LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –
Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15522-2018 proposto da:
MCDONALD’S DEVELOPMENT ITALY LLC, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI SAN NICOLA DA TOLENTINO 67, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO MAGGI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati STEFANO PARLATORE e DANIELE GERONZI;
– ricorrente –
contro
A.E.M.P., elettivamente domiciliato in *****, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA COCCIA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 551/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 16/03/2018, R. G. N. 1632/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2019 dal Consigliere Dott. ARIENZO ROSA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato DANIELE GERONZI;
udito l’Avvocato LUCIA AUROLA per delega avvocato NICOLA COCCIA.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 16.3.2018, respingeva il reclamo avverso la decisione del Tribunale della stessa città, che aveva rigettato il ricorso in opposizione di Mc Donald’s Devolopment Italy Llc, confermando l’ordinanza emessa il 23.6.2017 a seguito della fase sommaria ex L. n. 92 del 2012. L’ordinanza aveva accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 15.10.2013, dichiarando illegittimo il licenziamento impugnato da A.E.M.P. ed aveva condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, nonchè al pagamento di un’indennità risarcitoria dalla data del licenziamento fino alla reintegra.
2. La Corte milanese osservava che dai dati documentali acquisiti risultavano due distinti rapporti di lavoro tra le parti, il primo dei quali, avente inizio dal 14 ottobre 2013, era ricondotto dalle parti ad un contratto di lavoro accessorio ed il secondo, intervenuto alla scadenza del primo, con inizio dal 20.12.2013, a contratto di apprendistato professionalizzante della durata di 36 mesi, con allegato piano formativo individuale.
3. Premesso che il primo dei contratti costituiva uno strumento finalizzato a regolarizzare attività lavorative non riconducibili a tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato, autonomo o ad attività professionali, ma a mere prestazioni di lavoro alle quali assicurare le tutele minime previdenziali ed assicurative, allo scopo di contrastare forme di lavoro irregolare, la Corte osservava che nella specie il lavoratore era stato sempre inserito nei turni di lavoro predisposti dalla società ed assegnato ai diversi reparti del negozio di Assago, al pari di colleghi stabilmente assunti.
4. Aggiungeva che vi era stata per tutta la durata dei successivi e consecutivi rapporti una soggezione ad orari indicati dalla società ed alle direttive impartite dalla stessa in persona dei suoi responsabili, per cui non era rinvenibile una ragione effettiva per distinguere tra due diverse tipologie contrattuali, non essendo scontato che il lavoratore avesse avuto nemmeno per il successivo rapporto di apprendistato una reale formazione.
5. Rilevava che la prova orale orientava nel senso di ritenere che si era fatto ricorso ad una utilizzazione da parte della società di due forme contrattuali al fine di coprire mansioni relativamente semplici nell’ambito di un unico e prolungato rapporto precario, secondo uno schema del tutto favorevole alla società.
6. Evidenziava che il limite quantitativo fissato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 70, (quello di Euro 2000,00) riferito ai compensi percepiti per prestazioni accessorie in favore di un singolo committente nel corso dell’anno solare dovesse essere interpretato come compenso lordo e non netto, e che, poichè il valore del voucher era pari a 10,00 Euro, i 2000,000 Euro di compenso massimo corrispondevano a 200 vouchers e quindi a 200 ore che il lavoratore poteva prestare nei confronti del singolo committente nel corso di un anno solare.
7. Avendo il lavoratore prestato incontrovertibilmente 231 ore di lavoro accessorio, per un reddito imponibile di Euro 2.310,00, il limite era stato nella specie superato, con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro accessorio in rapporto di lavoro subordinato.
8. La Corte riteneva che, sulla base di invalsa consuetudine espressiva, per compenso doveva intendersi la retribuzione per il lavoro eseguito e che, dal confronto tra i due commi dell’art. 72 (uno riferito al compenso, l’altro alle spettanze corrisposte dal datore), il compenso doveva essere inteso come valore nominale del voucher, ossia quale somma lorda rappresentata dallo stesso, in quanto, a giudicare diversamente, il limite di liceità per il ricorso al lavoro accessorio sarebbe stato di 2666,66 ore.
9. La disposizione, per la sua finalità antielusiva, doveva essere interpretata in modo semplice, ossia in modo conforme alla consuetudine anche lessicale seguita, e non come somma di danaro concretamente riscossa dal lavoratore pari al 75% del valore nominale del voucher.
10. Di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, il lavoratore.
11. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 70 e 72, per avere la sentenza impugnata riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fra essa società ed A.E.M. ritenendo le modalità delle prestazioni svolte durante il rapporto di lavoro accessorio rivelatrici di tale natura, in tal modo ponendosi in violazione della disciplina sul lavoro accessorio, in quanto la valutazione dei requisiti di legittimità era assorbita dai parametri numerici previsti dalla disciplina in esame, non indicando il legislatore ulteriori condizioni per ricorrere a detta forma di lavoro flessibile.
