Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.10137 del 28/05/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 21582/2013 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12

– ricorrente –

contro

S.L., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Achille Rossi, del Foro di Firenze, elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cola di Rienzo, n. 92, presso lo studio dell’avv. Elisabetta Nardone

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana n. 43/30/12 pronunciata il 7.6.2012 e depositata il 20.6.2012 Udita la relazione svolta in Camera di Consiglio del 17.12.2019 dal consigliere Dott. Giuseppe Saieva.

FATTI DI CAUSA

1. S.L., esercente l’attività di trasporto per conto terzi, impugnava l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate di Prato, rilevato che l’ammontare dei redditi dichiarati per l’anno 2003 era inferiore a quello derivante dall’applicazione degli studi di settore, aveva determinato maggiori ricavi ai fini IRPEF, IRAP, IVA per Euro 92.332,00, con un reddito imponibile di Euro 102.245,00. Sosteneva il contribuente che il cluster di riferimento e lo studio nel suo complesso fossero scarsamente rappresentativi dell’attività svolta.

2. La decisione di rigetto della Commissione Tributaria Provinciale di Prato veniva impugnata dal contribuente dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, la quale con sentenza n. 43/30/12 pronunciata il 7.6.2012 e depositata il 20.6.2012, ne accoglieva l’appello.

4. Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate ha quindi proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui il contribuente resiste con controricorso.

5. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 17.12.2019, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis-1 c.p.c.

6. Il controricorrente ha depositato una memoria nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., insistendo nell’accoglimento delle proprie richieste.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia deduce la “nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)” assumendo che l’atto di appello proposto dal contribuente conteneva generiche censure alla sentenza di primo grado e soprattutto era mancante delle specifiche argomentazioni da cui dedurre i vizi, in fatto e in diritto, da cui sarebbe risultata affetta la sentenza.

1.2. La censura è infondata.

1.3. Come affermato da questa Corte “nel processo tributario, l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza. E’, pertanto, irrilevante che i motivi siano enunciati nella parte espositiva dell’atto ovvero separatamente, atteso che, non essendo imposti dalla norma rigidi formalismi, gli elementi idonei a rendere specifici i motivi d’appello possono essere ricavati, anche per implicito, purchè in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni” (v. Cass. n. 227/2016; n. 264/2016; n. 1224/2007; n. 7393/2011).

1.4. Questa Corte ha altresì affermato che allorchè “il dissenso della parte soccombente investa la decisione impugnata nella sua interezza” ed “esso si sostanzi proprio in quelle argomentazioni che suffragavano la domanda disattesa dal primo giudice”, la sottoposizione al giudice d’appello delle medesime argomentazioni adempie pienamente l’onere di specificità dei motivi (Cass. n. 8185/15; Cass. n. 14908/2014). In particolare, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, il ricorso in appello deve contenere i “motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi”, atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (Cass. n. 3064/12).

1.5. In sostanza, la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza. (Cass. n. 264/2016) 1.6. Nel caso di specie appare pertanto assolutamente corretta l’affermazione della C.T.R. che ha ritenuto ammissibile il ricorso del contribuente sulla base dell’espresso richiamo dei motivi dedotti nel ricorso di primo grado.

2. Con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, conv. in L. n. 427 del 1993, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, lamentando che la C.T.R., accogliendo la tesi dell’appellante in ordine alla scarsa rappresentatività del cluster 30, aveva ritenuto che il sensibile scostamento dai parametri previsti dagli studi di settore del reddito dichiarato fosse superabile anche in assenza della mancata partecipazione al contraddittorio da parte dell’interessato.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. Una volta attivato il contraddittorio, “l’onere probatorio negli accertamenti da studi di settore è così ripartito: a) all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto dell’accertamento; b) al contribuente, che può utilizzare a suo vantaggio anche presunzioni semplici, fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce. La motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte (cfr. Cass., sez. un., n. 26635 del 2009, Cass. 12558 del 2010, Cass. n. 12428 del 2012, Cass. n. 23070 del 2012; Cass. n. 17787 del 2016; Cass. 9806 e 17289 del 2017; Cass. n. 18907 del 2018; Cass. n. 379 del 2019).

E’ stato, poi, ulteriormente specificato che, a norma del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, convertito nella L. n. 427 del 1993, “gli accertamenti di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 bis, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente. (Cass. n. 16430/2011).

2.3. Nella specie, la C.T.R. si è attenuta ai suddetti principi, ritenendo illegittimo l’accertamento tributario standardizzato emesso, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d) e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, sulla base degli studi di settore, nella considerazione che – a fronte della dimostrazione da parte dell’Ufficio della non corretta applicabilità in concreto dello “standard” prescelto – la mancata partecipazione al contraddittorio, tutt’altro che decisiva ai fini dell’applicazione dei parametri previsti, non aveva impedito al contribuente la propria difesa in giudizio avendo lo stesso assolto all’onere della prova (contraria) circa l’esistenza delle condizioni giustificanti l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui poteva essere applicato quello standard (onere ritenuto assolto dal giudice di appello con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità). La C.T.R. ha inoltre considerato che al S. non erano state contestate irregolarità nella tenuta dei registri obbligatori o nelle dichiarazioni, talchè “ribadito che il risultato dello studio di settore vale solo come presunzione semplice superabile dalle osservazioni del contribuente e che nella fattispecie le prospettazioni addotte a sostegno di ricavi inferiori a quelli presunti sono ritenute plausibili”, ha proceduto all’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato.

In conclusione, il ricorso va quindi rigettato. Le spese seguono la soccombenza. Non sussistono nel caso di specie i presupposti per il versamento del contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, in quanto le amministrazioni pubbliche difese dall’Avvocatura generale dello Stato, in caso di soccombenza, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass., VI sez. 29.1.2016, n. 1778 Rv. 638714-01).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle Entrate al rimborso delle spese sostenute dal controricorrente che liquida in 5.600 Euro, oltre al 15% di spese generali, Euro 200 per rimborsi ed accessori di legge.

Cosi deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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