LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 22350 – 2019 R.G. proposto da:
I.K., – c.f. ***** – elettivamente domiciliato, con indicazione dell’indirizzo p.e.c., in Reggio Emilia, alla via Malta, n. 7, presso lo studio dell’avvocato Franco Beretti che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale in calce al ricorso.
– ricorrente –
contro
MINISTERO dell’INTERNO, – c.f. ***** – in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, domicilia per legge.
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 4407/2019 del Tribunale di Napoli;
udita la relazione nella camera di consiglio del 23 luglio 2020 del consigliere Dott. Luigi Abete;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. Ceroni Francesca, che ha chiesto accogliersi il ricorso.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO 1. K.I., cittadino della Nigeria, originario della regione dell’Edo State, di religione cristiana, formulava istanza di protezione internazionale.
Esponeva che dopo la morte del padre il fratellastro si era impossessato dell’eredità paterna, gli aveva negato la quota di sua spettanza e lo aveva fatto arrestare; che, recuperata la libertà dopo due mesi di detenzione, talune persone legate al fratellastro lo avevano, armi in pugno, minacciato; che, datosi alla fuga, uno sconosciuto lo aveva sequestrato a scopo di estorsione; che nondimeno era riuscito a liberarsi e, per timore delle ritorsioni del fratellastro, aveva abbandonato la Nigeria e raggiunto l’Italia il 31.8.2016.
2. La competente Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale rigettava l’istanza.
3. Con decreto n. 4407/2019 il Tribunale di Napoli respingeva il ricorso – proposto il 15.5.2018 – con cui K.I., avverso il provvedimento della commissione territoriale, aveva chiesto il riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine il riconoscimento della protezione sussidiaria, in ulteriore subordine il riconoscimento della protezione umanitaria.
Evidenziava il tribunale che, dalle dichiarazioni rese, si desumeva che il ricorrente aveva lasciato il paese di origine per ragioni di natura privata, sicchè, in ipotesi di suo rimpatrio, non si prospettava nè il rischio di subire persecuzioni nè il rischio di subire condanne a morte ovvero a pene inumane o degradanti.
Evidenziava altresì che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2014, art. 14, ex lett. c).
Evidenziava in particolare che da un recente rapporto “UNHCR” si evinceva che le situazioni di conflitto esistenti in Nigeria non erano localizzate nelle regioni del sud, tra cui l’Edo State, di provenienza del ricorrente, bensì nelle regioni del nord, ove era operante il gruppo terroristico di “Boko Haram”.
Evidenziava infine che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Evidenziava in particolare che i fatti fondanti la domanda di protezione internazionale inducevano ad escludere che il ricorrente, qualora rimpatriato, si sarebbe ritrovato nel paese d’origine in condizioni di elevata vulnerabilità.
4. Avverso tale decreto ha proposto ricorso K.I.; ne ha chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione.
Il Ministero dell’Interno si è costituito tardivamente ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.
Il Pubblico Ministero ha formulato conclusioni scritte.
5. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3.
Deduce che del tutto illogicamente il tribunale ha escluso che alla stregua delle dichiarazioni rese fosse, in caso di rimpatrio, esposto al rischio di trattamenti inumani o degradanti.
Deduce che del tutto illegittimamente il tribunale ha assunto che in Nigeria ci siano istituzioni in grado di assicurare ai cittadini adeguata protezione.
Deduce che, con specifico riferimento alla regione di sua provenienza, il rapporto della “Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo” riferisce che l’Edo State è uno degli Stati più violenti del delta del Niger.
Deduce quindi che, alla luce della situazione di elevata instabilità socio – politica in cui versa la Nigeria, situazione che il Tribunale di Napoli non ha debitamente vagliato, indiscutibilmente si ritroverebbe, qualora rimpatriato, in condizioni di elevata vulnerabilità.
Deduce che dal rapporto di “Human Rights Watch” del 2017 si evince che i molteplici problemi concernenti i diritti umani pur dopo l’elezione del nuovo presidente sono rimasti irrisolti; che in tema di libertà religiosa permangono irrisolte numerose criticità e tuttora perdura l’applicazione della pena di morte.
Deduce in conclusione che ha errato il tribunale a disconoscere la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria.
6. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 e comma 1, n. 1, come richiamato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3.
Deduce che il tribunale avrebbe dovuto valutare le conseguenze del rimpatrio alla luce della formulazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, susseguente al D.Lgs. n. 113 del 2018.
Deduce che per effetto dell’abrogazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, si riespande la tutela ancorabile all’art. 10 Cost., comma 3, e dunque si riespandono i margini di attuazione dell’asilo costituzionale.
7. Il primo motivo di ricorso è destituito di fondamento.
8. La valutazione del racconto – e segnatamente della relativa credibilità – del cittadino straniero costituisce un apprezzamento “di fatto” rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5 lett. c); tale apprezzamento “di fatto” è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. Cass. (ord.) 5.2.2019, n. 3340).
9. Su tale scorta, nel segno dunque del novello dettato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e nel solco dell’insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte, si rappresenta quanto segue.
Da un canto, il Tribunale di Napoli ha dato congruamente e condivisibilmente conto della valenza rigorosamente “privata” della vicenda narrata dal ricorrente.
