Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.32943 del 13/12/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34861/2018 proposto da:

N.D.O., elettivamente domiciliato in Roma Via Torino 7, presso lo studio dell’avvocato Barberio Laura, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Vitale Gianluca;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 769/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 24/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/11/2019 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza depositata il 24 aprile 2018, ha rigettato l’appello avverso il decreto con cui il Tribunale di Torino aveva rigettato la domanda proposta da N.D.O., cittadino della Nigeria, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, non essendo state ritenute credibili le sue dichiarazioni (costui, di professione commerciante, aveva riferito che, dopo aver partecipato nel 2011 ad una riunione del Massob – Movement for the Actualization of the Sovereign State of Biafra – aveva iniziato a ricevere minacce e nel 2014, dopo aver saputo che alcuni giovani lo stavano cercando, aveva deciso di partire per la Libia, lasciando la sua attività al fratello).

Al richiedente è stata inoltre negata la protezione sussidiaria, essendo stata ritenuta l’insussistenza di una situazione di violenza generalizzata nella sua zona di provenienza.

Il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari per carenza di una condizione di vulnerabilità.

Ha proposto ricorso per cassazione N.D.O. affidandolo a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 comma 2 e att. 3, art. 27, comma 1 bis, D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, art. 16 direttiva 2013/32/UE, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

Lamenta il ricorrente che le argomentazioni con cui la Corte d’Appello ha ritenuto la non credibilità del suo racconto, essendo il frutto di un parere speculativo e soggettivo, si pongono in palese violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

Espone di aver contestato nell’atto di appello i dubbi sollevati dal Tribunale in ordine al suo racconto, rimproverando, altresì, alla Corte di non aver considerato la sua condizione di analfabetismo.

In conclusione, il giudice di secondo grado ha violato i parametri normativi che disciplinano gli indici di valutazione della credibilità delle dichiarazioni del richiedente, limitandosi a formulare opinioni soggettivistiche.

2. Il motivo è inammissibile.

Va, osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Cass. n. 3340 del 05/02/2019).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha indicato in modo specifico ed articolato le ragioni per cui non ha ritenuto credibile il racconto del richiedente, evidenziando che era del tutto inverosimile che il ricorrente avesse potuto riconoscere gli autori delle minacce telefoniche come propri compagni di scuola, presumibilmente bambini all’epoca della loro frequentazione, che le minacce ricevute (cinque nel 2011) avrebbero determinato lo stesso a lasciare il paese a distanza di ben quattro anni, che, infine, il ricorrente non era stato in grado di fornire elementi idonei a superare i dubbi di credibilità sollevati dal Tribunale in ordine alla sua appartenenza al *****, acronimo di cui non aveva saputo neppure riferire il significato.

Il ricorrente ha contestato il giudizio di non credibilità formulato dal giudice di merito, senza neppure allegare gravi anomalie motivazionali (nei termini sopra illustrati), che sono le uniche attualmente denunciabili nei ristretti limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ma limitandosi a dedurre che il giudice di secondo grado aveva ripreso la motivazione del Tribunale, che si era a sua volta appiattito sulla valutazione della Commissione territoriale.

Inoltre, il ricorrente, con l’apparente censura della violazione da parte del Tribunale di una norma di legge, ovvero il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, ha, in realtà svolto delle censure di merito, in quanto finalizzate a prospettare una diversa lettura delle sue dichiarazioni.

In proposito, questa Corte, sempre nella pronuncia n. 3340 del 05/02/2019 sopra citata, ha statuito che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, con la conseguenza che il giudizio di fatto in ordine alla credibilità del richiedente non può essere censurato sub specie violazione di legge ed è quindi sottratto al sindacato di legittimità.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19.

Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello ha omesso il giudizio comparativo tra la vita privata familiare del richiedente in Italia e la situazione personale dallo stesso vissuta prima della partenza.

4. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente, oltre a non aver dedotto assolutamente nulla in ordine alle proprie condizioni personali, se non concentrando ogni sforzo di allegazione sulla sua vicenda – ritenuta non credibile dai giudici di merito – parimenti nulla ha allegato in ordine alla eventuale privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani nel Paese d’origine, dolendosi soltanto dell’omesso giudizio comparativo da parte dei giudici di merito tra i due contesti di vita vissuti.

Infine, comunque inconferente è il livello di integrazione eventualmente raggiunto dall’odierno ricorrente nel paese d’accoglienza, elemento che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 2 e la violazione dei criteri di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Contesta il ricorrente di aver posto un comportamento anche solo astrattamente riconducibile alle ipotesi di dolo e colpa grave.

4. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che questa Corte ha più volte affermato che la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, adottata con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 della stesso D.P.R.. Si deve quindi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanto adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dall’art. 113 del D.P.R. citato. (Cass. 29228/2017; conf. Cass. n. 30282018 e n. 32028/2018).

Ne consegue che il ricorrente avrebbe dovuto promuovere tempestivamente lo speciale procedimento di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170 e non attendere la proposizione del ricorso per cassazione.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite, non essendosi il Ministero intimato costituito in giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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