Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.11515 del 15/06/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5906/2017 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliato in Roma, via G. Avezzana 31, presso lo studio dell’avvocato De Dominicis Tommaso, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Bricca Lanfranco, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

F. Ingegneria s.p.a. in a.s., in persona dei Commissari Straordinari pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, piazza Cola Di Rienzo 92, presso lo studio dell’avvocato Nardone Elisabetta, rappresentata e difesa dall’avvocato Dominici Fabio, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 97/2017 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 06/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/01/2020 da Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA.

FATTI DI CAUSA

1.- La s.p.a. F., impresa in amministrazione straordinaria dall’aprile 2000, ha convenuto avanti al Tribunale di Perugia S.L. (titolare di una impresa di materiali per l’edilizia), per la revoca D.Lgs. n. 270 del 1999, ex art. 49 e L. Fall., art. 67, comma 2 di una serie di pagamenti intervenuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di insolvenza.

Con sentenza depositata il 20 novembre 2013, il Tribunale ha dichiarato l’inammissibilità della domanda, nel “presupposto che la documentazione indicata dall’attrice nel proprio fascicolo (trattasi di ben 149 documenti) non fosse stata in realtà mai prodotta” e altresì ritenendo la “perfetta ignoranza” del convenuto circa lo stato di decozione della società poi sottoposta a procedura.

2.- E’ seguito l’appello avanti alla Corte di Perugia. Che, con sentenza depositata il 6 febbraio 2017, ha accolto l’impugnazione proposta dalla procedura.

3.- Nel riformare la pronuncia impugnata, la Corte umbra ha ritenuto che l'”assunto del Tribunale circa la mancata produzione della documentazione da parte della F. non può essere condiviso”: l'”appellato insiste sulla mancata produzione della documentazione rilevando che l’indice della documentazione non fosse stato sottoscritto dalla parte e soprattutto non contenesse l’attestazione da parte della cancelleria del Tribunale circa l’avvenuto deposito della stessa; omette, tuttavia, di rilevare che neppure l’elenco dei documenti dallo stesso appellato prodotto in giudizio reca la sottoscrizione e l’attestazione della cancelleria del Tribunale”.

L’assunto del Tribunale, d’altra parte, risulta “smentito dalle dichiarazioni dello stesso S., che per tutto il giudizio ha argomentato sui documenti della F., dando atto di averli esaminati attentamente”, come pure dal fatto che, dopo il deposito della sentenza appellata, “la cancelleria del Tribunale ha attestato il ritiro del fascicolo di parte e dei relativi documenti prodotti dalla F.”.

4.- La Corte territoriale ha altresì rilevato che l'”ampia documentazione prodotta dalla F.” viene a indicare che, al tempo degli avvenuti pagamenti, l’accipiens S. era a conoscenza della decozione del solvens: già nel marzo del 1999 questa era in forte debito nei confronti di S., anche con connesso “ingigantirsi della esposizione debitoria”; a giugno proponeva una “riprogrammazione dei pagamenti” diretta a dilazionare il credito maturato a maggio (e pari a Euro 223.716.938); tre giorni dopo, il creditore “reclamava il pagamento degli insoluti”; a quel momento “residuavano fatture insolute addirittura dell’anno precedente”.

Del resto, il creditore consegnava il materiale richiestogli presso il cantiere di Modena, all’epoca in evidente “stato di dissesto”, perchè i “subappaltatori e i fornitori della F. si rifiutavano di eseguire le proprie prestazioni a causa degli inadempimenti di questa”. All’epoca, la s.p.a. F. costituiva un’azienda di primaria importanza per la piazza di Perugia, dove pure l’impresa di S.L. aveva la sua sede. Delle difficoltà finanziarie della F. si era occupata, per di più, anche la stampa nazionale.

5.- Avverso questo provvedimento S.L. ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi.

Resiste la procedura, con controricorso.

6.- Il ricorrente ha anche depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

7.- Col primo motivo, il ricorrente assume violazione “del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 49 in relazione agli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”, “degli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”, “del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 49 e degli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 345 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

8.1.- Afferma dunque il ricorrente che la normativa vigente “sancisce specifiche “formalità”” in merito alle modalità di produzione dei documenti e alla prova dell’avvenuta produzione”; che tali modalità non prevedono, nè ammettono, equipollenti di sorta; che, non essendo state nella specie rispettate queste modalità, non risulta depositato alcun documento; che, in particolare, non risulta depositato il documento n. 4, relativo al decreto ministeriale di autorizzazione all’esecuzione del programma di cessione del complesso aziendale.

