LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –
Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27474-2012 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrenti –
Contro
V.V.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 142/2011 della COMM.TRIB.REG. di PALERMO, depositata il 10/10/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2019 dal Consigliere Dott. MARCELLO MARIA FRACANZANI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. IMMACOLATA ZENO che ha concluso per l’inammissibilità in subordine rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato DE BONIS che ha chiesto l’accoglimento.
FATTI DI CAUSA
1. Il contribuente conduce rivendita materiale edile in comune di Ribera, provincia di Agrigento, ed era attinto da avviso di accertamento notificatogli il 7 dicembre 2006, relativo ad omessa contabilizzazione e dichiarazione di ricavi per l’anno 2002, motivato su pvc redatto e notificato al contribuente a conclusione di verifica fiscale svolta dalla Guardia di Finanza tra il 18 aprile ed il 3 agosto 2002.
Nel corso dell’attività ispettiva, i militari rinvenivano contabilità parallela, sulla quale ricostruivano la merce venduta senza emissione di documentazione fiscale, distinguendola per annualità. Sulla scorta di quanto rivenuto, si procedeva alla ricostruzione del ricavo, applicando il ricarico medio ponderato. Risulta pacifico in atti che vi sia stato un errore di calcolo, consistente nel considerare l’IVA al momento della vendita, ma non al momento dell’acquisto. Non di meno -in tesi dell’Ufficio- tale errore riduce, ma non elimina la pretesa erariale.
2. I gradi di merito erano favorevoli al contribuente, ove il giudice di appello confermava il primo grado argomentando sull’errore di calcolo generato da un indice di ricarico sbagliato e secondo quello della media aritmetica semplice, ormai ritenuto illegittimo. Conclude la sentenza impugnata rilevando non essere stato prodotto -da nessuna delle parti- il pvc su cui l’atto impositivo si fonda, rendendo impossibile al giudice di merito una nuova quantificazione della ripresa a tassazione.
Ricorre la difesa erariale con quattro motivi. E’ rimasta intimata la parte privata.
RAGIONI DELLE DECISIONE 1.Vengono proposti quattro motivi di ricorso:
1) Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per insufficiente e contraddittoria motivazione per aver la CTR accordato rilevanza decisiva al (riconosciuto) errore di calcolo, sostenendo il travolgimento di tutto l’atto impositivo, senza verificare ed argomentare che la correzione avrebbe portato ad una riduzione del contestato, senza azzerare la pretesa tributaria;
2) Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto altro profilo, per non aver considerato la copiosa documentazione extracontabile che legittima l’accertamento induttivo, al più sindacabile sul sistema di quantificazione, ma non annullabile senza motivazione;
3) Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1, 2 e 7, art. 112 c.p.c.: il giudizio tributario opera secondo il sistema impugnatorio-cognitorio, con un giudizio sul rapporto e non sull’atto, per cui il giudice tributario deve procedere a rimodulare la pretesa tributaria alla luce delle risultanze processuali e non annullare l’atto che non sia palesemente affetto da vizi procedimentali. Nel caso in oggetto, la pretesa tributaria era fondata sostanzialmente e proceduralmente, essendo sufficiente che il giudice di merito procedesse al ricalcolo secondo i parametri che ritiene corretti;
4) Violazione dell’art. 360, nn. 3 e 4, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1, 2 e 7, artt. 112,210 e 213 c.p.c., laddove si lamenta che i giudici abbiano ritenuto necessario ai fini del decidere l’esame del pvc e dei relativi allegati con le tabelle di ricostruzione induttiva del reddito e, preso atto della loro mancanza agli atti, non ne abbia ordinata la produzione, secondo il potere/dovere attribuito dalla legge al giudice tributario in simili casi.
