LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9974/2017 proposto da:
F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio dell’avvocato ARTURO ANTONUCCI, rappresentata e difesa dall’avvocato CARMELO SAITTA;
– ricorrente –
contro
INAIL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio dell’avvocato ANDREA ROSSI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LETIZIA CRIPPA;
– controricorrente –
e contro
REALE MUTUA ASSICURAZIONI SRL;
– intimata –
avverso la sentenza n. 3/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 07/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/07/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.
FATTI DI CAUSA
F.A., in proprio e nella qualità di titolare della responsabilità genitoriale nei confronti del minore Fe.Se.Gi., conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Messina, l’INAIL e la Reale Mutua Assicurazioni, chiedendone la condanna in solido al risarcimento della somma di Euro 1.418.229,63, al netto di interessi e di rivalutazione monetaria, a titolo di danno biologico, di danno da perdita del rapporto parentale e di danno non patrimoniale, risentiti a causa della morte, conseguente ad un incidente sul lavoro, di Fe.Sa., autista alle dipendenze della Reale Mutua Assicurazioni, ritenendo che la somma di Euro 10.500,00 versata una tantum dall’Inali, ai sensi del D.P.R. n. 1164 del 1965, art. 85, per il risarcimento del danno biologico, non coprisse che in parte il danno medesimo.
Reale Mutua Assicurazioni, costituitasi giudizio, negava ogni responsabilità per l’incidente occorso, escludeva di essere tenuta a risarcire, in solido con l’Inail, il danno del D.P.R. n. 1164 del 1965, ex art. 85, contestava la sussistenza del danno tanatologico, essendo la vittima morta sul colpo, censurava la quantificazione del danno.
L’Inail, premesso di avere corrisposto ai superstiti l’indennizzo loro dovuto, con la costituzione della rendita vitalizia, negava di essere tenuta per somme ulteriori e formulava autonoma domanda affinchè del danno richiesto fosse dichiarato tenuto a rispondere civilmente il datore di lavoro della vittima dell’infortunio.
Il giudice adito, con la pronuncia n. 765/2014, dichiarava cessata la materia del contendere nei confronti dell’Inail, ritenendo che l’istituto previdenziale avesse adempiuto ai suoi obblighi corrispondendo la rendita ai superstiti, negava la debenza di alcun risarcimento a titolo di danno differenziale per danno tanatologico, essendo stata la morte della vittima contemporanea alla lesione, escludeva la responsabilità della Reale Mutua per mancata allegazione di alcuna violazione, a suo carico, delle norme di prevenzione e dell’obbligo di adozione delle misure di sicurezza, rigettava anche la domanda autonoma di Inail nei confronti della impresa di assicurazioni.
La decisione veniva impugnata dalla odierna ricorrente che censurava l’affermata insussistenza del danno tanatologico, stante la prova agli atti che durante l’intervento del 118 la vittima era ancora in vita, contestava la negazione del diritto alla lesione del rapporto parentale per difetto di motivazione, insisteva per la condanna solidale di Inail e Reale Mutua per la somma richiesta e per il titolo fatto valere.
La Reale Mutua eccepiva il mancato rispetto dell’art. 342 c.p.c. e dell’art. 434 c.p.c. e quindi l’inammissibilità dell’appello, chiedeva, nel merito, la conferma della sentenza impugnata.
L’Inali ribadiva di avere adempiuto ai propri obblighi con il versamento della rendita e desisteva dalla domanda autonomamente formulata nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni.
La Corte d’Appello, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, confermava la decisione appellata e compensava le spese di lite tra le parti. In particolare, il giudice a quo precisava che: a) l’Inail non era tenuto a risarcire il danno biologico, ma era obbligato solo alla liquidazione di una rendita, unitamente all’assegno funerario ed alla quota prevista dal Fondo di sostegno per i familiari delle vittime di gravi infortuni sul lavoro; b) l’unico danno astrattamente imputabile al datore di lavoro era quello tanatologico, escluso, nel caso in esame, perchè la morte dell’infortunato sopravvenne nell’immediatezza della lesione, come risultava confermato dalla scheda medica del 118 che, a differenza di quanto ritenuto dall’appellata, non conteneva alcuna prova che all’arrivo degli operatori del pronto soccorso l’infortunato fosse ancora in vita, poichè, al contrario, da essa si evinceva che il paziente era in arresto cardiocircolatorio in assenza disegni vitali, che, eseguito il massaggio cardiaco con il defibrillatore, ne veniva constatata la morte, nonchè dalla perizia, espletata nel giudizio penale e richiamata dal primo giudice, che specificava che il decesso era avvenuto per gravissimo politraumatismo con conseguente shock traumatico acuto irreversibile prodottosi mediante schiacciamento da muletto, tra le ore 12.20 e le 13.20. Da nessuna allegazione risultava l’inosservanza da parte della società datrice di lavoro degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., perciò doveva escludersi la ricorrenza di un obbligo risarcitorio a suo carico.
