LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 33820/2018 proposto da:
S.T., elettivamente domiciliato in Roma Via Angelico 38 presso lo studio dell’avvocato Maiorana Roberto che lo rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 319/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 10/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/10/2019 da Dott. FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Perugia, pubblicata il 19 maggio 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da S.T. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale del capoluogo umbro. La nominata Corte ha negato che al ricorrente potesse essere riconosciuta la domandata protezione internazionale.
2. – Il ricorso per cassazione si fonda su cinque motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo è lamentata la nullità della sentenza per omessa motivazione. Viene dedotto che la Corte di Perugia non avrebbe dato conto dello svolgimento del processo, non indicato quali fossero le doglianze sollevate da esso appellante, nè spiegato per quali ragioni le deduzioni svolte dovessero essere disattese.
Col secondo mezzo è denunciato l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale di esso istante. E’ affermato che la Corte avrebbe dovuto approfondire la situazione del Paese di provenienza al fine di valutare l’esistenza o meno di un sistema di violenza generalizzato. Viene ricordato che egli aveva dedotto di non poter trovare rifugio presso le autorità dello Stato di provenienza.
Il terzo mezzo oppone l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: e cioè la condizione di pericolosità e di violenza generalizzata esistenti in Mali. Viene spiegato che in sede di gravame il ricorrente aveva evidenziato che il Mali è un paese instabile, che non garantisce il rispetto della legalità e che è afflitto da condizioni di violenza generalizzata ove i gruppi terroristici hanno la capacità di operare su tutto il territorio nazionale.
Col quarto motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 14 e l’omesso esame delle fonti informative. Oltre a ribadirsi che la Corte di appello aveva omesso la valutazione della condizione del Mali, è dedotto che nella sentenza impugnata non era fatto cenno alle richiamate fonti, necessarie per apprezzare la situazione del paese, attualizzata al momento della decisione.
Il quinto mezzo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.P.R. n. 349 del 1999, art. 19, comma 2, art. 28 della L. n. 110 del 2017, dell’art. 10 Cost. e dell’art. 3 CEDU. La censura investe, da diverse angolazioni, la decisione con cui è stata negata la protezione umanitaria, pur essendo “rimaste accertate le gravissime condizioni socio-politico-ecomomiche attualmente esistenti in Mali e i rischi per l’incolumità personale del richiedente in caso di rimpatrio, derivanti da atti terroristici diffusi e di conflitto armato ancora in corso”.
2. – Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
La Corte di appello ha respinto il gravame proposto osservando come la vicenda narrata, incentrata sulla minaccia di morte e il ferimento di cui sarebbe stato vittima l’istante, e di cui sarebbero stati responsabili i di lui fratellastri (minaccia e ferimento motivati dal rifiuto del richiedente di abbandonare l’abitazione familiare) non rientrava nell’ipotesi di persecuzione individuale che davano titolo alla protezione richiesta; lo stesso giudice distrettuale ha poi evidenziato che l’appellante non aveva dato prova di aver chiesto aiuto all’autorità statuale e che, inoltre, non esisteva riscontro del fatto che questa si fosse mostrata tollerante nei confronti degli episodi narrati, o incapace di porvi rimedio. Dopo aver rilevato che il richiedente aveva lasciato il paese per una propria scelta personale, ha evidenziato che lo stesso non aveva “fatto alcun cenno a possibili situazioni di insicurezza generale e di assenza di protezione da parte delle autorità statuali” rilevando che la narrazione di episodi anche violenti, ma strettamente interpersonali può non dar luogo alla necessità dell’approfondimento istruttorio ufficioso; soffermandosi poi sul rischio effettivo di essere sottoposto a pena di morte, a tortura o a trattamenti inumani e degradanti, la Corte di merito ha evidenziato come non vi fossero “elementi per affermare la sussistenza di tali gravi danni per la persona, come indicato nella motivazione della decisione impugnata, alla quale interamente si rinvia”.
In tal modo, però, la Corte di appello ha mancato di affrontare il tema della protezione sussidiaria fondata sulla fattispecie di cui all’art. 14, lett. c): e cioè su quella condizione di violenza indiscriminata che, come ricordato in ricorso (cfr., in particolare, pagg. 2 e 10) era stata fatta valere nella fase di gravame.
E’ qui appena il caso di rilevare che, nel caso di cui all’art. 14, lett. c) cit., l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale. Ciò implica che la protezione sussidiaria, nel caso in esame, vada accordata per il sol fatto che il richiedente provenga da territorio interessato dalla menzionata situazione di violenza indiscriminata: situazione in cui il livello del conflitto armato in corso è tale che l’interessato, rientrando in quel paese o in quella regione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (con riferimento all’interpretazione dell’art. 15, lett. c), della direttiva del Consiglio n. 2004/83/CE, di cui la richiamata norma nazionale costituisce recepimento, cfr. Corte giust. 17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji, richiamata da Corte giust. 30 gennaio 2014, C285/12, Diakitè; per la giurisprudenza nazionale cfr. pure, di recente: Cass. 2 aprile 2019, n. 9090; Cass. 13 maggio 2018, n. 13858; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25083; Cass. 21 luglio 2017, n. 18130). In considerazione di ciò, la Corte di appello avrebbe dovuto esaminare la situazione del Mali – segnatamente della regione di provenienza dell’istante – anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3: e ciò allo scopo di verificare se ricorresse in concreto la fattispecie, delineata dalla norma, di minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante da situazioni di conflitto armato o internazionale.
Nè può credersi che il giudice del gravame abbia assolto al proprio compito operando il rinvio alla decisione di primo grado.
Infatti, il richiamo all’ordinanza del Tribunale è riferito al rischio del richiedente di essere sottoposto a pena di morte, a tortura o a trattamenti detentivi inumani o degradanti (pag. 3 della sentenza impugnata), e quindi alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Del resto, la sentenza d’appello può essere motivata per relationem, purchè il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicchè dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. 5 novembre 2018. n. 28139; Cass. 19 luglio 2016, n. 14786): nel caso in esame, il rinvio alla pronuncia di primo grado è operato con riferimento ai profili indicati, senza far menzione alcuna delle deduzioni svolte, in appello, con riguardo alla asserita sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c).
Resta assorbita la censura sollevata con riguardo al diniego della protezione umanitaria.
3. – La sentenza è dunque cassata per l’accoglimento, nei termini indicati, dei primi quattro motivi di ricorso; il quinto resta assorbito. La causa è rinviata alla Corte di appello di Perugia, che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie nei sensi di cui in motivazione i primi quattro motivi di ricorso, dichiarando assorbito il quinto, e rinvia la causa alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019