Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.11167 del 10/06/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Angelo Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 7724/2019 proposto da:

E.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Lucia Paolinelli, come da procura speciale in calce al ricorso per cassazione, con la stessa elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell’Avv. Enrica Inghilleri;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– resistente –

avverso la sentenza della Corte di appello di ANCONA n. 1707/2018, pubblicata in data 10 agosto 2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2020 dal Consigliere CARADONNA Lunella.

FATTI DI CAUSA

1. E.P., nato in *****, ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Ancona dell’1 giugno 2017, che, al pari della Commissione territoriale competente, aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

2. Il richiedente ha dichiarato di non volere più fare rientro nel Paese di origine per il timore di essere perseguitato, ovvero per il pericolo degli attentati, frequenti nella città di *****, e di avere scoperto solo in un secondo momento il proprio orientamento sessuale, quando oramai era già fuggito dal proprio paese.

3. La Corte di appello di Ancona ha ritenuto insussistenti i presupposti necessari per il riconoscimento di ciascuna delle forme di protezione invocate, sulla base delle dichiarazioni del richiedente giudicate non credibili, della mancanza di un effettivo rischio nell’ipotesi di rientro nel Paese d’origine alla luce della concreta situazione socio-politica del suo Paese di provenienza e dell’assenza di lesioni di diritti umani.

4. E.P. ricorre in cassazione con due motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese e ha depositato atto di costituzione ai soli fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va rilevata la tardività della documentazione prodotta dalla parte ricorrente, atteso che nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di atti e documenti che non siano stati prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero concernano nullità inficianti direttamente la decisione impugnata, nel qual caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., rimanendo inammissibile la loro produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 c.p.c. (Cass., 12 novembre 2018, n. 28999).

2. Con il primo motivo E.P. lamenta la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’art. 1 (A) della Convenzione di Ginevra, dell’art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, 11 e 32. Vizio di motivazione.

Ad avviso del ricorrente non si rinviene nello sviluppo argomentativo della decisione impugnata il corretto esame dei parametri normativi di credibilità del racconto del richiedente e non è applicato correttamente il principio secondo cui la credibilità soggettiva del richiedente non è frutto di soggettivistiche opinioni, ma va svolto alla stregua dei criteri stabiliti al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

Inoltre, il ricorrente si duole che la Corte non ha esaminato la condizione personale di omosessuale del richiedente, comportamento considerato reato dalle leggi nigeriane.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte distrettuale, condividendo le motivazioni del primo Giudice, ha ritenuto la versione dei fatti portata da richiedente non attendibile e carente di riscontri in ordine alla veridicità del racconto, oltre che non circostanziata e contraddittoria e che il ricorrente si era limitato a dedurre un generico pericolo legato alla persecuzione dei soggetti omosessuali in Nigeria, specificando di avere scoperto solo in un secondo momento il proprio orientamento sessuale, quando oramai era già fuggito dal proprio paese, sicchè la fuga era stata motivata non dal pericolo di persecuzione, ma da meri motivi economici, tanto è vero che la domanda di protezione internazionale era stata avanzata solo nel 2015, mentre il richiedente risultava avere lasciato il proprio paese d’origine nel 2008.

Tanto premesso, questa Corte, in materia di protezione internazionale, ha affermato che “D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, verifica sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21142).

Nel caso di specie la decisione censurata ha valutato, seppure in modo sintetico, ma non apodittico, le dichiarazioni rese dal ricorrente, rilevando la sussistenza di contraddizioni nel racconto e giungendo ad una valutazione complessiva di non credibilità, fondata su un controllo di logicità del racconto del richiedente.

Peraltro la valutazione compiuta dal giudice del merito al riguardo non è sindacabile in sede di legittimità sul piano della violazione di legge, ma solo nei limiti del sindacato motivazionale consentito dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati.

Il motivo, sotto lo specifico profilo esaminato, è quindi infondato perchè la motivazione esiste ed è basata su risultanze di causa richiamate e valutate dal collegio giudicante e quindi sorretta da un contenuto non inferiore al “minimo costituzionale”, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte, così da sottrarsi al sindacato di legittimità della stessa e alla conseguente valutazione di “anomalia motivazionale” delineata, per quanto detto, come violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053).

2.2 Per quel che concerne la protezione sussidiaria erra, poi, l’istante a dolersi della mancata spendita, da parte dei giudici del merito, dei doveri di cooperazione istruttoria contemplati in tema di protezione internazionale.

La Corte di appello, oltre ad evidenziare che il richiedente aveva fornito informazioni estremamente vaghe sulla esatta zona di provenienza non essendo stato in grado di specificare da quale parte di Kano provenisse, ha dato atto, richiamando specifiche fonti aggiornate al 4 aprile 2017 (pag. 4), che i recenti sviluppi relativi alla politica interna del Paese sembravano condurre ad una fase di assestamento e pacifica convivenza, sicchè le tensioni interne dovevano considerarsi sopite.

