LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12433/2018 R.G. proposto da:
S.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Mura Giovanni Angelo, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 224/18 depositata il 14 marzo 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 settembre 2019 dal Consigliere Mercolino Guido.
RILEVATO
che S.D., cittadino della Costa d’Avorio, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza del 14 marzo 2018, con cui la Corte d’appello di Cagliari ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 28 luglio 2017 dal Tribunale di Cagliari, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;
che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251 e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la credibilità dei fatti allegati a sostegno della domanda, in virtù della mancanza di riscontri probatori, senza tener conto dell’attenuazione del regime ordinario dell’onere della prova operante nella materia in esame, che avrebbe imposto alla Corte territoriale di esercitare i propri poteri officiosi d’indagine;
che il mancato esercizio di tali poteri è stato giustificato dalla Corte territoriale con il carattere scarsamente circostanziato delle dichiarazioni rese dal ricorrente, ritenute non solo non suffragate da alcun elemento ulteriore, ma intrinsecamente inidonee ad evidenziare da un lato l’esposizione ad atti di persecuzione diretta per motivi di razza, religione, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, che ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e), costituisce il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato, dall’altro la sussistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del ricorrente, in conseguenza dell’uccisione dei suoi genitori, che ai sensi del cit. D.Lgs. n. 251, art. 14, lett. b), avrebbe potuto assumere rilievo ai fini dell’accesso della protezione sussidiaria;
che tale apprezzamento trova conforto nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di protezione internazionale, secondo cui l’attenuazione del principio dispositivo derivante dalla previsione del potere officioso d’integrazione istruttoria riconosciuto al giudice opera esclusivamente sul piano probatorio, e non dispensa quindi il richiedente dall’onere di allegazione dei fatti giustificativi della protezione, con la conseguenza che, ritenuta non credibile la vicenda riferita a sostegno della domanda, non è necessario procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori, dal momento che il dovere di cooperazione istruttoria incombente al giudice non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass., Sez. VI, 20/12/2018, n. 33096; 30/10/2018, n. 27503; Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105);
che con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata non ha tenuto conto delle censure sollevate nell’atto di appello relativamente alla natura privata attribuita alla minaccia di danno da lui allegata, non avendo considerato che, agli effetti previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), tale minaccia può provenire anche da soggetti non statuali, se lo Stato o i partiti o le organizzazioni che controllano il territorio non possono o non vogliono fornire protezione;
che, indipendentemente dalla sua riconducibilità all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura, riguardante l’inquadramento della vicenda personale del ricorrente nella fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), e riflettente pertanto la falsa applicazione di tale disposizione, non attinge la ratio della statuizione impugnata, individuabile non già nell’affermazione della possibilità per il ricorrente di avvalersi della tutela delle autorità statali o locali, per far fronte al rischio di subire la stessa sorte dei suoi genitori, ma nell’esclusione, anche in ragione del tempo trascorso, dell’esposizione del richiedente ad una minaccia grave da parte degli stessi responsabili dell’omicidio, e della conseguente necessità di ricorrere alle forze dell’ordine;
che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, comma 2, e dell’art. 131 c.p.c., comma 1, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in virtù della genericità ed infondatezza dell’appello, ritenuto espressione di un comportamento contrario alle regole di correttezza e buona fede, senza considerare che il mero rigetto dell’impugnazione non giustifica l’affermazione della colpa grave dell’appellante;
che la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, disposta con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta una modificazione del regime d’impugnazione del provvedimento, che resta quello ordinario e generale dell’opposizione prevista dallo stesso D.P.R., art. 170, dovendosi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanto adottata con sentenza, sia per ciò solo impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, previsto solo per l’ipotesi contemplata dal cit. D.P.R., art. 113 (cfr. Cass., Sez. I, 11/12/2018, n. 32028; Cass., Sez. III, 8/02/2018, n. 3028; Cass., Sez. II, 6/12/2017, n. 29228);
che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
PQM
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019