LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –
Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –
Dott. NOCELLA Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al numero 21301 del ruolo generale dell’anno 2013, proposto da:
Immobiliare Pelmo s.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante nonchè liquidatore pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine al ricorso, dall’Avv.to Vianello Riccardo e dall’Avv.to Masiani Roberto, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’ultimo difensore, in Roma Piazza Adriana n. 5;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;
-controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, n. 39/18/2012, depositata in data 18 giugno 2012, non notificata.
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Kate Tassone che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso; in subordine, fondato il primo motivo per quanto di ragione, infondato il secondo;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10 luglio 2019 dal Relatore Putaturo Donati Viscido di Nocera Cons.
Maria Giulia.
RILEVATO
Che:
– con sentenza n. 39/18/2012, depositata in data 18 giugno 2012, e non notificata, la Commissione tributaria regionale del Veneto respingeva l’appello proposto da Immobiliare Pelm s.r.l. in liquidazione nei confronti dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 88/01/2010 della Commissione tributaria provinciale di Venezia che aveva rigettato il ricorso proposto dalla suddetta società avverso l’avviso di accertamento n. *****, notificato il 4 dicembre 2007, con il quale l’Agenzia delle entrate, previo p.v.c. dell’Ufficio di Venezia, aveva contestato alla contribuente l’indebita deduzione di costi, ai fini Ires, Irap e detrazione Iva, per l’anno 2005, in relazione ad operazioni di prestazioni d’opera ritenute fittizie, oltre le corrispondenti sanzioni;
-il giudice di appello, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che alcuna contestazione era stata avanzata dalla società contribuente in ordine alla assunta fittizietà dei costi, con conseguente legittimo recupero a tassazione degli stessi da parte dell’Ufficio; diversi erano i presupposti sui quali erano fondati gli avvisi di accertamento emessi a carico dei soci- la cui impugnativa aveva costituito oggetto di separati giudizi- facendosi in essi riferimento non già ad un maggiore “reddito da partecipazione” ma ad “altri redditi” il cui ammontare corrispondeva ai trasferimenti in denaro operati dai conti correnti della società a quelli dei soci medesimi;
– avverso la sentenza della CTR, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.
CONSIDERATO
Che:
– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la contraddittorietà della motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la CTR, previa qualifica delle somme accertate dall’Agenzia in termini di utili extra-bilancio, imputato contraddittoriamente ai soci la percentuale forfettaria del 50% in luogo di quelle proprie di partecipazione societaria D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 27;
– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la omessa motivazione della sentenza su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la CTR omesso di argomentare in ordine alla eccezione di divieto di doppia imposizione e di violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 in tema di distribuzione degli utili societari;
– i due motivi- da trattare congiuntamente per connessione- sono inammissibili in quanto trattasi di “non motivi”, afferendo le censure alla natura dei redditi imputati ai soci e non già al decisum che investe solo la legittimità del provvedimento impositivo nei confronti della società per indebita contabilizzazione di costi ai fini delle imposte dirette e detrazione Iva in relazione ad assunte operazioni oggettivamente inesistenti;
– invero, le censure attinenti ad altri avvisi di accertamento emessi nei confronti dei soci e oggetto di separati giudizi, anche se trattati nella medesima udienza, non rientrano nel paradigma normativo della nozione di “motivo” ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. In base a tale norma il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronuncia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza non riguardante il “decisum” della sentenza gravata (così ad es. sez. 5 n. 17125 del 2007 e sez. 1 n. 4036 del 2011). In altri termini, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si traducano in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità del raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi della citata disposizione (così Cass. sez. 3, n. 359 del 2005; nello stesso senso, Cass. Sez. 5, n. 21296 del 2016 e altre);
– in conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile;
– le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione a favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.800,00 per compensi, oltre spese eventualmente prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione quinta civile, il 10 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2019