Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.33027 del 14/12/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 11321 del ruolo generale dell’anno 2014, proposto da:

M.D., Ma.Do., B.P.L., in nome proprio quali soci e M.D. e Ma.Do. anche in qualità di legali rappresentanti della società ” M.L.R.

& Figli” s.n.c., già in liquidazione oggi cessata, e tutti nella qualità di eredi dell’altro socio M.L.R., rappresentati e difesi, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avv.to Salvatore Lorenzo Campo, elettivamente domiciliati in Roma alla Via Monte Giberto n. 47 presso lo studio dell’avv.to Alessia Bernardi;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– resistente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 115/18/2013, depositata il 30 settembre 2013, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19 settembre 2019 dal Relatore Consigliere Dott. Putaturo Donati Viscido di Nocera Maria Giulia.

RILEVATO

che:

– con la sentenza n. 115/18/2013, depositata il 30 settembre 2013, la Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva parzialmente l’appello proposto da ” M.L.R. & Figli” s.n.c., già in liquidazione poi cessata, in persona del legale rappresentante pro tempore, M.D., Ma.Do. e B.P.L., nella qualità di soci, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Varese n. 24/05/12, che, previa riunione, aveva rigettato i ricorsi proposti dai suddetti contribuenti avverso: 1) l’avviso di accertamento n. ***** con il quale l’Ufficio aveva contestato la “indebita deduzione di componenti negativi inesistenti o comunque non documentati per Euro 169.698,00,” recuperando, per l’anno 2005, una maggiore Irap, oltre interessi e sanzioni; 2) l’avviso di accertamento n. *****, con il quale l’Ufficio aveva contestato, per l’anno 2005, un maggiore reddito di impresa per omessa fatturazione di beni destinati al consumo personale o familiare dei soci, recuperando maggiore Irap, oltre interessi e sanzioni; 3) l’avviso di accertamento n. *****, con il quale l’Ufficio aveva disconosciuto un credito Iva, per l’anno 2005 recuperando l’imposta, oltre gli interessi e le sanzioni;

– in punto di diritto, la CTR- nel confermare la legittimità solo dell’avviso di accertamento n. ***** per essere stati gli altri avvisi annullati dell’Ufficio in sede di autotutela- ha osservato che: 1) il costo di Euro 169.698,00- somma corrisposta dalla società al socio-amministratore Bruno Mariniello a titolo transattivo per definire delle vertenze da quest’ultimo intraprese nei confronti della prima-non era deducibile in quanto non inerente all’attività aziendale, essendo stato contabilizzato nel conto economico e non a riduzione del patrimonio netto, il che sarebbe dovuto avvenire nel caso di recesso del socio, come eccepito dai contribuenti per essere la suddetta somma “collegata all’art. 2285 c.c.”; 2) invero, detta somma concorreva a formare il costo della partecipazione dei soci che avevano acquistato la quota del socio M.B.;

– avverso la sentenza della CTR, M.D., Ma.Do., B.P.L., in nome proprio quali soci nonchè M.D. e Ma.Do., anche in qualità di legali rappresentanti della società ” M.L.R. & Figli” s.n.c., già in liquidazione poi cessata, e tutti nella qualità di eredi dell’altro socio M.L.R., propongono ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resiste, con “atto di costituzione”, l’Agenzia delle entrate;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

CONSIDERATO

Che:

– preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto da M.D. e Ma.Do. nella qualità di legali rappresentanti della “società ” M.L.R. & Figli” s.n.c., già in liquidazione” e poi cessata; ciò alla luce dell’attuale indirizzo della Corte sul tema degli effetti processuali dell’estinzione della società, compiutamente esposto in precedenti pronunce (cfr., ex multis, Cass. 28/05/2014, n. 23141; 30342 del 2018). La Corte ha affermato che, con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 L. Fall., siffatta cancellazione, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, di talchè, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo. Ne consegue, sul piano processuale, che, qualora esso non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando il farlo constare non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso. (Cass. sez. un. 12/03/2013, n. 6070; Cass. 19/03/2014, n. 6468; Cass. 17/12/2013, n. 28187);