Avverso detta pronuncia F.A. propone ricorso per cassazione, basato su un solo, ma articolato, motivo.
Resiste con controricorso l’INAIL.
Va dato atto che la trattazione, fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., per il giorno 7 aprile 2020, dopo essere stata rinviata d’ufficio per effetto della legislazione emergenziale relativa alla pandemia da coronavirus, è stata fissata per l’odierna adunanza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonchè la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 85 e del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.
Segnatamente, contesta la ritenuta insussistenza del danno biologico, in quanto Fe.Sa. non era morto all’istante, ma più di 30 minuti dopo lo schianto mortale – la conferma sarebbe rinvenibile nella scheda medica di intervento del servizio di emergenza sanitaria 118, da cui risultava che l’intervento aveva avuto inizio alle ore 13.12 ed il decesso era certificato alle ore 13.40, cioè 28 minuti dopo l’arrivo degli operatori sul posto; lasso di tempo cui andava aggiunto quello impiegato dall’ambulanza per arrivare sul luogo dell’incidente – censura l’omessa valutazione e la mancanza di motivazione riguardo al rigetto della richiesta di risarcimento del danno parentale, basata sul fatto che la ritenuta assenza di dimostrazione in ordine all’inadempimento dell’obbligo di misure di prevenzione e protezione sul posto di lavoro non abbia alcuna relazione con la voce di danno richiesta.
1.1. Il motivo non merita accoglimento.
L’affermazione della Corte d’Appello secondo cui l’Inail è tenuta solo alla corresponsione di una rendita a favore dei superstiti dell’infortunato e che invece non è tenuto ad indennizzare il danno biologico è corretta in iure almeno con riferimento al caso specifico.
Queste le ragioni.
Nell’attuale regime l’Inail è tenuta, ai sensi del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, ad indennizzare il danno biologico subito dalla vittima di un infortunio, ma al verificarsi di determinate condizioni.
Conviene rammentare, infatti, che sono coperte dall’assicurazione obbligatoria (solo):
– le menomazioni permanenti comprese tra il 6% ed il 15%, che danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportato al grado della menomazione; con esclusione, quindi, del danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, in combinato disposto con il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 66, comma 1, n. 2, il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all’inabilità permanente;
– le menomazioni pari o superiori al 16%, che danno luogo ad una rendita ripartita in due quote: la prima quota è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno biologico subito dall’infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di natura patrimoniale della lesione;
– la liquidazione del danno biologico, ai fini della tutela dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, pur in presenza della stessa menomazione dell’integrità psico-fisica, non può essere effettuata con i medesimi criteri valevoli in sede civilistica, in quanto in ambito previdenziale vanno obbligatoriamente osservate le tabelle di cui al D.M. 12 luglio 2000, perseguendo le due liquidazioni fini propri e diversi. La diversità ontologica tra l’istituto assicurativo e le regole della responsabilità civile trova un riscontro sul piano costituzionale, posto che i due rimedi rinvengono ciascuno un referente normativo diverso: la prestazione indennitaria risponde agli obiettivi di solidarietà sociale cui ha riguardo l’art. 38 Cost., mentre il rimedio risarcitorio, a presidio dei valori della persona, si innesta sull’art. 32 Cost.;
– con specifico riguardo alla nozione di danno biologico nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e ai relativi rapporti con le altre voci di danno rientranti nella categoria del danno non patrimoniale, va osservato che nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale (categoria giuridicamente, anche se non fenomenologicamente, unitaria), vi sono alcune voci escluse in apicibus dalla copertura assicurativa INAIL (c.d. danno complementare, definito pure differenziale qualitativo): le lesioni all’integrità psicofisica di natura transitoria (il danno biologico temporaneo), le lesioni sotto una determinata soglia minima, il c.d. danno biologico in franchigia, il danno morale ossia la sofferenza interiore (ad esempio il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione) che non ha base organica ed è estranea alla determinazione medico-legale.
