LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIDONE Antonio – Presidente –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8969/2019 R.G. proposto da:
Y.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Daniela Gasparin, con domicilio in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di Cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– resistente –
avverso il decreto del Tribunale di Milano depositato il 12 febbraio 2019.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 20 febbraio 2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 12 febbraio 2019, il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da Y.M., cittadino del Burkina Faso.
Premesso che il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal suo Paese per non essersi sentito accettato dai suoi familiari, che a seguito della morte del padre, rivelatosi poi un genitore adottivo, avevano manifestato la volontà di escluderlo dalla famiglia, impedendogli di partecipare alla sua successione, il Tribunale ha ritenuto credibile la narrazione, in quanto non inficiata da contraddizioni o affermazioni implausibili, ma ha escluso la riconducibilità della vicenda alle fattispecie previste dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, esprimendo dubbi sulla veridicità della dichiarazione, resa solo in giudizio dal ricorrente, secondo cui era stato picchiato dai parenti del padre, ed osservando comunque che egli avrebbe potuto ottenere tutela dalle autorità competenti. Ha ritenuto altresì insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, escludendo la configurabilità del rischio di sottoposizione alla pena capitale o a trattamenti inumani o degradanti, e richiamando il rapporto 2016-2017 di Amnesty International ed il rapporto 2016 dell’US Department of State relativi al Burkina Faso, da cui risultava che in detto Paese non era riscontrabile una situazione di violenza generalizzata derivante da un conflitto armato interno tale da porre in pericolo l’incolumità della popolazione civile, ma solo abusi compiuti da gruppi armati in danno di coltivatori ed agricoltori ed attentati di matrice islamica nei confronti delle ambasciate straniere. Quanto poi alla protezione umanitaria, ha ritenuto che, nonostante la giovane età del ricorrente, una valutazione globale della sua situazione, caratterizzata dalla mancanza di uno stabile inserimento nella realtà socio-lavorativa, impedisse di ipotizzare, in caso di rimpatrio, un’apprezzabile compromissione del suo diritto ad un’esistenza libera e dignitosa, in ogni caso non raggiunta in Italia.
2. Avverso il predetto decreto lo Y. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto privo dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., richiamato dall’art. 370 c.p.c., comma 2 e finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale: nel procedimento in Camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale presuppone che l’intimato risulti già costituito mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3, 4,5,6 e 7, D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, artt. 8 e 27 e degli artt. 2 e 3 della CEDU, nonchè l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, censurando il decreto impugnato per avere da un lato escluso la contraddittorietà o l’implausibilità della vicenda personale da lui narrata, e dall’altro ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, in virtù della genericità e vaghezza delle dichiarazioni da lui rese in ordine alle violenze subìte ad opera dei parenti del padre. Premesso che a sostegno della decisione sono stati riportati soltanto alcuni passi delle predette dichiarazioni, trascurandone altri, osserva che, nell’affermare la possibilità di ottenere tutela dalle autorità del Paese di origine, il Tribunale non ha tenuto conto della situazione di difficoltà economica in cui egli versava e della sua condizione sociale e personale, che gl’impedivano di far valere i suoi diritti. Aggiunge che, pur avendo segnalato le turbolenze politiche e gli scontri armati in atto nel Burkina Faso, il decreto impugnato ha escluso la riconducibilità della sua situazione all’art. 1 della Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, limitandosi ad evidenziare incongruenze di poco conto ed omettendo invece di svolgere un’indagine approfondita in ordine alle circostanze da lui riferite ed al contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, nonchè di valutare le minacce da lui subìte, la sua situazione di emarginazione ed il suo timore di essere sottoposto a persecuzioni in caso di rimpatrio.
3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, art. 3, comma 5 e art. 14, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2, 3, 6 e 13 della CEDU, art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva n. 2013/32/CE, nonchè l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, osservando che, nel valutare la credibilità delle dichiarazioni da lui rese, il decreto impugnato si è limitato a rilevarne la genericità ed a richiamare semplicisticamente lo stato di violenza e difficoltà economica del Paese di origine, senza descriverne compiutamente la situazione. Afferma che il Tribunale, pur avendo escluso la contraddittorietà delle predette dichiarazioni, non ha adempiuto il proprio dovere di cooperazione istruttoria, avendo omesso di attivarsi per il reperimento di riscontri in ordine ai fatti allegati e di valutare le violazioni di diritti umani ricollegabili alla situazione generale d’insicurezza in atto nel Burkina Faso ed all’assenza di protezione da parte delle autorità statali, che avrebbero giustificato il riconoscimento della protezione sussidiaria.
4. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, sono infondati.
In tema di protezione internazionale, la valutazione in ordine alla credibilità delle dichiarazioni rese dallo straniero, da condursi sulla base dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, per omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per difetto di motivazione, da intendersi non già come mera insufficienza o contraddittorietà della stessa, ma come mancanza assoluta della motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico oppure come motivazione meramente apparente, perplessa o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, sempre che tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo del provvedimento impugnato (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340; Cass., Sez. VI, 30/10/2018, n. 27503). Tali carenze non sono riscontrabili nel caso in esame, avendo il Tribunale motivato adeguatamente il giudizio d’inattendibilità espresso in ordine alle dichiarazioni rese dal ricorrente in udienza, mediante la sottolineatura della loro tardività, nonchè della vaghezza e genericità del loro contenuto, che non contrastano in alcun modo con l’affermata credibilità di quelle rese nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ritenute invece coerenti e plausibili. Nel lamentare l’omesso esame di parte delle dichiarazioni da lui rese, il ricorrente si astiene peraltro dal riportarne il contenuto a corredo della censura, la quale risulta pertanto priva di specificità, non consentendo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità della predetta asserzione, prima ancora di verificare la fondatezza del motivo d’impugnazione.
La ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni relative alle violenze subite dal ricorrente risulta a sua volta sufficiente a giustificare l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato, secondo cui la vicenda narrata a sostegno della domanda non è riconducibile nè agli atti persecutori per i quali il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, prevede il riconoscimento dello status di rifugiato, nè alle fattispecie di danno grave per le quali l’art. 14, lett. a) e b), del medesimo decreto prevede la concessione della protezione sussidiaria, trattandosi di una controversia di natura meramente familiare e patrimoniale, in relazione alla quale non potrebbe assumere rilievo neppure la dedotta incapacità degli organi statali di fornire adeguata protezione, non essendo configurabili i motivi di cui all’art. 7, nè un trattamento inumano o degradante. Conseguentemente, deve escludersi l’inadempimento da parte del Tribunale del dovere di cooperazione istruttoria officiosa previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, il quale presuppone l’allegazione da parte dello straniero dei fatti costitutivi della sua personale esposizione a rischio, in presenza della quale soltanto il giudice è tenuto ad accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, la situazione in atto nel Paese di origine del richiedente consenta di ritenere fondato il timore di quest’ultimo di essere sottoposto, in caso di rimpatrio, ad atti persecutori o a trattamenti inumani o degradanti (cfr. Cass., Sez. I, 19/04/2019, n. 11096).
Quanto poi alla configurabilità della fattispecie di cui del cit. art. 14, lett. c), il decreto impugnato non ha affatto omesso di procedere al necessario riscontro in ordine alla situazione in atto nel Paese di origine del richiedente, avendo richiamato le informazioni desunte da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, dalle quali ha desunto che in Burkina Faso non sussiste uno stato di violenza generalizzata derivante da un conflitto armato, tale da esporre a rischio di un danno grave alla vita o alla persona chiunque si trovi in quel territorio, registrandosi soltanto abusi di gruppi armati o attentati rivolti contro determinate categorie di soggetti, alle quali il ricorrente non ha neppure dedotto di appartenere. Nel contestare tale apprezzamento, la difesa del ricorrente non è in grado di indicare circostanze di fatto emerse dal dibattito processuale e trascurate dal decreto impugnato, ma si limita ad insistere nel proprio assunto, a sostegno del quale invoca le medesime fonti citate dal Tribunale, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonchè la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi delle disposizioni dianzi richiamate.
5. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, art. 10, comma 3 e art. 19, comma 2, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,4,7,14,16 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 32, art. 10 Cost. e art. 111 Cost., comma 6 e art. 132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, rilevando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, il decreto impugnato non ha tenuto conto della sua giovane età e della titolarità di un rapporto di lavoro a tempo determinato, sia pure da poco scaduto. Aggiunge che il Tribunale ha ritenuto necessari, ai fini di una stabile integrazione nel territorio italiano, elementi non richiesti, come la locazione di un appartamento, mentre ha omesso di svolgere qualsiasi accertamento in ordine alla situazione di vulnerabilità in cui egli si troverebbe in caso di rientro nel Paese di origine, a causa dell’isolamento familiare e delle difficoltà economiche in cui versava prima di allontanarsene.
5.1. Il motivo è infondato.
A fondamento della decisione, il Tribunale non si è limitato ad escludere l’avvenuto inserimento del ricorrente nel tessuto sociale e lavorativo del nostro Paese, ma ha altresì rilevato la mancata allegazione di una situazione personale di vulnerabilità, diversa da quella emergente dalle dichiarazioni già ritenute inattendibili, in tal modo escludendo la disponibilità di uno degli elementi necessari per la valutazione comparativa richiesta ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. Tale valutazione, da effettuarsi caso per caso, postula infatti un confronto tra la situazione personale in cui il ricorrente versava prima dell’abbandono del Paese di origine, ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, ed il livello d’integrazione sociale ed occupazionale raggiunto in Italia, non risultando sufficiente la considerazione isolata di uno dei due aspetti, dal momento che non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero parametri di benessere, nè quello d’impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di estrema difficoltà economica e sociale, in assenza di un’effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681). Nel contestare il predetto apprezzamento, il ricorrente non è in grado d’indicare circostanze di fatto emerse dal dibattito processuale e trascurate dal decreto impugnato, ma si limita ad insistere sul valore probatorio di elementi puntualmente presi in considerazione da parte del Tribunale, e ritenuti insufficienti ai fini della configurabilità della predetta situazione di vulnerabilità, in tal modo dimostrando di voler sollecitare ancora una volta un riesame dei fatti, non consentito in sede di legittimità.
6. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.
Essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito delle spese processuali, non ricorrono, allo stato, i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (cfr. Cass., Sez. VI, 22/03/2017, n. 7368; 2/09/2014, n. 18523).
PQM
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto dell’insussistenza, allo stato, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis, sempre che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non risulti revocata dal giudice competente.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2020