D’altro canto, il Tribunale di Napoli per nulla ha omesso la disamina del fatto decisivo caratterizzante, in parte qua, la res litigiosa, ossia la valutazione del rilevanza della vicenda all’uopo narrata.
Per nulla si giustifica quindi la prospettazione del ricorrente (cfr. ricorso, pag. 5) secondo cui del tutto contraddittoriamente il tribunale ha affermato che la sua personale vicenda fosse meramente privata.
Per nulla ha valenza al contempo la circostanza per cui la personale vicenda del ricorrente, ovvero la problematica della rivendicazione dell’eredità del capofamiglia defunto, rinvenga riscontro nelle più generali dinamiche segnalate dal rapporto “EASO” di agosto 2017 (cfr. ricorso, pag. 6).
10. Il tribunale ha dato atto altresì che K.I. aveva dichiarato “di non essersi rivolto alla polizia per ottenere tutela per il suo amore nei confronti del fratellastro” (così decreto impugnato, pag. 3).
Su tale scorta non si correlano puntualmente alla ratio decidendi gli assunti del ricorrente secondo cui “la valutazione della presenza o meno sul territorio nigeriano di istituzioni governative efficaci a protezione dell’incolumità dei cittadini, appare illegittima” (così ricorso, pag. 5) e secondo cui “nel contesto del Paese di provenienza (…) i cittadini non possono ricevere alcuna tutela nè garanzia di giustizia da parte delle forze di polizia” (così ricorso, pag. 7).
In pari tempo non hanno precipua valenza nè il riferimento (cfr. ricorso, pag. 6) al rapporto C.O.I. dell’11.5.2018, ove è rappresentato il “fenomeno delle gang e dei culti”, nè il riferimento (cfr. ricorso, pag. 8) allo studio offerto da “E.A.S.O.” datato novembre 2018.
11. Questa Corte spiega senza dubbio che, in tema di concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è invece atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di “rifugiato” o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione (cfr. Cass. 15.5.2019, n. 13079; cfr. Cass. 23.2.2018, n. 4455, secondo cui, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza).
12. E nondimeno, allorchè, col mezzo in disamina, si duole propriamente per il mancato riscontro dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria (cfr. ricorso, pag. 17), il ricorrente in fondo censura il giudizio “di fatto” cui, pure in parte qua, il tribunale ha atteso, giudizio “di fatto” inevitabilmente postulato dalla valutazione comparativa, caso per caso, necessaria ai fini del riscontro della condizione di “vulnerabilità” – e soggettiva e oggettiva – del richiedente.
13. Ebbene, in quest’ottica, analogamente nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed alla luce della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite, non può che opinarsi nel senso che nessuna ipotesi di “anomalia motivazionale” inficia, anche in parte qua, le motivazioni – prioritariamente ancorate alla natura privata delle ragioni che hanno indotto K.I. ad abbandonare la Nigeria – del dictum partenopeo.
Del resto il ricorrente adduce, a riscontro della condizione di elevata vulnerabilità in cui si ritroverebbe, qualora rimpatriato, che dal rapporto “EASO” datato novembre 2018 si evince che la situazione della Nigeria rimane nel complesso allarmante (cfr. ricorso, pag. 10), che il tribunale “non ha considerato le complicate ed interconnesse condizioni politico – economiche, religiose e socio – ambientali degli stati del Sud-Est (della Nigeria)” (così ricorso, pag. 12), che il tribunale non ha tenuto conto delle sofferenze patite durante il periodo di permanenza in Libia (cfr. ricorso, pag. 16), che nel suo paese d’origine è oramai privo di qualsivoglia supporto familiare (cfr. ricorso, pag. 17).
E però in tal guisa K.I. sollecita questo Giudice del diritto a valutazioni rilevanti sul piano del giudizio “di fatto”.
D’altronde l’asserito mancato esame delle argomentazioni difensive svolte neppure è riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass. 14.6.2017, n. 14802; Cass. (ord.) 13.8.2018, n. 20718).
Al contempo l’allegazione da parte del richiedente, nella domanda di protezione internazionale, che in un paese di transito (nella specie la Libia) sia stata consumata ai suoi danni un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda – è il caso, appunto, della domanda esperita da K.I. – costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide (cfr. Cass. (ord.) 6.12.2018, n. 31676).
14. Il secondo motivo di ricorso è del pari destituito di fondamento.
15. Non si applica ratione temporis al caso di specie la novella disciplina di cui al D.Lgs. 4 ottobre 2018, n. 113 entrato in vigore in 5.10.2018 e convertito, con modificazioni, nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (cfr. Cass. sez. un. 13.11.2019, n. 29459).
16. Su tale scorta questa Corte non può che ribadire il proprio insegnamento.
Ovvero che il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di “rifugiato”, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 e di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, (cfr. Cass. (ord.) 4.8.2016, n. 16362; Cass. (ord.) 19.4.2019, n. 11110).
17. Il Ministero dell’Interno non ha di fatto svolto difese; nessuna statuizione in ordine alle spese del presente giudizio va pertanto assunta.
18. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto (cfr. Cass. sez. un. 20.2.2020, n. 4315, secondo cui la debenza dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione è normativamente condizionata a due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui sussistenza è oggetto dell’attestazione resa dal giudice dell’impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater; il secondo, di diritto sostanziale tributario, consistente nell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta invece all’amministrazione giudiziaria).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della II sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 23 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2020