LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso n. 27662/19 proposto da:
S.S., elettivamente domiciliato a Torino, Via Moretta n. 24, presso l’avv. Barbara Cattelan che lo difende in virtù di procedura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino 19.2.2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 marzo 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.
FATTI DI CAUSA
S.S., cittadino gambiano, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:
(a) in via principale, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14;
(b) in via subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ex D.Lgs. n. 25 luglio 1998, n. 286 art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);
a fondamento dell’istanza dedusse di avere lasciato il Gambia per sfuggire alle violenze paterne, il quale, essendo di religione cristiana, non tollerava che il proprio figlio si fosse invece convertito all’islamismo;
la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;
avverso tale provvedimento S.S. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso al Tribunale, che lo rigettò;
l’ordinanza di primo grado venne appellata dal soccombente solo nella parte in cui aveva rigettato la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari; dedusse che il radicale conflitto col padre aveva reso l’odierno ricorrente persona “vulnerabile”: sia per l’incidenza che quel conflitto aveva avuto sulla sua libertà religiosa, sia per la fragilità psicologica che ad esso era conseguita;
l’appello venne rigettato dalla Corte d’appello di Torino con sentenza 19.2.2019;
a fondamento della propria decisione la Corte d’appello ritenne che:
-) il racconto del richiedente asilo era implausibile, lacunoso e quindi non credibile;
-) il racconto del richiedente non palesava alcuna ipotesi di persecuzione;
-) non sussisteva nel caso di specie alcuna situazione di vulnerabilità, nè il richiedente si era mai integrato socialmente e lavorativamente nel nostro Paese;
tale sentenza è stata impugnata per cassazione da S.S. con ricorso fondato su due motivi;
il Ministero dell’Interno non si è difeso;
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27.
Nella illustrazione del motivo si sostiene che la Corte d’appello non avrebbe rispettato i criteri stabiliti dalla legge ai fini della valutazione dell’attendibilità soggettiva del richiedente asilo.
Deduce, in particolare, che:
-) la Corte d’appello lo ha ritenuto inattendibile sul presupposto che “nessuna forma di persecuzione religiosa potrebbe subire un musulmano in Gambia”, senza però approfondire, ricorrendo a fonti attendibili ed aggiornate, l’effettivo contesto sociopolitico del Gambia;
-) la Corte d’appello avrebbe violato il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, perchè avrebbe dovuto concedere al richiedente asilo “il beneficio del dubbio” con riferimento a quegli aspetti del suo racconto che non erano suffragati da prove;
-) la Corte d’appello ha condiviso la valutazione con cui il tribunale ha ritenuto inesistente in Gambia il fenomeno dell’intolleranza religiosa, senza però considerare che il tribunale aveva compiuto tale accertamento al fine di escludere la sussistenza in Gambia di un contesto di violenza indiscriminata; e senza considerare che “il ricorrente non ha mai invocato il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato in ragione del rischio di subire una persecuzione per motivi religiosi (…), ma ha narrato le vicende familiari che l’hanno indotto ad allontanarsi dal Gambia (…) (e) il timore di rientro (…) legato a un dissidio col padre, che lo ha estromesso anche dalla propria quota ereditaria”.
1.2. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente è nel vero quando rileva che il giudizio sulla attendibilità e sincerità del richiedente asilo non è rimesso alla discrezionalità soggettiva o, peggio, all’arbitrio del giudicante, ma va compiuto secondo un metodo stabilito dalla legge, e segnatamente dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, il quale stabilisce i criteri con cui giudicare la domanda di protezione internazionale quando, all’esito del giudizio, essa sia rimasta in parte (per “taluni elementi o aspetti”) sfornita di prove.
In tale ipotesi, la legge impone al giudicante di reputare provati i fatti narrati dal richiedente asilo quando concorrano cinque diverse circostanze:
a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda;
b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;
c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;
d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla;
e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile. Nel valutare l’attendibilità del minore, si tiene conto anche del suo grado di maturità e di sviluppo personale.
1.3. Ma se è vero che la valutazione dell’attendibilità del richiedente asilo è frutto d’un giudizio procedimentalizzato, non è men vero che, proprio per questa ragione, chi intenda dolersi in sede di legittimità delle modalità con cui quel giudizio è stato condotto avrà l’onere, alternativamente:
-) o di prospettare quale delle cinque prescrizioni dettate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, sia stata violata dal giudice di merito (art. 360 c.p.c., n. 3);
-) o di prospettare quale fatto materiale sia stato trascurato, nel compiere la suddetta valutazione (art. 360 c.p.c., n. 5);
-) o di prospettare per quali ragioni la motivazione adottata dal giudicante sia mancante o apparente, con conseguente nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4).