Inoltre, la Corte distrettuale ha evidenziato, con riguardo alla zona di Kano, che la stessa non fosse interessata, a differenza del nord-est del paese, da scontri e forme di violenza tra opposti gruppi di potere e di fazioni varie, sottolineando, in ogni caso, l’recenti sviluppi, in senso pacifico, che avevano interessato la situazione politica interna nigeriana.

Deve peraltro sottolinearsi che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui all’art. 14, lett. c) citato, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, sicchè non può essere rivalutato in questa sede, con l’impugnazione proposta, il giudizio espresso dalla Corte di appello sulla scorta delle informazioni da essa acquisite (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass. 21 novembre 2018, n. 30105).

Va inoltre ricordato, in proposito, che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente, che è prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27503).

Anche le domande aventi ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato politico e di protezione sussidiaria ex art. 14 cit., lett. a) e b), in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento, sono state dunque correttamente disattese.

2.3 Pure la censura sull’omesso esame della condizione di omosessuale del richiedente, non merita accoglimento, in quanto, come già evidenziato, detta circostanza è stata presa in esame dalla Corte distrettuale e nei termini in cui è formulata si risolve nella richiesta di una rivalutazione dei fatti già oggetto del sindacato del giudice di merito e nella sollecitazione ad un nuovo esame delle risultanze istruttorie, inammissibile in questa sede, spettando al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove e scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, in cui un valore legale è assegnato alla prova (Cass., 26 marzo 2010, n. 7394).

3. Con il secondo motivo E.P. lamenta la violazione e falsa applicazione della legge nazionale e sovranazionale inerente il permesso di soggiorno per motivi umanitari, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, commi 6 e 19, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32; dell’art. 3 CEDU e art. 10 Cost.; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Vizio di motivazione.

Ad avviso del ricorrente anche sotto il profilo della protezione umanitaria la Corte distrettuale doveva verificare la situazione di grave instabilità politica e sociale presente in Nigeria, oltre che la condizione di omosessuale del richiedente, e la conseguente necessità di applicare il principio di non refoulement stabilito anche dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.

3.1 Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

E’ utile, invero, premettere che, come ribadito anche di recente da questa Corte, la protezione umanitaria – secondo i parametri normativi stabiliti dall’art. 5, comma 6; art. 19, comma 2, T.U. n. 286 del 1998 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32 – è una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

A tal fine, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio e non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con specifico riferimento, poi, al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Ed infatti, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanìtaria (Cass., 3 aprile 2019, n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459). 3.2 Nel caso concreto, la Corte territoriale ha escluso l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, oltre che della protezione internazionale e sussidiaria, anche della invocata protezione umanitaria, considerando che il ricorrente non aveva indicato oggettive e gravi situazioni personali che non permettevano l’allontanamento dal territorio nazionale, evidenziando, sia pure in modo stringato, ma non apodittico (pag. 4), l’assenza di criticità nel Paese di provenienza del richiedente ed ha escluso sue situazioni di vulnerabilità soggettiva, occorrendo, invece, che la condizione di vulnerabilità sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita nel Paese di provenienza, in conformità del disposto degli artt. 2, 3 e 4 CEDU (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

3.3 In ordine alla condizione di omosessualità occorre premettere che questa Corte ha affermato che “ai fini della concessione della protezione internazionale, la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta; devono, pertanto, essere acquisite le prove, necessarie al fine di acclamare la circostanza della omosessualità del richiedente, la condizione dei cittadini omosessuali nella società del Paese di provenienza e lo stato della relativa legislazione, nel rispetto del criterio direttivo della normativa comunitaria e italiana in materia di istruzione ed esame delle domande di protezione internazionale” (Cass., 14 ottobre 2019, n. 25885; Cass., 20 settembre 2012, n. 15981 del 20/09/2012).

Nel caso in esame, tuttavia, la mancanza di credibilità delle vicende narrate dal ricorrente, non consente la concessione della richiesta protezione mancando alla base ogni prova di appartenenza ad un “particolare gruppo sociale”, quello di omosessuale, sottoposto agli atti di persecuzione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, od oggetto di minaccia grave D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14.

3.4 E infondata anche la censura che richiama il principio di non refoulement previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.

Senza prescindere dalla genericità della deduzione che manca di ogni puntuale riferimento al caso in esame e di confronto con la decisione impugnata, va precisato che l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, in cui si declina il più generale principio di non refoulement, resta in ogni caso inserito nel diverso contesto dell’opposizione alla misura espulsiva, che impone al richiedente di prospettare il concreto pericolo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, mentre la disciplina della protezione internazionale introduce una misura umanitaria, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice (Cass., 8 aprile 2019, n. 9762; Cass., 17 febbraio 2011 n. 3898).

4. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020

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