LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo re – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
(art. 380-bis.1 c.p.c.) sul ricorso (iscritto al N.R.G. 10321/15) proposto da:
GIUMA s.r.l., (C.F.: *****), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Paolo Panella e Lina Carola Trincia ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo, in Roma, viale delle Milizie, n. 34;
– ricorrente –
contro
ROMA CAPITALE, (C.F.: *****), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avv. Domenico Rossi ed elettivamente domiciliata presso gli Uffici dell’Avvocatura capitolina in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 1030/2015, depositata il 13 febbraio 2015 (notificata il 14 febbraio 2015);
RILEVATO IN FATTO
Con sentenza n. 4005/2009 il Tribunale di Roma respingeva la domanda proposta dalla s.r.l. Giuma nei confronti del Comune di Roma diretta ad ottenere: a) la declaratoria che il prezzo di vendita delle porzioni immobiliari da essa trasferite al Comune di Roma con atto di compravendita a rogito notaio D. del 23 settembre 2004 (rep. n. *****, racc. *****) dovesse essere aumentato dell’importo di Euro 1.519.854,04 o di quello diverso risultante all’esito dell’istruttoria, esercitando, al riguardo, la facoltà prevista dall’art. 1537 c.c., per le vendite a misura; b) la condanna del Comune a corrispondere detta differenza, maggiorata di iva, interessi e rivalutazione.
Decidendo sull’appello formulata dalla predetta s.r.l. Giuma e nella resistenza dell’appellato Comune di Roma, la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1030/2015 (depositata il 13 febbraio 2015) emessa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., respingeva il gravame e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado, ritenendo infondati entrambi i prospettati motivi relativi alla contestazione dell’interpretazione del contratto ed a quella dell’affermazione del giudice di prime cure secondo cui la domanda non avrebbe potuto essere comunque accolta, non essendo possibile rilevare “a posteriori” l’errore quantitativo commesso dalle parti, così ravvisandosi l’irrilevanza della richiesta di c.t.u..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, riferito a quattro motivi, la s.r.l. Giuma, al quale ha resistito con controricorso l’intimata Roma Capitale.
I difensori di entrambe le parti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis. 1 c.p.c..
1.1. Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la violazione degli artt. 132 e 281-sexies c.p.c., asserendo che l’impugnata sentenza si sarebbe dovuta ritenere carente dei motivi in fatto ed in diritto tali da giustificare il rigetto dell’appello.
1.2. Con la seconda censura la ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la violazione degli artt. 1537,1538 e 1362 c.c. e segg., prospettando l’erroneità della sentenza di appello nell’applicazione dei criteri ermeneutici che aveva condotto all’esito di ritenere che la vendita oggetto di controversia fosse stata effettuata a corpo e non a misura.
1.3. Con il terzo mezzo la ricorrente ha denunciato – sempre in virtù dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – un’ulteriore violazione degli artt. 132 e 281-sexies c.p.c., avuto riguardo all’asserita assenza di una specifica motivazione, nell’impugnata sentenza, sulla doglianza relativa alla contestazione della decisione del primo giudice in ordine alla dichiarata impossibilità di stabilire, in modo rigoroso, quali fossero le misurazioni dell’immobile oggetto di causa.
1.4. Con la quarta ed ultima censura la ricorrente ha dedotto – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la violazione degli artt. 1537 e 1538 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c., sul presupposto dell’asserita illegittimità dell’impugnata sentenza nella parte in cui non era stata ammessa l’invocata c.t.u. al fine di determinare la reale dimensione dell’immobile oggetto di compravendita, dovendosi tener conto delle differenze di superficie risultanti dall’esame degli atti propedeutici alla stipula del relativo contratto.
2. Rileva il collegio che tutti i formulati motivi sono infondati e, quindi, il ricorso deve essere respinto.
2.1. Le censure dedotte con il primo e terzo motivo possono essere esaminate congiuntamente poichè attengono alla stessa questione dell’asserita nullità dell’impugnata sentenza per carenza di motivazione sulle doglianze prospettate con l’appello da parte di essa ricorrente riferite a due complessi motivi.
