LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19086/2016 proposto da:
R.G., R.A., e R.F., rappresentati e difesi dagli Avvocati ANTONELLA GIUGLIANO, e MAURO DELLO IACONO, ed elettivamente domiciliati presso lo studio della prima in NOLA (NA), VIA GIACOMO IMBRODA 80, sc. A, int. 4;
– ricorrenti –
contro
B.E., rappresentata e difesa dagli Avvocati PASQUALE ACONE, e MODESTINO ACONE, ed elettivamente domiciliata presso Maria Teresa Acone, in ROMA, VIA BUCCARI 3;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 408/2015 della CORTE d’APPELLO di SALERNO, pubblicata il 19/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/09/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 620/2008, depositata in data 8.5.2008, il Tribunale di Nocera Inferiore, nel pronunciare sull’azione negatoria servitutis, proposta da B.E. nei confronti di R.G., R.A., R.F. con atto di citazione del 14-15.3.2000, accoglieva la domanda riconvenzionale dei convenuti e dichiarava che essi avevano acquistato per usucapione il diritto di servitù di passaggio sull’area della larghezza di metri 5 e della lunghezza di metri 22 che, partendo dalla Via *****, attraversa il fondo di proprietà dell’attrice, individuato in Catasto al foglio *****, particelle *****.
Avverso la sentenza proponeva appello la B. chiedendone la riforma e deducendo quali motivi di appello: 1) che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto utile ai fini dell’usucapione il passaggio esercitato sul fondo di sua proprietà da Ro.An., dante causa degli appellati, allorchè egli era mero affittuario e non proprietario del fondo preteso dominante; 2) che erroneamente il primo Giudice aveva ritenuto che la servitù di passaggio avesse le caratteristiche dell’apparenza; 3) che dai rispettivi titoli di proprietà non risultava l’esistenza della servitù; 4) che con errata valutazione dell’espletata prova testimoniale e con insufficiente motivazione il Tribunale avesse valorizzato le dichiarazioni rese dai testi addotti dalla parte convenuta, senza tenere conto delle deposizioni di segno contrario.
Gli appellati si costituivano in giudizio e, nell’eccepire preliminarmente la mancanza di prova del diritto di proprietà dell’appellante, contestavano il gravame, chiedendone il rigetto.
In particolare, deducevano che l’appellante, spostando l’asse di attenzione dalla domanda principale a quella riconvenzionale, mutava radicalmente il petitum e la causa petendi; che il primo motivo di appello introduceva un motivo di indagine nuovo, oltre che irrilevante ai fini dell’elemento psicologico del possesso della servitù; che ineccepibile era la valutazione del materiale probatorio, come effettuata dal Tribunale. Gli appellati proponevano appello incidentale per la parziale riforma della sentenza impugnata, con la condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite del procedimento di primo grado.
Con sentenza n. 408/2015, depositata in data 19.6.2015, la Corte d’Appello di Salerno accoglieva l’appello principale e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda riconvenzionale di usucapione; accoglieva la domanda principale e dichiarava l’inesistenza, a carico del fondo dell’appellante, di servitù di passaggio in favore del fondo degli appellati; dichiarava assorbito l’appello incidentale; condannava gli appellati, in solido, al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio e poneva a carico degli appellati le spese di C.T.U.. In particolare, rilevava che solo al proprietario potesse essere riferita l’intenzione di conseguire un’obiettiva utilità per il proprio fondo, laddove l’elemento psicologico dell’affittuario, non collegato a quello del proprietario, avrebbe potuto essere riconducibile a un’utilità di natura meramente personale. La Corte di merito aggiungeva che non poteva configurarsi il possesso di una servitù in base a un atto di ingerenza sul fondo altrui, posto in essere da chi non avesse il possesso di uno di quei diritti alla cui titolarità poteva essere connessa la costituzione della servitù e non potesse considerarsi quale rappresentante del possessore di tali diritti (Cass. n. 288/1977). Nella fattispecie, la Corte non condivideva la conclusione cui era pervenuto il Tribunale, secondo la quale il passaggio era stato esercitato dall’affittuario in nome e per conto del proprietario concedente, benchè dall’istruttoria orale e documentale non emergesse la prova che il proprietario del fondo condotto in affitto da Ro.An. avesse acconsentito a tale passaggio o avesse invitato l’affittuario ad esercitarlo, allo scopo di conseguire la corrispondente maggiore utilità per il proprio fondo. Pertanto, al possesso esercitato da Ro.An. e dai suoi figli in seguito all’acquisto del fondo nel 1992 non poteva essere unito quello antecedente, dovendosi applicare il principio per cui “ai fini dell’usucapione ordinaria è inammissibile il cumulo del proprio possesso con la detenzione di colui che, in quanto affittuario dell’immobile, non è autore del trasferimento a titolo particolare della cosa che sarebbe stata usucapita” (Cass. n. 4193/1995).
Avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione R.G., A. e F., sulla base di cinque motivi. Resiste B.E. con controricorso, illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla sollevata eccezione di carenza di legittimazione attiva”, poichè la carenza di legittimazione attiva può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e rilevata d’ufficio dal Giudice; mentre (nella fattispecie) la Corte d’Appello di Salerno, non solo non accertava d’ufficio la carenza di legittimazione attiva della B., ma erroneamente riteneva tardiva la relativa eccezione, sollevata dagli appellati (sentenza impugnata, pag. 3).
1.1. – Il motivo è inammissibile.
