LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZOSO Maria Teresa Liana – Presidente –
Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –
Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –
Dott. CIRESE Marina – rel. Consigliere –
Dott. TADDEI Margherita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26442-2012 proposto da:
REGIONE PUGLIA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA BARBERINI 36, presso lo studio dell’avvocato DELEGAZIONE REGIONE PUGLIA, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI SIVO;
– ricorrente –
contro
I.F., elettivamente domiciliato in ROMA VIA SAN TOMMASO D’AQUINO 47, presso lo studio dell’avvocato PAOLO LIRERATI, rappresentato e difeso dagli avvocati VITO ANTONIO DEPALMA, ANGELO PANNO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 52/2012 della COMM. TRIB. REG. di BARI, depositata 25/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/10/2019 dal Consigliere Dott. MARINA CIRESE.
RITENUTO
CHE:
in data 17.7.2008 una pattuglia del Gruppo Pronto Impiego della Guardia di Finanza di *****, in servizio di controllo del territorio, individuava nel comune di ***** (Ba), in località *****, una cava di estrazione pietre, in parte non più coltivata, al cui interno vi erano due autocarri di cui uno aveva appena terminato di scaricare il materiale mentre un altro stava compiendo le manovre necessarie per lo scaricamento. Durante le operazioni giungeva sul posto il signor I.F. il quale affermava di essere amministratore della società I.F. & C. s.n.c., proprietaria dei terreni su cui insiste la cava, e che i materiali provenivano da un cantiere edile in ***** della società Sgherza Costruzioni.
Dal controllo effettuato gli operanti riscontravano la presenza di materiale da escavazione e di altri rifiuti da costruzioni e demolizioni, materiali di plastica e materiali ferrosi, senza che la presenza di detti materiali fosse giustificata da alcuna autorizzazione ambientale rilasciata dagli organi competenti.
La Regione Puglia notificava quindi al signor I. atto di contestazione delle violazioni ed ordinanza ingiunzione di pagamento ***** del 2.11.2009 accertando l’evasione del tributo con relative sanzioni e interessi per l’esercizio di attività di discarica abusiva, l’omissione e/o registrazione infedele delle operazioni di conferimento in discarica e l’omessa dichiarazione per un totale di Euro 1.554.126,50, oltre alle sanzioni (tributo calcolato sulla base di 17.156,30 tonnellate).
Proposto ricorso avverso tale atto, all’esito del giudizio in cui si costituiva la Regione Puglia che controdeduceva su tutte le eccezioni sollevate, la CTP di Bari con sentenza del 23.9.2010 accoglieva parzialmente il ricorso ed ordinava alla Regione Puglia di calcolare il tributo evaso, le sanzioni e gli interessi, sulla scorta di Kg. 113 netti conferiti alla discarica autorizzata allo smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi.
Avverso detta sentenza proponeva appello la Regione Puglia eccependo la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nonchè la mancata esposizione dei motivi di diritto, la carenza di motivazione e comunque la motivazione illogica e contraddittoria. Si costituiva altresì nel giudizio di appello il contribuente che a sua volta proponeva appello incidentale contestando la sentenza impugnata che non si era pronunciata circa l’eventuale natura di rifiuto delle terre e rocce da scavo definendo “massa terrosa” il raggruppamento delle terre e delle rocce da scavo ed escludendo, quindi, che le stesse potessero essere assimilate a “rifiuti”.
All’esito la CTR della Puglia, con sentenza in data 25 giugno 2012, in parziale accoglimento dell’appello principale, determinava la massa dei rifiuti in 8 tonnellate su cui calcolare sanzioni ed interessi, escludendo che le terre e le rocce da scavo potessero essere assimilate ai rifiuti ed accertava che l’ I. non aveva alcuna autorizzazione ambientale che giustificasse l’ingresso in cava di rifiuti di qualsiasi tipo.
Avverso detta pronuncia la Regione Puglia proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resisteva con controricorso I.F..