– quanto al ricorso proposto dai ricorrenti -in nome proprio quali soci e nella qualità di eredi dell’altro socio M.L.R. – con il primo motivo, è denunciata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5:1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul motivo di censura concernente la assunta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, commi 2, 4 e 7, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 2, 3, e 4 per essere stati gli atti impositivi emessi senza il necessario rispetto del termine di sessanta giorni decorrente, ai sensi della citata L.n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, dalla notifica del p.v.c. – che, nella specie, era mancato- nonchè senza motivazione sull’eventuale motivo di urgenza che aveva determinato la notifica degli stessi prima del decorso del detto termine; 2) l’omesso esame circa il medesimo fatto decisivo e controverso per il giudizio relativo alla eccepita violazione dello Statuto dei contribuenti, art. 12;

– il motivo è infondato;

– va fatta qui applicazione del principio più volte affermato (da ultimo: Cass. 16171/17; Cass. 2248 del 2018;) secondo cui: “alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto”; di qui la possibilità d’integrare la motivazione della sentenza impugnata, ove lacunosa, nei termini che seguono;

– va premesso che, in generale, il presupposto di applicabilità del complessivo statuto di diritti e di garanzie contemplato dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, compresa l’applicazione del termine dilatorio di sessanta giorni su cui pure la contribuente si sofferma, è dato dall’accesso, dall’ispezione o dalla verifica nei locali aziendali, in quanto il complesso di diritti e garanzie fa da contrappeso all’invasione della sfera del contribuente, nei luoghi di sua pertinenza, al fine di conformare e adeguare l’interesse dell’Amministrazione alla situazione, come delineata dagli elementi raccolti dall’Ufficio giustappunto grazie alle attività di verifiche, accessi ed ispezioni nei locali (in termini, Cass. n. 8439 del 2017; n. 13588 del 2014; nn. 7957 e 7958 del 2014; n. 8399 del 2013; n. 27200 del 2013); ne consegue che le garanzie in questione sono assicurate esclusivamente al soggetto sottoposto ad accesso, ispezione o verifica nei locali, e non si estendono al terzo a carico del quale emergano dati, informazioni o elementi utili per l’emissione di un avviso di accertamento (Cass. 26 settembre 2012, n. 16354); nè diritti e garanzie sono operativi se l’amministrazione si avvale di verifiche compiute nei confronti di terzi (Cass. 13 novembre 2013, n. 25515); -in particolare, quanto all’iva, anche la giurisprudenza che fa leva sul D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 6, specifica che la norma prescrive la necessità di redazione di apposito verbale qualora l’accesso vi sia stato, pena la violazione del diritto del contribuente di presentare apposite memorie difensive entro sessanta giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione (Cass. 11 settembre 2013, n. 20770; conf., Cass. ord. 29 settembre 2016, n. 19331);

-in questo contesto, le sezioni unite di questa Corte (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24823; conf., 30 dicembre 2015, n. 26117) hanno affermato che, per i tributi armonizzati come l’iva, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto (tra la successiva giurisprudenza conforme si vedano, tra le altre, Cass. n. 2875 del 2017; Cass. n. 10030 del 2017; Cass. n. 20799 del 2017; Cass. n. 21071 del 2017; Cass. n. 26943 del 2017); l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale è stato escluso, relativamente ai tributi non armonizzati, solo per gli accertamenti cd. a tavolino e, cioè, per quelli derivanti da verifiche effettuate presso la sede dell’Ufficio, in base alle notizie acquisite da altre Pubbliche Amministrazioni, da terzi ovvero dallo stesso contribuente, in conseguenza della compilazione di questionari o in sede di colloquio (da ultimo, Cass. n. 998 del 2018);

– questa Corte ha poi chiarito che nel caso di accesso, ancorchè finalizzato ad un’acquisizione documentale immediata, comunque la c.d. “prova di non resistenza” non può trovare ingresso in virtù della obbligatorietà generalizzata del contraddittorio preventivo sancito per legge dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 (Cass. n. 1007 del 2017);

– da ultimo, nelle sentenze n. 701 e 702 del 2019, la Corte ha espresso i condivisibili principi secondo cui ” 1) la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prevede, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio operata dal legislatore, attraverso la previsione di nullità dell’atto impositivo per mancato rispetto del termine dilatorio, che già, a monte, assorbe la “prova di resistenza” e, volutamente, la norma dello Statuto del contribuente non distingue tra tributi armonizzati e non; 2) il principio di strumentalità delle forme ai fini del rispetto del contraddittorio, principio generale desumibile dall’ordinamento civile, amministrativo e tributario, viene meno in presenza di una sanzione di nullità comminata per la violazione, e questo vale anche ai fini del contraddittorio endoprocedimentale tributario; 3) per i tributi armonizzati la necessità della “prova di resistenza”, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità.”;