1.4. Nel caso di specie, tuttavia, il ricorrente non prospetta alcuna delle suddette ipotesi, limitandosi a contrastare in modo tautologico ed assertivo la valutazione compiuta dalla Corte d’appello.
Il ricorso, infatti, pur prospettando il vizio di violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nella sostanza non censura il metodo seguito dal giudice per pervenire al giudizio di inattendibilità del ricorrente, ma ne censura il merito, contrapponendo la propria valutazione a quella del giudicante: una censura, dunque, che travalica il perimetro del giudizio di legittimità.
2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 32, nonchè del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5. L’illustrazione del motivo è così concepita:
-) da pagina 14 fino a pagina 16, secondo rigo, il ricorrente espone le ragioni per le quali la sospensione del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, introdotta dal D.L. 113 del 2018, non s’applica ratione temporis al presente giudizio;
-) alla pagina 16, secondo capoverso, viene trascritto un ampio brano della sentenza impugnata;
-) dalla metà di pagina 16 al primo rigo di pagina 17 il ricorrente espone e le ragioni dell’impugnazione, sostenendo che la Corte d’appello avrebbe “trascurato le plurime argomentazioni sollevate nei motivi di impugnazione”; che i fatti da lui allegati “concorrono a definire il profilo di vulnerabilità del ricorrente nell’eventualità che sia costretto a fare ritorno in Gambia”; che la decisione impugnata è viziata dall’omesso esame delle suddette circostanze “attraverso un giudizio comparativo fra la situazione presente nel paese di origine e la condizione di vita maturata nel paese ospitante”.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente è nel vero quando osserva che la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari non richiede, quale presupposto, che il richiedente possa essere esposto nel proprio paese al rischio di discriminazione o persecuzioni.
Se, infatti, davvero esistesse questo rischio, la persona interessata avrebbe diritto allo status di rifugiato o alla concessione della protezione sussidiaria, con la conseguenza che l’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari diverrebbe inutile, e il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 verrebbe abrogato per via interpretativa: operazione ovviamente non consentita all’interprete.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è invece un istituto di natura residuale ed atipica, i cui presupposti non possono essere stabiliti con valutazione sintetica a priori, ma solo all’esito di un giudizio analitico a posteriori, dopo aver preso in esame tutte le circostanze del caso.
Il rigetto della domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari, pertanto, non può conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione (ex permultis, Sez. 1 -, Ordinanza n. 21123 del 07/08/2019, Rv. 655294 – 01), e tanto meno può conseguire ipso facto dalla sola circostanza che il richiedente asilo sia stato reputato inattendibile.
Ed infatti presupposto del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è solo la vulnerabilità del richiedente, la quale va accertata con un giudizio di comparazione tra il grado di integrazione raggiunto nel Paese di accoglienza, ed il rischio che il ritorno in patria esponga il richiedente asilo ad una situazione lesiva dei diritti fondamentali che si ponga al di sotto del loro nucleo essenziale e incomprimibile. Una persona oggettivamente vulnerabile – ad esempio, perchè gravemente ammalata ed impossibilita a curarsi nel proprio paese – non potrebbe vedersi negare il rilascio del permesso di soggiorno (nei termini applicabili ratione temporis al presente giudizio) per il solo fatto che abbia esposto, a sostegno della propria richiesta, anche altre circostanze non vere.
Tuttavia la correttezza dei rilievi in iure svolti dal ricorrente non è idonea ad infirmare la sentenza impugnata, la quale è corretta in punto di fatto.
Infatti, una volta escluso dalla Corte d’appello – come rilevato nell’esaminare il primo motivo di ricorso – che l’odierno ricorrente, in caso di ritorno in Gambia, potesse essere esposto ad una compressione dei propri diritti umani al di sotto del nucleo inviolabile di essi, è venuto meno uno dei due presupposti del giudizio di comparazione di cui si è detto. Sicchè, avendo il giudice di merito accertato in modo insindacabile in questa sede che in caso di rientro in patria tale compressione dei diritti umani non vi sarebbe – e non avendo il ricorrente impugnato sotto altri profili la suddetta statuizione – il motivo in esame non può che dirsi inammissibile, in quanto censura un apprezzamento di fatto.
3. Non è luogo a provvedere sulle spese, poichè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.
3.1. Il rigetto del ricorso comporta l’obbligo del pagamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all’organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l’impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l’ha proposta; incidenter tantum, rileva nondimeno questa Corte che, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, art. 11, il contributo unificato è prenotato a debito nei confronti della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) dichiara inammissibile il ricorso;
(-) dà atto che ussistono i presupposti previsti dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 28 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2020