorrente, che proponevano un astratto raffronto tra le mansioni espletate la qualifica assegnata, non fossero idonee all’accoglimento della domanda, poichè non si può invocare una dequalificazione professionale se non deducendo aspetti concreti da cui desumere il comportamento illegittimo del datore.
A fronte di tale motivazione la doglianza del ricorrente, lungi dal configurare una violazione di legge, adombra un vizio della motivazione che, con ogni evidenza, non risulta ammissibile poichè non conforme ai dettami del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
3. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 5200,00 di cui 5000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 10 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2019
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