1.2. – La ivi formulata censura è priva della individuazione della norma asseritamente violata; così non rispettando il principio per cui, se l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014; cfr. anche Cass. n. 2951 del 2019). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014).
Peraltro (agli effetti dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1), va rilevato che, per conforme giurisprudenza di questa Corte, a differenza del difetto di legittimazione passiva, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo il limite del giudicato eventualmente formatosi, l’effettiva titolarità attiva del rapporto giuridico attiene al merito della controversia e il suo difetto, non rilevabile d’ufficio dal giudice, è rimesso al potere dispositivo delle parti, le quali sono tenute a dedurlo nei tempi e modi previsti per le eccezioni di parte (Cass. n. 12832 del 2009; conf. Cass. n. 17092 del 2016).
2.1. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1028 e 1061 c.c.”. Secondo il Tribunale, il detentore può esercitare il possesso utile ai fini dell’usucapione nell’interesse del proprietario e poi, divenuto proprietario egli stesso, continuare nel suo interesse il possesso stesso. Viceversa, la Corte d’Appello (ribaltando il ragionamento e la decisione del Giudice di primo grado ed alla luce della espletata ctu ed istruttoria: sentenza impugnata, pag. 4) errava nel giudizio, poichè la nozione di utilitas, intesa in senso ampio, fa riferimento a un vantaggio diretto del fondo dominate per la migliore utilizzazione di questo. Di tale utilità la Corte non avrebbe tenuto conto.
2.2. – Con il terzo motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1140 e 1141 c.c.”, asserendo che la Corte territoriale avrebbe errato, non solo per aver omesso di considerare il requisito dell’utilità intesa in senso oggettivo, con riferimento al fondo, ma anche nel vagliare l’elemento soggettivo, ritenendo che l’affittuario non avesse esercitato il passaggio quale rappresentante del proprietario del fondo preteso dominante, al fine di attribuire a questo l’utilità nella quale si concreta la servitù prediale. Si evidenzia che, come rilevato dal Tribunale, nel caso di affitto, il concedente non perde il possesso del fondo, ma continua a esercitarlo per mezzo dell’affittuario ex art. 1140 c.c., comma 2, il quale ha il potere di fatto sulla cosa, sicchè può reputarsi che il detentore possa esercitare il possesso utile ai fini dell’usucapione nell’interesse del proprietario e, poi, divenuto proprietario egli stesso, continuare nel suo interesse il possesso.
2.3. – Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1146 e 1158 c.c.”, richiamando la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’accessione del possesso della servitù (art. 1146 c.c., comma 2) si verifica a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo dominante e pure in mancanza di un diritto di servitù già costituito a favore del dante causa.
3. – In considerazione della loro connessione logico-giuridica e la analoga modalità di formulazione, i motivi secondo, terzo e quarto vanno esaminati e decisi congiuntamente.
3.1. – I motivi stessi sono inammissibili.
3.2. – Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).
Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.
Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della mera indicazione delle norme pretesamente violate (rispettivamente, artt. 1028 e 1061 c.c., nel secondo motivo; artt. 1140 e 1141 nel terzo; artt. 1146 e 1158 nel quarto), ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).
3.3 – Peraltro, è principio altrettanto fermo che l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).
Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità unicamente nel caso in cui la motivazione (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie, in cui essa risulta analitica, congrua e coerentemente supportata) risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire al rapporto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).
Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004). Ed è altresì pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimità è configurabile solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice di merito e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre a una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non già quando vi sia difformità rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014).
3.4. – Ciò mette in evidenza, riguardo i tre motivi de quibus, che la Corte distrettuale – con valutazione di fatto incensurabile nel giudizio di cassazione in quanto congruamente e coerentemente motivato – abbia affermato esplicitamente che i ricorrenti non avevano fornito la prova (in capo ad essi incombente, con riguardo, nella specie, alla utilits, al mutamento della detenzione in possesso ed alla accessio possessionis) della configurabilità in capo ad essi dell’animus possidenti, quale elemento essenziale ed insopprimibile in ordine alla sussistenza di un possesso ad usucapionem.
3.5. – E’ facile allora rilevare che la censura si sostanzia nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto emerse nel corso del procedimento, cosi mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).
Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbiano dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018), giacchè la valutazione del materiale probatorio (in particolare del corredo testimoniale) operata dalla Corte d’appello è sorretta da argomentazioni logiche e coerenti tra loro, con motivazione sufficiente e non contraddittoria.
4. – Con il quinto motivo, i ricorrenti censurano l'”Omesso esame dell’eccezione sollevata dai convenuti-appellati in ordine al mutamento del petitum e della causa petendi: inammissibilità non rilevata dalla Corte d’Appello di Salerno”, là dove, nel giudizio di appello la B. avrebbe spostato la sua attenzione dalla domanda principale (negatoria servitutis) a quella riconvenzionale, introducendo domande nuove.
4.1. – Anche tale motivo è inammissibile.
4.2. -Il novellato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i ricorrenti avrebbero dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della configurazione della compresenza di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna idonea e spcifica indicazione.
4.3. – Lungi dall’avere posto in essere il censurato omesso esame, la Corte distretttuale ha, viceversa, esplicitamente rigettato la tesi degli appellati, ritenendo che, attesa la proposizione della domanda riconvenzionale, la B. ha adempiuto all’onere di proporre specifici motivi di gravame avverso la sentenza, con riferimento alla contestata esistenza delle condizioni per l’accoglimento della riconvenzionale (sentenza, pag. 6).
Non è dunque di fatto riscontrabile il lamentato omesso esame.
3. – Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 15 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020
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