CONSIDERATO
CHE:
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduceva la falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, sostenendo che, contrariamente a quanto ritenuto dalla CTR, le terre e le rocce da scavo sono rifiuti a tutti gli effetti ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, comma 5, e che nella specie il contribuente non era in possesso di alcun documento autorizzatorio che gli consentisse di utilizzare quelle terre e rocce da scavo per riempire la cava ed i terreni circostanti ma che anzi aveva il divieto di colmare la cava se non con materiali dalla stessa rivenienti e cioè con gli sfridi di estrazione e l’abbattimento del cappellaccio. Rilevava altresì che l’onere di provare l’esistenza delle condizioni che rendono riutilizzabili le terre e le rocce da scavo spetta al detentore e che nel caso specifico l’ I. non ha assolto tale onere.
2. Con il secondo motivo di ricorso deduceva l’omessa motivazione sul motivo di appello riguardante la natura di rifiuto delle terre e delle rocce da scavo, atteso che il giudice d’appello non aveva fornito alcuna motivazione sul perchè nella specie le terre e le rocce erano state considerate “massa terrosa” e non già rifiuti.
I motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati.
L’esame di dette censure rende opportuna una breve disamina del quadro normativo di riferimento.
Il D.Lgs. n. 22 del 1997, (c.d. Decreto Ronchi) con il quale veniva data attuazione alle Dir. comunitarie nn. 91/156/CEE, sui rifiuti, Dir. n. 91/689/CEE, sui rifiuti pericolosi e Dir. n. 94/62/CE, sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, definiva all’art. 6, comma 1, lett. a), rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Il citato decreto n. 22 del 1997, art. 7, in particolare, al comma 30, lett. b), qualificava come rifiuti speciali “i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonchè i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo”.
Il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 2, lett. c), escludeva, peraltro, nella sua originaria formulazione, dalla categoria dei rifiuti “i materiali non pericolosi che derivano dall’attività di scavo”, ma, a seguito di osservazioni al c.d. decreto Ronchi di cui alla nota della Commissione Europea del 29 settembre 1997, n. 6465, con il D.Lgs. 8 novembre 1997, n. 389, art. 1, comma 9, fu disposta l’abrogazione del citato D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 2.
Successivamente, con la L. 23 marzo 2001, n. 93, art. 10, fu modificato il cit. decreto, art. 8, disciplinante le ipotesi di esclusione dall’applicazione della predetta normativa, aggiungendosi tra queste, con l’inserzione della lett. f-bis) quella riferita alle “terre e rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti”.
Il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b), e art. 8, comma 10, lett. f-bis), sono stati quindi oggetto d’interpretazione autentica dalla L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1 commi 17, 18 e 19, quale modificata dalla L. 31 ottobre 2003, n. 306, art. 23, come segue:
Comma 17. “Il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b), ed art. 8, comma 1, lett. f-bis), si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA” (valutazione d’impatto ambientale) “ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA” (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) “semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti”.
Comma 18. “Il rispetto dei limiti di cui al comma 17, può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dal D.M. ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, allegato 1, tabella 1, colonna B, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore”.
Comma 19. “Per i materiali di cui al comma 17, si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, purchè sia progettualmente previsto l’utilizzo di tali materiali, intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere dell’ARPA, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18, e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Qualora i materiali di cui al comma 17, siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli, provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l’effettuazione di controlli periodici, l’effettiva destinazione all’uso autorizzato dei materiali; a tal fine l’utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione”.
La disciplina è stata ulteriormente modificata con la L. n. 306 del 2003, art. 23, (c.d. Legge comunitaria 2003), per effetto della quale la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19, hanno assunto i seguenti contenuti:
– comma 17 – il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b), ed art. 8, comma 1, lett. f bis, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti.
– comma 18 – il rispetto dei limiti di cui al comma 17, può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dal D.M. ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, allegato 1, tabella 1, colonna B, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore.