– nel caso in esame, quanto all’unico avviso di rettifica (n. *****) confermato dal giudice di appello relativo alla ripresa del costo di Euro 169.698,00 ai fini Irap- essendo stati gli altri, come specificato nella sentenza impugnata, già annullati in sede di autotutela – trattasi di un accertamento c.d. a tavolino relativo a tributo non armonizzato – avendo la società contribuente, (come evincibile dalla pronuncia gravata e dedotto in ricorso pag. 5 e segg.), a seguito della istanza di accertamento induttivo dal D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 55 in ordine ad altra verifica fiscale a monte, ottemperato alla richiesta dell’Ufficio di deposito delle scritture contabili relative agli esercizi 2004-2005 – con conseguente mancata configurabilità di un obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, concernendo l’atto impositivo in questione il recupero di maggiore Irap;

– il che determina l’infondatezza della censura, alla luce dell’orientamento di questa Corte del quale si è dato conto;

– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 1, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 5 bis e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, per avere la CTR confermando la legittimità dell’avviso di accertamento n. *****, con cui era stata contestata “l’indebita deduzione di componenti negativi inesistenti o comunque non documentati per Euro 169.698,00” – ritenuto erroneamente non deducibile detto costo, in quanto non inerente all’attività aziendale, sul presupposto che non corrispondesse al recesso del socio-argomentazione, peraltro, ad avviso dei contribuenti, indebitamente attribuita agli stessi, stante l’erroneo richiamo all’art. 2285 c.c. nell’atto di transazione; ciò, ancorchè, come dedotto in sede di gravame, detto costo corrispondesse a un “indennizzo risarcitorio” versato dalla società, in via transattiva, al socio M.B. per la rinuncia a due vertenze civili intentate da quest’ultimo, con contestuale obbligo da parte dello stesso di sottoscrizione di atto notarile di cessione della quota societaria al corrispettivo di Euro 20.301,20;

-il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza e specificità in quanto, in mancanza della trascrizione nel ricorso del contenuto, per le parti rilevanti, dell’atto di appello in ordine alla dedotta natura di “indennizzo risarcitorio” della somma di Euro 169.698,00 in forza dell’atto transattivo di alcune vertenze giudiziarie pendenti con l’altro socio M.B., con obbligo alla sottoscrizione di atto di cessione di quota societaria per Euro 20.301,20 nonchè in ordine alla assunta erroneità del richiamo all’art. 2285 c.c. nell’atto transattivo medesimo, non è dato a questa Corte verificare gli esatti termini della questione e di averne la completa cognizione al fine di valutare la fondatezza della censura; invero, il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (ex multis, Cass. n. 7825 e n. 12688 del 2006; Cass. n. 14784 del 2015); peraltro quanto al richiamo nel ricorso al contenuto e alla ratio dell’atto di transazione sottoscritto in data 19 maggio 2005 è insegnamento di questa Corte, quello secondo cui “Il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il duplice onere, imposto a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (Cass. n. 743 del 2017; n. 26174/14, sez. un. 28547/08, sez. un. 23019/07, sez. un. ord. n. 7161/10); nella specie, i ricorrenti si sono limitati ad allegare tale atto al ricorso (alleg. n. 5), senza assolvere all’onere di specificazione di cui al richiamato principio;

– in conclusione, il ricorso proposto dai ricorrenti -in nome proprio quali soci e nella qualità di eredi dell’altro socio M.L.R. va rigettato;

– nulla sulle spese del giudizio di legittimità, essendo l’Agenzia delle entrate rimasta resistente a mezzo “atto di costituzione”.

PQM

la Corte

– dichiara inammissibile il ricorso proposto da M.D. e Ma.Do. in qualità di legali rappresentanti della società ” M.L.R. & Figli” s.n.c., già in liquidazione, poi cessata;

– rigetta il ricorso proposto dai ricorrenti -in nome proprio quali soci e nella qualità di eredi dell’altro socio M.L.R.;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2019

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