Ne deriva – si sostiene – che la sentenza impugnata ha violato non solo le norme che stabiliscono le modalità di produzione dei documenti, ma anche quella del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 49, perchè questa considera il deposito del decreto ministeriale come “condizione di procedibilità dell’azione” revocatoria.

Ha anche violato – si aggiunge – la norma dell’art. 345 c.p.c.: il divieto di produzione di nuovi documenti in appello va rilevato anche d’ufficio.

8.2.- Ciò fermato, il motivo osserva ancora che – a volere ammettere la possibilità di provare per “mere presunzioni” l’avvenuto deposito dei documenti – la sentenza ha comunque errato, perchè ha tratto la presunzione da dati “erronei”: il convenuto “in primo grado ha potuto contestare i documenti… senza necessità di consultare tutti i documenti, per l’assorbente ragione che tutti questi documenti (che F. affermava di depositare) erano stati compiutamente indicati uno per uno nell’atto di citazione originario”; detti documenti sono stati “dall’attrice tutti compiutamente descritti in citazione, senza, pertanto, alcuna necessità di consultazione degli stessi”; solo “con la sentenza di primo grado, S. ha preso conoscenza che i detti documenti… mancavano”. A nulla vale, poi, la “certificazione” di avvenuto ritiro del fascicolo di parte, posto che questa non dettaglia gli specifici contenuti del fascicolo e, del resto, afferma la sussistenza di non precisati documenti solo al tempo del ritiro del fascicolo.

9.- Il motivo non merita di essere accolto.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto occasione di precisare che la conoscenza – comunque ottenuta – della parte dei documenti non ritualmente prodotti dall’altra vale a sanare il relativo vizio. Le norme che disciplinano la produzione dei documenti sono infatti intese a garantire il diritto di difesa della parte contro la quale sono stati prodotti: l’avvenuta conoscenza degli stessi mostra, dunque, che nel concreto lo scopo è stato in ogni caso raggiunto (cfr., tra le altre, Cass., 22 aprile 2010, n. 9545; Cass., 9 marzo 2010, n. 5671; Cass., 20 novembre 1995, n. 12015).

In proposito, è pure da sottolineare che, nella specie, la Corte territoriale ha rilevato la conoscenza dei documenti da parte del convenuto sin dal primo atto di difesa di questi (il provvedimento infatti richiama, tra gli altri atti, la “comparsa di costituzione innanzi al Tribunale alle pp. 7, 13 e 14”).

10.- Il ricorrente, d’altra parte, non lamenta nel concreto alcuna lesione, o contrazione, del proprio diritto di difesa. Riconosce apertamente, anzi, di avere “potuto contestare i documenti” in questione: al punto di dichiarare di avere preso conoscenza dell’irritualità del deposito in questione solo “con la sentenza di primo grado”.

Anche da quest’angolo visuale, perciò, la sentenza della Corte umbra va esente da critiche: è senz’altro deduzione ragionevole, infatti, quella secondo cui l’avvenuta contestazione di dati documenti suppone la conoscenza dei medesimi.

11.- Ciò posto, è appena il caso di aggiungere che quanto vale per l’intero genere della documentazione (non ritualmente) prodotta dalla procedura della F. è riferibile pure per il deposito del decreto ministeriale di autorizzazione alla cessione del complesso aziendale (doc. n. 4), su cui il ricorrente particolarmente insiste.

12.- Non condivisibile è, poi, il rilievo del ricorrente sul divieto di nuove produzioni documentali in sede di appello, posto che la rilevata sanatoria dell’irritualità del deposito si è consumata per intero nel contesto del processo del primo grado.

13.- Col secondo motivo, il ricorrente assume violazione della L. Fall., art. 67 in relazione agli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., nonchè in relazione agli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; e pure violazione della L. Fall., art. 67,artt. 2697,2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 345 cod. pro. civ. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello ha errato nel ritenere che l’accipiens S. avesse conoscenza dello stato di insolvenza in cui versava la F..