1.1. In particolare, sostiene che non vi era il vincolo erroneamente indicato dalla Corte territoriale, secondo cui il lavoro accessorio non poteva essere legittimamente utilizzato per prestazioni dal contenuto estremamente semplice e svolte con le modalità del lavoro subordinato, potendo lo stesso essere eseguito per qualsiasi tipo di prestazione lavorativa. Aggiunge che deponevano in tale senso giurisprudenza di merito, orientamenti dottrinari e prassi interpretative del Ministero del Lavoro e dell’INPS, che avevano confermato la rilevanza a fini qualificatori unicamente del rispetto del requisito di carattere economico di 5000,00 e 2000,00 Euro, non essendo consentito entrare nel merito delle modalità di svolgimento della prestazione, con ciò vanificandosi le finalità stesse dell’istituto.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 70 e 72, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la sentenza impugnata ritenuto che il limite massimo di Euro 2000,000 per i compensi percepiti da parte di un singolo committente nell’anno solare per prestazioni di lavoro accessorio dovesse essere riferito al valore nominale dei buoni o vouchers pari a Euro 10,00 e non al compenso percepito dal lavoratore pari ad Euro 7,50, adducendo che vi era stata un’interpretazione contra legem, per essere del tutto pacifico che, per calcolare i limiti dei compensi percepiti nell’ambito di prestazioni di lavoro accessorio, ci si dovesse riferire alle somme “nette” percepite dal lavoratore e non, invece, al valore nominale riportato nei vouchers con cui la prestazione era stata retribuita.
2.1 Anche per tale motivo la società ha riguardo a giurisprudenza di merito, circolari interpretative INPS, vademecum sulla Riforma Fornero pubblicato dal Ministero del Lavoro del 22.4.2013, indicate come di valore, se non vincolante, sicuramente decisivo per ricostruire l’intenzione del legislatore. Assume che questi deporrebbero per la coincidenza dei termini compenso e spettanze, entrambi riferiti alla somma in concreto percepita dal lavoratore per il lavoro accessorio, e quindi per un importo di Euro 7,50 all’ora, esente da qualsiasi imposizione fiscale, al netto di contribuzione a favore della Gestione separata INPS, di quella in favore dell’INAIL per l’assicurazione sugli infortuni e del compenso per il concessionario (INPS) per la gestione del servizio, per un totale del 25% del valore nominale del voucher.
3. Al di là dei rilievi della ricorrente sulla natura e finalità della normativa contenente la disciplina dei rapporti di lavoro accessorio, la motivazione della Corte è più complessa e si fonda non solo sulle argomentazioni sottoposte a censura, ma anche sulla rilevata mancanza di ogni ragione effettiva per fare ricorso alle due diverse tipologie contrattuali utilizzate in relazione ad un indistinto e prolungato rapporto lavorativo solo formalmente precario ed in tal guisa del tutto favorevole alla società, senza alcuna giustificazione del mutamento di titolo, in mancanza anche di una reale formazione per il successivo rapporto qualificato come apprendistato, e sulla avvenuta utilizzazione, da parte della società, di due forme contrattuali al fine di coprire mansioni relativamente semplici, rimaste invariate nel corso dell’intero periodo lavorativo. Peraltro, ulteriore indice di utilizzazione di uno schema contrattuale non corrispondente alla reale essenza del rapporto era rinvenuto nell’esiguità del periodo di durata del rapporto di lavoro accessorio, con utilizzo di un numero di vouchers consistente in arco temporale ridotto.
4. Tali considerazioni consentono di escludere la idoneità del primo motivo a scalfire la ratio decidendi che sorregge la decisione impugnata, che, per quanto detto, si articola su un piano diverso e più ampio, teso a valorizzare la reale consistenza della natura dell’unico rapporto, desunta, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, non da un’indagine del carattere della prestazione resa con riferimento al solo lavoro qualificato come accessorio, ma dalla sostanziale uniformità della prestazione lavorativa anche nel successivo periodo destinato alla formazione, rivelatrice dell’adozione di uno schema formale divaricato rispetto alla sostanza del rapporto, connotato da elementi propri della subordinazione in relazione all’unitaria ricostruzione dello stesso.
3. Rispetto a tale ratio decidendi le ulteriori argomentazioni rese dalla Corte territoriale, laddove affrontano la diversa questione, quanto al lavoro accessorio, del superamento dei limiti economici attraverso l’esame del senso da attribuirsi all’espressione “compenso” ed a quella “spettanze”, configurano un’ autonoma ratio decidendi, ulteriore rispetto alla prima, che già in modo autonomo sorregge la decisione.
4. Ciò consente di richiamare il principio in più pronunzie affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (cfr., in tal senso, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660; Cass. 8.8.2005 n. 16602; Cass. 8.2.2006 n. 2811; Cass. 22.2.2006 n. 3881; Cass. 20.4.2006 n. 9233; Cass. 8.5.2007 n. 10374; Cass. sez. I 14.6.2007 n. 13906, conf. a Cass., sez. un. 16602/2005).
5. Nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la reiezione del primo motivo per le ragioni indicate conduce alla declaratoria di inammissibilità del secondo motivo per difetto di interesse.
6. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
7. Sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
PQM
La Corte rigetta il primo motivo e dichiara inammissibile il secondo. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del citato D.P.R. art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2019