Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.14588 del 09/07/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18941/13 R.G. proposto da:

N.F.V., rappresentato e difeso, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv. Carmine Medici, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, alla via Leone IV, n. 38;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Campania n. 131/15/12 depositata in data 14 maggio 2012 udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 febbraio 2020 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello

RILEVATO

che:

La Commissione tributaria regionale della Campania, con la sentenza in epigrafe indicata, pronunciando in controversia relativa all’impugnazione di avviso di accertamento emesso nei confronti di N.F.V., esercente l’attività di vendita di abbigliamento all’ingrosso, per il recupero a tassazione, ai fini IRPEF, IRAP e I.V.A. per l’anno 2004, di maggiori ricavi induttivamente determinati ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), ha accolto l’appello dell’Ufficio, riformando la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso del contribuente, riducendo il reddito accertato.

Secondo i giudici di appello, era giustificato l’accertamento analitico induttivo e condivisibile l’applicazione della percentuale di ricarico del 23 per cento sul costo del venduto, che si discostava da quella dichiarata del 6 per cento, tenuto conto che la percentuale di ricarico mediamente riscontrata nel settore di appartenenza oscillava tra il 18 per cento ed il 48 per cento; l’ufficio – si affermava in sentenza – aveva indicato i criteri in forza dei quali le dichiarazioni del N. erano “irragionevoli”, stante la “irrisoria” percentuale di ricarico denunciata.

Avverso tale decisione il contribuente propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, cui resiste l’Agenzia delle entrate, depositando controricorso.

Il contribuente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c.

CONSIDERATO

che:

1. Con l’unico motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per avere la Commissione regionale attribuito rilievo idoneo a giustificare la presunzione di maggiori ricavi, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, all’applicazione di una percentuale di ricarico diversa da quella mediamente riscontrata nel settore di riferimento, in mancanza di ulteriori riscontri ed indizi. Assume l’illegittimità dell’accertamento che non tiene conto della realtà economica in cui operava l’impresa, nè delle osservazioni svolte nel giudizio di primo grado, evidenziando che l’attività svolta solo formalmente poteva essere ricompresa nell’alveo delle attività di vendita all’ingrosso di abbigliamento, dal momento che veniva esercitata su commissione di un unico cliente, come era emerso dalle fatture di vendita depositate in primo grado, per cui la percentuale di ricarico era fortemente condizionata dalla percentuale di vendita dell’unico cliente; tale circostanza era, peraltro, emersa nella successiva attività di accertamento relativa all’anno 2007, in relazione al quale l’Ufficio, in sede di contraddittorio, aveva applicato una percentuale di ricarico del 7 per cento, ritenuta più rispondente a quella mediamente applicata per le intermediazioni in genere.

La decisione impugnata, ad avviso del ricorrente, è carente perchè l’Agenzia delle entrate non ha provato, nè tanto meno documentato sulla scorta di quale procedura sia pervenuta alla conclusione che la contabilità dichiarata fosse inattendibile.

2. Preliminarmente, deve rilevarsi che in materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., sez. U, n. 9100 del 06/05/2015; Cass., sez. 5, ordinanza n. 8915 del 11/04/2018).

Nel caso di specie le diverse censure conservano una loro autonomia espositiva e sono, per tale motivo, ammissibili.

3. Le censure sono infondate.

3.1. Secondo costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, in tema di accertamento delle imposte dirette ed in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza soltanto se essa raggiunga livelli di abnormità ed irragionevolezza tali da privare, appunto, la documentazione contabile di ogni attendibilità; diversamente, tale difformità rimane sul piano di mero indizio, dovendosi considerare che gli indici elaborati per un determinato settore merceologico, pur basato su criteri statistici, non integrano un fatto noto, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma sono soltanto una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, risultando, quindi, inidonei, da soli, ad integrare una prova per presunzioni (Cass. 13/9/2018, n. 22347; Cass. 9/12/2013, n. 27488; Cass. 24/9/2010, n. 20201; Cass. 5/12/2005, n. 26388).

3.2. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno affermato l’esistenza di un siffatto livello di “abnormità e irragionevolezza”, avendo l’Amministrazione finanziaria rilevato che la percentuale di ricarico applicata dal contribuente, che si attestava al 6 per cento, risultava irrisoria rispetto a quella mediamente applicata nel settore merceologico di appartenenza, oscillante tra il 18 per cento ed il 48 per cento.

Il ricorrente lamenta che i giudici di merito avrebbero trascurato la “non comparabilità” di quella soggetta ad accertamento con quella delle altre ditte che svolgono attività di vendita all’ingrosso di abbigliamento ai fini della individuazione della media di ricarico applicabile, essendo la prima svolta su commissione di un unico cliente, ma non ha chiarito la decisività di tale fatto ai fini del giudizio, poichè non ha indicato alcun elemento utile a far ritenere che effettivamente sussista una rilevante discrasia tra le caratteristiche di altre ditte prese a comparazione e quella in esame in questa sede, nè tanto meno ha spiegato come tale circostanza possa condizionare o comunque incidere sulla percentuale di ricarico e, di conseguenza, sulla determinazione dei maggiori ricavi.

Neppure emerge dalla sentenza impugnata e dal ricorso che il contribuente abbia provato le caratteristiche della sua attività e, in ogni caso, il fatto che l’Amministrazione con riguardo all’anno d’imposta 2007 abbia applicato una diversa percentuale di ricarico non può spiegare alcun riflesso sull’anno oggetto di accertamento in questa sede, stante l’autonomia dei diversi anni d’imposta.

Risulta, d’altro canto, evidente che, in ordine al prospettato vizio di motivazione, il ricorrente non si limita a chiedere a questa Corte un controllo sulla sufficienza e coerenza del percorso argomentativo utilizzato dal giudice di merito, ma chiede piuttosto una rinnovazione del giudizio comparativo già adeguatamente espletato dai giudici di appello, al fine di ottenere un inammissibile diverso giudizio di questa Corte che si sostituisca a quello già espresso dalla Commissione regionale.

Infatti, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito dei vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Nè, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un non consentito giudizio di merito se, confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie, prendesse in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito a fondamento della sua decisione (Cass. 5/3/2002, n. 3161).

Il giudice di merito si è attenuto ai superiori principi richiamati, poichè ha ritenuto irragionevole la difformità rilevata, che giustifica l’accertamento induttivo, e tale valutazione rientra nei poteri allo stesso riservati, sicchè si ritiene che la sentenza non meriti cassazione.

4. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2020

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