2. I primi due motivi attengono a profili di motivazione della sentenza che non sarebbe adeguata per aver la CTR giudicato senza esaminare il pvc nella sua interezza, verificando che l’emendazione dell’errore di calcolo non azzera la pretesa tributaria, ovvero che vi erano documenti sufficienti a provare la ripresa a tassazione. Il terzo motivo, parimenti, lamenta che il giudice di appello non abbia reso una quantificazione dell’obbligazione tributaria in sostituzione di quella operata dall’Ufficio, in ossequio alla giurisdizione sul rapporto e non (solo) sull’atto che caratterizza il processo tributario. Accanto a tale gruppo di censure, tutte attinenti a profili valutativi di merito degli elementi contenuti nel pvc, il quarto motivo si incentra sul potere/dovere della CTR di ordinare l’esibizione e procedere all’acquisizione del documento mancante e ritenuto essenziale ai fini del decidere, nel caso specifico il pvc che nessuna delle parti aveva prodotto in alcuno dei gradi di merito.
3. In ossequio al principio della ragione più liquida, dev’essere esaminato preliminarmente il quarto motivo, la cui soluzione innerva anche i motivi che lo precedono.
Nella sostanza, l’Avvocatura generale dello Stato lamenta non sia stata disposta dal giudice di secondo grado l’acquisizione del pvc, ritualmente notificato al contribuente, che nessuna delle parti aveva prodotto in alcuno dei gradi di merito. La doglianza in oggetto è funzionale a quelle che precedono, posto che lo scrutinio in processo di quel documento avrebbe consentito quelle operazioni di verifica e di rimodulazione della pretesa tributaria la cui assenza viene criticata da parte ricorrente. In altri termini, si tratta di una censura-mezzo, attinente ai profili istruttori del processo, e funzionale alle censure-fine che riguardano il merito, cioè la ripresa a tassazione.
La questione richiede un approfondimento sulle peculiarità dell’istruttoria nel processo tributario, retta dal principio dispositivo-acquisitivo e sui conseguenti poteri officiosi del giudice.
3.1. Dall’asimmetria nella posizione delle parti, il contenzioso tributario -specie nel testo originario di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3 – ha importato i principi probatori elaborati per il processo amministrativo. La presenza processuale di una parte pubblica, autrice e custode degli atti principali che disciplinano il rapporto Stato – contribuente, e di una parte privata (spesso, ma non sempre) meno strutturata, comunque sfornita di poteri autoritativi ed incapace di produrre atti dotati di esecutorietà, è sembrata richiedere una funzione di riequilibrio della parità delle parti. Questa funzione rettificatrice a garanzia e presidio del contraddittorio, cioè della condizione stessa perchè si possa parlare di processo -anche dopo la soppressione dell’art. 7, comma 3, e quindi in un’ottica di maggior avvicinamento al processo civile ordinario- è logicamente e fisiologicamente affidata al giudice che, proprio in ragione della peculiarità delle parti, è chiamato ad adottare provvedimenti per riequilibrare il rapporto processuale, avendo come assi cartesiani in quest’operazione la posizione di partenza di ciascuna parte (pubblica o privata, fisica o giuridica, strutturata o meno) e l’oggetto del giudizio espresso nei limiti della domanda.
3.2. Questa funzione di riequilibrio e garanzia del contraddittorio si esplica principalmente intervenendo nella fase istruttoria, dove alla parte privata può essere chiesta non la produzione della prova, allorquando esuli dalla propria disponibilità, ma solo il principio di prova, cioè l’indicazione del mezzo, la cui acquisizione resta rimessa alla valutazione del giudice, secondo un sistema che è detto, appunto, misto dispositivo – acquisitivo. Nell’esercitare questo potere il giudice è tenuto a prendere in considerazione, per prima cosa la natura del processo tributario, mista oggettiva e soggettiva. La cognizione, infatti, riguarda l’atto impositivo (e gli atti a questo presupposti), nonchè gli altri atti comunque immediatamente lesivi, considerati sia per vizi procedimentali, sia per violazioni di norma o per travisamento dei fatti che integrano la falsa rappresentazione della realtà; ma riguarda altresì il rapporto fra contribuente ed amministrazione finanziaria, in un legame di diritto/dovere, secondo posizioni giuridiche soggettive piene e non affievolite. Sicchè, in ragione di quanto viene chiesto al giudice, di chi lo chiede e del perchè lo chiede, la commissione tributaria è tenuta a svolgere una delibazione sull’esercizio del potere acquisitivo in deroga al principio dispositivo, all’intervento in soccorso istruttorio a garanzia del contraddittorio.
