LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14642/2018 R.G. proposto da:
D.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Berardo Cerulli, con domicilio eletto in Roma, via Tacito, n. 23, presso lo studio dell’Avv. Simon Savini;
(Ammesso p.s.s. Delib. 21 maggio 2018 Ord. Avv. L’Aquila);
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila n. 2168/17 depositata il 28 novembre 2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre 2019 dal Consigliere Mercolino Guido.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che D.M., cittadino del Mali, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, avverso la sentenza del 28 novembre 2017, con cui la Corte d’appello di L’Aquila ha rigettato il gravame da lui interposto avverso la sentenza emessa il 5 febbraio 2017 dal Tribunale di L’Aquila, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione internazionale o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;
che il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata ha erroneamente minimizzato i rischi connessi al conflitto armato in corso nel Mali, non avendo tenuto conto delle informazioni più aggiornate provenienti dal Ministero dell’interno e dal Ministero degli esteri e di precedenti giurisprudenziali di merito, da cui risultava una grave situazione d’insicurezza riguardante l’intero Paese, e causata da instabilità politica ed attacchi terroristici contro la popolazione civile e le forze armate di sicurezza;
che la censura è infondata, essendosi la sentenza impugnata attenuta correttamente al principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di protezione internazionale, secondo cui la verifica delle condizioni socio-politiche del Paese di origine del richiedente deve aver luogo, anche mediante integrazione istruttoria officiosa, sulla base di informazioni generali e specifiche pertinenti al caso, nonchè aggiornate al momento della decisione, le cui fonti devono essere puntualmente individuate in motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 12/11/2018, n. 28990; 22/05/2019, n. 13897; Cass., Sez. VI, 28/06/2018, n. 17075);
che, a fondamento della decisione, la Corte territoriale ha infatti richiamato i rapporti dell’UNHCR e del Ministero dell’interno relativi agli anni più recenti, da cui risulta che la situazione politico-sociale del Mali ha fatto registrare un sostanziale miglioramento, soprattutto in riferimento alla parte meridionale del Paese, restando circoscritta alla parte centrale e settentrionale la situazione d’insicurezza determinata dagli scontri tra gruppi armati separatisti e/o islamisti e le forze governative, ed essendosi registrati nella capitale soltanto alcuni attacchi terroristici, rivolti contro turisti stranieri;
che, nel contestare il predetto accertamento, il ricorrente non è in grado d’indicare circostanze di fatto trascurate dalla sentenza impugnata o incongruenze talmente gravi da impedire la ricostruzione del percorso logico seguito per giungere alla decisione, ma si limita ad invocare ulteriori fonti d’informazione, citate in alcuni precedenti di merito, senza riportarne per intero il contenuto e senza precisare se tali informazioni siano state fatte valere nel giudizio di merito, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti già presi in esame dalla sentenza impugnata, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonchè la coerenza logica delle stesse, nella misura in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. VI, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);
che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tener conto da un lato della situazione di disagio in cui versa esso ricorrente, costretto ad abbandonare il suo Paese di origine a causa dei maltrattamenti cui era stato sottoposto dallo zio paterno, e della drammatica situazione economica del Mali, cagionata dall’instabilità politica e dal conflitto in corso, nonchè dalle condizioni del territorio, dall’incremento demografico, dalla corruzione e dalla carenza d’infrastrutture;
che il motivo è infondato, avendo la sentenza impugnata correttamente rilevato da un lato che la vicenda narrata dal ricorrente non evidenziava particolari profili di vulnerabilità, e dall’altro che, in difetto di elementi individuali circostanziati, il mero riferimento alla situazione del Paese di origine, alle violazioni dei diritti umani ivi registratesi ed alla precarietà delle condizioni economiche non fosse sufficiente a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria;
che la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere infatti ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304);
che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2019