– comma 19 – per i materiali di cui al comma 17, si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, purchè sia progettualmente previsto l’utilizzo di tali materiali, intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere dell’ARPA a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18, e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Qualora i materiali di cui al comma 17, siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli, provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l’effettuazione di controlli periodici, l’effettiva destinazione all’uso autorizzato dei materiali; a tal fine l’utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione”.
Le modifiche del 2003, pur essendo apportate da una norma di interpretazione autentica, presentano notevoli e consistenti “novità”, in quanto agli elementi essenziali dell’effettivo utilizzo delle terre e rocce da scavo e ai limiti dei loro componenti inquinanti, aggiunge ulteriori significativi elementi, ovvero:
– l’assenza di trasformazioni preliminari per l’utilizzo dei materiali;
– l’utilizzazione dei medesimi secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA;
– il controllo sull’effettiva destinazione dei materiali, con obbligo per l’utilizzatore di documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione.
Il contenuto della norma “interpretativa”, confluiva poi, sia pur in un quadro più ampio, nel D.Lgs. n. 152 del 2006, (c.d. Codice dell’ambiente), art. 186, che sarebbe stato a sua volta modificato, una prima volta, mediante integrale sostituzione, con il D.Lgs. n. 4 del 2008, art. 2, comma 23, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia del 18 dicembre 2007 in causa C-194/05 su procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, e, poi, con il D.L. n. 185 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 13 del 2009.
Secondo l’art. 184 Codice Ambiente, il materiale da scavo viene annoverato tra i rifiuti speciali, più precisamente, rientrano in questa categoria “i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonchè i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall’art. 184-bis”.
Le terre e le rocce da scavo perdono la propria qualifica di “rifiuto” se, secondo la disciplina dell’art. 185 Codice Ambiente, sono riutilizzate nel medesimo cantiere in cui sono prodotte (precisamente secondo l’art. 185 del Codice, “Non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del presente decreto (…): b) il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss., relativamente alla bonifica di siti contaminati; c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato”).
Infine, non sono rifiuti le terre e le rocce da scavo che possono essere gestiti come sottoprodotti ai sensi dell’art. 186.
Per essere qualificate come sottoprodotti, le terre e rocce da scavo devono soddisfare i seguenti requisiti:
a) devono essere generate durante la realizzazione di un’opera, di cui costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale;
b) il loro utilizzo deve essere conforme alle disposizioni dichiarate del piano di utilizzo o della dichiarazione;
c) lo scopo dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo si concretizza nella realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti fondiari o viari, recuperi ambientali oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali sia nel cantiere in cui le terre sono state generate che in opere diverse (ii) in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava;
d) sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
e) soddisfano i requisiti di qualità ambientale espressamente previsti dal Regolamento.
Alla luce della descritta evoluzione del quadro normativo, la disciplina applicabile nel caso di specie, risalente al luglio 2008, è quella emergente dal c.d. Codice dell’ambiente, come modificato dal D.Lgs. n. 4 del 2008.
Deve altresì ritenersi che, secondo i principi in tema di riparto dell’onere della prova, spetti al contribuente provare la sussistenza di una causa di esenzione o di esclusione dal tributo, quale è appunto l’effettivo riutilizzo dei materiali secondo un progetto ambientalmente compatibile, prova che non è stata in alcun modo fornita. Ed invero l’ I. non era in possesso di alcuna autorizzazione ad utilizzare il materiale terroso rinvenuto presso la cava nè comunque risulta che detto materiale fosse destinato ad essere riutilizzato, sicchè lo stesso doveva essere qualificato come rifiuto.
Pertanto, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata e decidendo nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto ex art. 384 c.p.c., va rigettato il ricorso originario del contribuente.
In ragione dei mutamenti normativi intervenuti, si stima equo compensare tra le parti le spese relative ai giudizi di merito.
La regolamentazione delle spese relative al giudizio di legittimità, disciplinata come da dispositivo, segue la soccombenza.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario;
compensa le spese relative ai giudizi di merito;
condanna il contribuente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 17.000,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2019