Dette censure sono manifestamente prive di fondamento giuridico dal momento che la sentenza d’appello è assolutamente rispondente alle prescrizioni imposte dall’art. 132 c.p.c. e dall’art. 281-sexies c.p.c., che contiene – quanto all’obbligo di motivazione – una disposizione speculare a quella di cui del citato art. 132, comma 2, n. 4), siccome è improntata ad un percorso logico-giuridico palesemente esauriente sia con riferimento all’aspetto riguardante la contestazione dell’interpretazione operata dal primo giudice in ordine al tipo di vendita intercorsa tra le parti sia con riguardo al profilo della ravvisata non necessità di disporre un accertamento tecnico.
L’impugnata sentenza (ancorchè emessa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c.) contiene, in modo certamente esaustivo, la ricostruzione dei fatti di causa e offre, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio concretamente esaminata, una soluzione adeguatamente motivata sul piano, per l’appunto, logico-giuridico.
2.1. Anche il terzo motivo è infondato.
Con esso, in effetti, la ricorrente contesta l’interpretazione del contratto come operata dalla Corte di appello in ordine alla natura della vendita intervenuta tra le parti, ritenuta (come dal giudice di primo grado) effettuata “a corpo” e non “a misura”, sulla scorta della corretta applicazione dei criteri ermeneutici riferita al contenuto delle clausole identificative dell’immobile. In sostanza, la censura – pur a fronte della deduzione della violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. – si risolve nella contrapposizione tra l’interpretazione con la stessa prospettata e quella accolta nella sentenza impugnata.
Al riguardo si pone in risalto come, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es. e da ultimo, Cass. n. 28319/2017), l’opzione ermeneutica privilegiata dal giudice di merito non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata preferita l’altra.
In ogni caso, va osservato che il criterio fondamentale di distinzione tra vendita a misura e vendita a corpo è insito nella circostanza che nella prima la determinazione dei confini della cosa venduta è effettuata attraverso la misurazione mentre la seconda è caratterizzata dalla individuazione e delimitazione del bene in modo che esso resti identificato indipendentemente dalla misura. Al riguardo la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il relativo apprezzamento, implicando valutazione della volontà contrattuale, è incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr., ad es., Cass. n. 8793/2000 e Cass. n. 9215/2004).
A tal proposito deve evidenziarsi come la Corte capitolina abbia univocamente ed adeguatamente ritenuto che, in base all’indicazione precisa e minuziosa dei confini dell’immobile oggetto di compravendita, oltre che in virtù della sua analitica descrizione nella composizione e nelle dimensioni (ed indipendentemente da specifiche misurazioni), la vendita – anche in difetto di un’espressa indicazione (siccome non determinante ai fini della sua effettiva qualificazione, dovendosi comunque aver riguardo al contenuto delle dichiarazioni contrattuali) – dovesse intendersi effettuata “a corpo” e non “a misura”, precisando che la previsione contenuta nell’art. 3 del contratto laddove si poneva riferimento ad una misurazione (solo) complessiva del bene – non poteva far propendere per la configurazione di una vendita “a corpo”, poichè il criterio individuato costituiva un semplice parametro orientativo per la determinazione del prezzo (comunque convenuto nella sua entità globale) e, quindi, come tale non poteva considerarsi come un aspetto vincolante per la suddetta qualificazione del tipo di vendita.
Per quanto argomentato la censura è, quindi, da rigettare, risultando l’impugnata sentenza basata su una corretta e logica interpretazione, adeguatamente motivata e senza incorrere nella denunciata violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c..
2.2. Infine, anche il quarto motivo non coglie nel segno e va, perciò, disatteso, avendo il giudice di appello, in base alle risultanze di causa e all’accertata impossibilità di stabilire in modo rigoroso quali fossero le misurazioni dell’immobile, legittimamente ritenuto – nell’esercizio del suo potere discrezionale (ad esso conferito dall’art. 61 c.p.c.) – irrilevante (e, perciò, non necessario) un eventuale accertamento tecnico.
3. In definitiva, per le ragioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna della soccombente ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano avuto riguardo al notevole valore della causa – nei sensi di cui in dispositivo.
Infine, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 12.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconds Civile, il 24 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019
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