3.3. Proprio perchè si tratta di un potere del giudice (talvolta definito impropriamente facoltà), che incide -come detto-sull’elemento essenziale del processo qual è il contraddittorio, il suo esercizio vuole -specie quando espressamente richiesto- una motivazione che rappresenti la ponderazione delle diverse ragioni che hanno condotto a disporre o a non disporre l’acquisizione documentale, tenendo presente che in ogni caso il potere officioso è sempre deroga al principio generale dispositivo, sicchè vanno individuate le circostanze di squilibrio del contraddittorio cui si è voluto porre rimedio, valutando anche la congruità del rimedio approntato in ragione dell’esigenza individuata.
3.4. La giurisprudenza di questa Corte si è già espressa in passato in questi termini, ricordando specificamente come in tema di contenzioso tributario l’acquisizione d’ufficio dei documenti necessari per la decisione costituisce una facoltà discrezionale, attribuita alle commissioni tributarie D.Lgs. n. 546 del 1992 cit., ex art. 7, il cui esercizio peraltro non può sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova, che grava sull’amministrazione finanziaria quale attrice in senso sostanziale, trasferendosi a carico del contribuente soltanto quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria. Tuttavia, quando la situazione probatoria sia tale da impedire la pronuncia ragionevolmente motivata senza l’acquisizione d’ufficio di un documento, l’esercizio di tale potere si configura come un dovere, il cui mancato assolvimento dev’essere compiutamente motivato (cfr., in termini, Cass. V, n. 905/2006, n. 725/2010, n. 25769/2014).
3.5. Alla luce dei precedenti appena richiamati, può essere confermato l’orientamento per cui in tema di soccorso istruttorio nel processo tributario, il potere di acquisizione documentale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, è funzionale al riequilibrio delle parti processuali nella tutela del contraddittorio; ne consegue che l’istituto non può sopperire a carenze o inattività delle parti e che – entro questi termini- detto potere si esercita con valutazione di opportunità del giudice di merito che, ove adeguatamente motivata, non è soggetta a scrutinio di legittimità (Cass. V. n. 905/2006 e n. 19593/2006).
4. Nel caso di specie, con apprezzamento di merito sostenuto da motivazione non sindacabile in questa sede, la commissione territoriale ha ritenuto che le parti -pur nella disponibilità dei documenti de quibus necessari al fine del decidere- non li abbiano prodotti, non assolvendo quindi ad un onere dispositivo che sulle parti sostanziali e processuali grava. Legittimamente quindi la CTR ha giudicato iusta alligata et probata, sicchè non può trovare accoglimento la censura di mancato esercizio di un suo potere di cui ha motivatamente ritenuto non dover fare esercizio.
Il quarto motivo è quindi infondato e dev’essere rigettato.
5. Il rigetto del quarto motivo rende inammissibili i restati motivi che presuppongono l’acquisizione officiosa del pvc che non è stato prodotto: il primo, perchè non può essere provata la dedotta non decisività dell’errore di quantificazione nella ricostruzione del reddito (percentuale di ricarico e applicazione IVA in acquisto e vendita); il secondo perchè non può essere provata la produzione dei buoni di consegna; il terzo perchè in assenza di documenti non prodotti nemmeno dall’Ufficio la CTR non poteva essere chiamata a rimodulare con appropriata motivazione la pretesa impositiva dell’Erario.
In definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna alla rifusione delle spese del grado di giudizio a favore della parte contribuente che liquida in Euro settemilaottocento/00, oltre a rimborso forfettario nella misura del 15%, iva e cpa come per legge.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2019