Essa ha desunto la relativa prova in “base a una valutazione “frazionata” di “singoli” asseriti elementi presuntivi, di cui ha operato una sorta di “sommatoria” senza procedere a una valutazione complessiva (“nel loro insieme”) degli stessi”; in particolare ha valorizzato il “contenuto di un documento (“una nota a firma del convenuto attestante che a tale data residuavano fatture insolute addirittura dell’anno precedente”) che non esiste, che non risulta neppure indicato nell’elenco del fascicolo di parte del primo grado”; il “fatto che vi siano stati contatti fra F. Ingegneria e lo S.L. per “riprogrammare lo scaduto” non dimostra (nè potrebbe dimostrare alcunchè ai fini della prova L. Fall., ex art. 67", posto che quest’ultimo “ha sempre confidato nell’adempimento, anche se tardivo” del proprio debitore.

In realtà, avrebbe dovuto essere valorizzata, invece, la natura di ditta artigiana dell’impresa di S., che “non appartiene al mondo degli operatori specializzati nel credito, nè tantomeno a quello del grande imprenditore” ed è sprovvisto “per sua stessa struttura, di strumenti e personale in grado di desumere lo stato di insolvenza della F. Ingegneria”.

14.- Il motivo non può essere accolto.

15.- In proposito, è bene ricordare, prima di ogni altra cosa, che i contenuti di base della giurisprudenza, che questa Corte è venuta a consolidare in tema di revocatoria fallimentare e di scientia decoctionis, di recente sono stati opportunamente sintetizzati, tra le altre, dalle pronunce di Cass. n. 12 novembre 22019, n. 9257 e di Cass., 11 febbraio 2020, n. 3327.

Hanno in specie rilevato i detti provvedimenti che la “conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo contraente, pur dovendo essere effettiva, può essere provata anche mediante indizi e fondata su elementi di fatto, purchè idonei a fornire la prova per presunzioni di tale effettività. Orbene, se è vero che la scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione così come il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l’esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità (ex multis, Cass. n. 3845/2019; Cass., n. 3336/2015), è pur vero che, per giurisprudenza altrettanto consolidata in tema di prova per presunzioni, il giudice deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento”.

“Da tempo questa Corte segnala che il giudice è tenuto a seguire un procedimento articolato in due fasi logiche: dapprima, una valutazione analitica degli elementi indiziari, per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva (che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi). In tal senso è stata ritenuta censurabile in sede di legittimità la decisione con la quale il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio, atomisticamente considerati, senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, fossero però in grado di acquisirla ove valutati secondo un giudizio complessivo di sintesi e di vicendevole completamento (ex multis, Cass. n. 18822/2018; Cass. n. 9059/2018; Cass., n. 5374/2017)”.

16.- Nel caso di specie, il giudice del merito ha raccolto un’ampia e articolata messe di circostanze indiziarie, la maggior parte delle quali concernenti il diretto svolgersi dei rapporti correnti tra la F. e l’impresa di S.L.; e tutte di segno univoco.

Sotto questo profilo la presenza o meno, nell’arco dei documenti prodotti dall’attore in primo grado, di una nota sottoscritta dallo stesso S., e relativa al montante del debito allora in essere, non viene ad assurgere a dato determinante. Rilevante è, piuttosto, il montante del debito della F. che in quel periodo era andato accumulandosi (che è il dato oggettivo di base, che emerge dalla citata nota): montante la cui misura il ricorrente non viene in alcun modo a contestare.

Trattasi, in realtà, di montante in sè stesso decisamente significativo per il creditore (salendo quasi a un quarto di milione di Euro), anche a non possedere (come sostiene il ricorrente) strumenti di controllo e gestione della propria liquidità: e più ancora, a ben vedere, laddove il creditore sia – come riferisce ancora il ricorrente – una impresa artigiana, come tale fondata prevalentemente sul fattore di produzione dato non dal capitale, bensì dal lavoro.

D’altro canto, il pure e semplice fatto che – di fronte a una proposta di riprogrammazione delle scadenze del debito in essere – Scaccia non abbia dato corso a ingiunzioni di pagamento o a procedure esecutive non viene automaticamente a indicare, come pare pretendere il ricorrente, l’esistenza di una inscientia decoctionis: nel contesto delle altre circostanze indicate dalla Corte territoriale, una simile opzione sembra piuttosto rispondere a una scelta del creditore di recuperare quanto più possibile in via bonaria e senza l’aggravio di spese di giudizio.

17.- In conclusione, il ricorso dev’essere rigettato.

Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro 5.600.00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre a spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, secondo quanto stabilito dalla norma del comma 1 bis dell’art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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