– in aderenza al criterio dell’integrità del risarcimento i pregiudizi che non attengono alla lesione della salute ma che afferiscono pur sempre alla persona e che integrano, pertanto, un danno non patrimoniale in quanto conseguono alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, vanno liquidati separatamente;
– la nozione di danno biologico recepita dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, che fa riferimento alla “lesione dell’integrità psicofisica”, suscettibile di valutazione medico-legale e causativa di una menomazione valutabile secondo le tabelle di cui al D.M. Lavoro e della Previdenza Sociale 12 luglio 2000, operando entro detti limiti l’assicurazione sociale del danno biologico, impedisce di considerare compreso in tale nozione il danno da perdita della vita (Cass. 27/05/2009, n. 12326), perchè il danno tanatologico, nel caso in cui la morte segua le lesioni dopo breve tempo, riguardando il bene giuridico della vita, è diverso da quello della salute (in quanto la perdita della vita non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute). In particolare, sul punto cfr. Cass. 12/06/2020, n. 11279, secondo cui in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (nella vicenda oggetto della decisione il decesso era avvenuto circa venticinque minuti dopo l’incidente). Rimane, pertanto, esclusa l’indennizzabilità ex se del danno non patrimoniale da perdita della vita; e tale esclusione non vale a contraddire il riconoscimento del “diritto alla vita” di cui all’art. 2 CEDU, atteso che tale norma (pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene-vita) non detta specifiche prescrizioni sull’ambito e i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, nè, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela risarcitoria, il cui riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sè considerato (Sez. L, Sentenza n. 14940 del 20/07/2016, Rv. 640733 – 01)”: così in motivazione Cass. 11/11/2019, n. 28989.
Per concludere, pur dovendosi precisare la motivazione della Corte d’Appello, nel senso che l’Inail è tenuta ad indennizzare “anche” il danno biologico, ma al verificarsi di determinate condizioni che nel caso di specie fanno difetto, non vi sono gli estremi per cassare la decisione impugnata essendo il dispositivo conforme a diritto, giacchè è stato correttamente escluso a carico dell’INAIL l’indennizzo per il danno derivante dalla perdita della vita.
1.2. Quanto al danno derivante da perdita della vita mette conto osservare che, che secondo la giurisprudenza di questa Corte, la morte immediata è equiparata alle ipotesi in cui la sopravvivenza in vita della vittima sia stata non immediata, ma la vita dopo l’evento lesivo sia stata molto breve.
Perde di rilevanza – pur dovendosi precisare che sul punto vi era stato un accertamento di fatto che aveva portato alle medesime conclusioni due giudici di merito, sottratto come tale allo scrutinio di questa Corte, per plurime ragioni: il giudice di legittimità non può rimettere in discussione l’esito di attività che spettano solo ai giudici di merito, senza incorrere nello stravolgimento dei caratteri morfologici e funzionali del ricorso per cassazione; il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non può essere fatto valere nel caso di specie, perchè in contrasto con il divieto di cui all’art. 348 ter c.p.c. – la circostanza che la vittima fosse sopravvissuta per un lasso di tempo commisurato in 28 minuti più quelli che l’ambulanza aveva impiegato per giungere sul teatro dell’incidente, trattandosi, comunque, secondo la giurisprudenza di questa Corte, di un riferimento temporale troppo esiguo per determinare il verificarsi di un danno biologico da invalidità permanente.
Costituisce ius receptum che “solo nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida” (Cass. 23/10/2018, n. 26727).
In ogni caso, la persona che, ferita, non muoia immediatamente, può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi: il danno biologico temporaneo, che di norma sussisterà solo per sopravvivenze superiori alle 24 ore (tale essendo la durata minima, per convenzione medico-legale, di apprezzabilità dell’invalidità temporanea), che andrà accertato senza riguardo alla circostanza se la vittima sia rimasta cosciente; ed il danno non patrimoniale consistito nella formido mortis, che andrà accertato caso per caso, e potrà sussistere solo nel caso in cui la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria sorte e della morte imminente (Cass. 05/07/2019, n. 18056).
1.3. Quanto alla responsabilità del datore di lavoro, deve essere confermata la decisione della Corte d’Appello alla quale deve essere imputata, tuttavia, un’inversione logica del ragionamento seguito che, tuttavia, non inficia il risultato finale e quindi il dispositivo: quella di essersi prima occupata della non ricorrenza del danno tanatologico e solo successivamente dell’assenza di prova circa il fatto illecito asseritamente all’origine del danno. Il danno risarcibile nel nostro sistema risarcitorio è sempre conseguenza di un fatto illecito, perciò l’accertamento della ricorrenza di quest’ultimo, indipendentemente dalla fonte contrattuale o extracontrattuale, non può che porsi in termini preliminari rispetto a quello relativo alla individuazione delle conseguenze pregiudizievoli da esso eventualmente scaturenti. Il danno, qualunque voce, è sempre conseguenza di un fatto illecito, il cui riconoscimento e la cui liquidazione sono geneticamente connotate dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nella sfera giuridica del danneggiato per effetto dell’illecito, a differenza dell’indennizzo che è svincolato dalla ricorrenza di un fatto illecito e dai suoi elementi costitutivi.
Fatta questa precisazione, non può comunque che prendersi atto che la ricorrente non censura efficacemente la statuizione con cui la Corte d’Appello ha ritenuto che nessuna responsabilità potesse ascriversi al datore di lavoro per il verificarsi dell’infortunio. Ha invocato inammissibilmente, per le ragioni già espresse, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed ha argomentato erroneamente in iure che la violazione delle misure di prevenzione e di protezione sul lavoro nulla avesse a che vedere con la pretesa risarcitoria di risarcimento del danno parentale, soffermandosi sulla definizione di tale voce di danno e lamentandone la mancata considerazione da parte della sentenza impugnata.
L’errore che ha inficiato il ragionamento di parte ricorrente consiste nel non aver considerato che, a dispetto della equivalenza semantica e persino etimologica delle espressioni “danno” ed “indennizzo”, esse non coincidono, pur potendo concorrere in presenza di una medesima perdita, perchè la prospettiva non è quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria.
Poichè l’indennità Inail, in considerazione della sua natura assistenziale, non copre esattamente l’intero danno alla salute, anche dopo la novella di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, il lavoratore ha diritto, “ricorrendo i presupposti del T.U. n. 1124 del 1965, art. 10”, ad agire contro il datore di lavoro per il ristoro del danno biologico c.d. differenziale, ovverosia di quella parte di danno biologico che non sia coperta dall’assicurazione obbligatoria. In altri termini, anche successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 38 del 2000, a norma del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11 (T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro), la responsabilità civile del datore di lavoro, nonostante la copertura assicurativa garantita al lavoratore infortunato dall’Inail, permane (con la conseguente esperibilità dell’azione risarcitoria dell’infortunato per il cosiddetto danno differenziale) “quando l’infortunio sia stato cagionato dalla violazione delle norme di protezione contro gli infortuni, allorchè il fatto si configuri come reato procedibile d’ufficio, valutazione effettuabile incidenter tantum anche dal giudice del lavoro”. L’interferenza reciproca delle regole che presiedono il sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali con le azioni di risarcimento del danno promosse a carico del datore per eventi cagionati dall’espletamento dell’attività lavorativa passa attraverso uno snodo indispensabile, il cui accertamento qui è mancato: la responsabilità del datore di lavoro. Solo una volta accertata tale responsabilità – su detto accertamento non vi è stata, si ribadisce, efficace censura – si passa alla verifica del se ricorrano oppure no i presupposti per ritenere il datore di lavoro non esonerato dall’obbligo risarcitorio per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nell’ambito dei rischi coperti dall’assicurazione sociale, con i suoi limiti oggettivi e soggettivi.
Sulla differenza tra indennizzo Inail e risarcimento risulta chiarificatrice la seguente affermazione della pronuncia di legittimità del 2/3/2018, n. 4972: “La prospettiva del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, non è quella di fissare in via generale ed omnicomprensiva gli aspetti risarcitori del danno biologico, ma solo quella di definire i meri aspetti indennitari agli specifici ed unici fini dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali. Infatti, l’erogazione effettuata dall’Inail è strutturata in termini di mero indennizzo, indennizzo che, a differenza del risarcimento, è svincolato dalla sussistenza di un illecito (contrattuale od aquiliano) e, di conseguenza, può essere disposto anche a prescindere dall’elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e da una sua responsabilità. Si tenga altresì presente che, anche riguardo al consolidamento degli effetti patrimoniali in capo all’avente diritto, l’indennizzo INAIL si struttura in modo diverso da un risarcimento del danno, dal momento che la rendita cessa con la morte del lavoratore (e non passa nell’asse ereditario), mentre il diritto al risarcimento, una volta consolidatosi, entra a far parte del patrimonio dell’avente diritto e si trasferisce agli eredi”.
In definitiva, la Corte d’Appello ha negato la ricorrenza di un comportamento antigiuridico a carico del datore di lavoro e tale statuizione non è stata inficiata nè scalfita dagli argomenti spesi a sostegno del mezzo impugnatorio.
2. Ne consegue il rigetto del ricorso.
3. Le spese vengono compensate, ritenute persistenti le ragioni che hanno giustificato la loro compensazione da parte del giudice d’Appello.
4. Vi sono i presupposti processuali per porre a carico della ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio contributo unificato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2020