LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 5053/2019 proposto da:
N.K., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria civile della Corte di cassazione, rappresento e difeso dall’avvocato Massimiliano Vivenzio, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro in carica, domiciliato per legge presso l’Avvocatura generale dello Stato in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
– intimato –
avverso il decreto n. 7553/2018 del Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, del 20.12.2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/02/2020 dal Cons. Dr. Laura Scalia.
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, con il decreto in epigrafe indicato ha rigettato il ricorso proposto ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, da N.K. avverso il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale ne aveva respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.
La non attendibilità del racconto, scrutinata per i parametri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e l’insussistenza dei presupposti legittimanti l’accesso alla protezione internazionale ed umanitaria richiesta aveva determinato i giudici di merito al rigetto della domanda.
Ricorre per la cassazione dell’indicato provvedimento N.K. con tre motivi.
Il Ministero dell’interno è rimasto intimato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente, nato in Mali, nel racconto reso alla competente Commissione territoriale aveva dichiarato di aver lasciato il proprio villaggio dopo una serie di conflitti avuti con la propria famiglia, in ragione dell’appartenenza dei suoi componenti a diversi “credo” religiosi, e di essersi rifugiato da un proprio parente per poi trasferirsi presso altro zio, che praticava la pastorizia nella zona del *****, situato nella regione del K., ove i ribelli che tenevano in mano la regione ed era soliti depredare i pastori, nel corso di un attacco rapivano il richiedente dopo averne ucciso il congiunto.
Riuscito a liberarsi, il ricorrente ripiegava in Algeria e poi in Libia sino a giungere in Italia.
2. Sulla indicata premessa il ricorrente articola tre motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5 e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Il tribunale avrebbe ritenuto non credibile il racconto del ricorrente sulla base di soggettivistiche opinioni senza operarne lo scrutinio in forza dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5. Non si sarebbe tenuto conto del carattere non contraddittorio delle dichiarazioni rese sulla situazione dell’area del Mali da cui il ricorrente era fuggito nè il tribunale aveva provveduto ad acquisire informazioni, mancando all’onere di collaborazione istruttoria sullo stesso gravante, nè aveva adeguatamente motivato sul punto pure decisivo ai fini della decisione.
Il motivo è inammissibile per sua genericità e non capacità di cogliere della decisione le ragioni di sostegno.
Il tribunale ha svolto il giudizio sulla credibilità soggettiva del richiedente protezione provvedendo a scrutinarne analiticamente i contenuti per le varie articolate fasi del racconto, segnalando la non credibilità: della faida familiare, motivo della fuga del villaggio di origine, che avrebbe trovato ragione nella pratica di rituali (il sacrificio delle mucche) che nel suo ripetersi, nel passato, da generazioni all’interno della medesima cerchia parentale non avrebbe dato conto della reazione violenta da ultimo insorta; dell’allontanamento dal proprio villaggio verso una regione pericolosa del paese presso uno zio nel derivatogli radicale mutamento di vita; la povertà di contenuti del racconto sul proprio rapimento e l’uccisione dello zio nella valorizzata traumaticità del descritto evento.
Si tratta, per vero, di motivazione articolata con cui il motivo non dialoga e che non è destinata a tradursi, di contro a quanto sostenuto in ricorso, in una valutazione improntata a criteri soggettivi, ma che resta invece sostenuta da obiettivi rilievi i quali, tra loro raccordati, sono destinati ad evidenziare di quel racconto l’inattendibilità intrinseca senza che venga in considerazione la necessità di riscontri oggettivi (Cass. 24/09/2012 n. 16202).
Consegue all’operato rilievo l’applicazione del principio, consolidato nelle affermazioni di questa Corte di legittimità, in materia di protezione internazionale, per il quale l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona, fermo restando che là dove le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 27/06/2018 n. 16925; Cass. 19/12/2019 n. 33858).
Ogni ulteriore profilo resta assorbito.
2.2. Con il secondo motivo si fa valere la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Il tribunale aveva escluso la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata pur avendo riconosciuto la presenza di scontri tra le forze governative ed i ribelli nella zona del K..
Il diniego era stato genericamente ricondotto al fatto che il K. non avrebbe potuto essere la regione di rimpatrio ed era stata esclusa la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) in ragione della errata considerazione che il rischio indiscriminato richiesto dall’indicata norma voglia la presenza di un fattore individualizzante.
La giurisprudenza di legittimità avrebbe invece ritenuto necessariamente attenuato il nesso causale tra vicenda individuale e rischio di coinvolgimente in situazioni di violenza indiscriminata.
Lo Stato italiano non si sarebbe avvalso della facoltà prevista dall’art. 8 della direttiva 2004/83/CE che consente di non riconoscere la protezione a coloro che in una parte del paese di origine non abbiano motivo di temere persecuzioni o danni gravi.
Il motivo è inammissibile perchè in contrasto con consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità i cui esiti, comunque osservati dall’impugnato decreto, non vengono scalfiti dalla introdotta critica.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità -formatasi con riferimento all’assetto normativo anteriore alla modifica del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, apportata dal D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018 -, il legislatore nazionale nel dare attuazione alla direttiva 2004/83/Ce con il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 25, si era avvalso della facoltà, prevista dall’art. 8 di essa, di non escludere la protezione dello straniero, che ne abbia fatto domanda, per il solo fatto della ragionevole possibilità di trasferimento in altra parte del paese di origine, nella quale non abbia fondato motivo di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire gravi danni.
Pertanto non poteva essere rigettata la domanda di protezione per il solo fatto della ravvisata possibilità di trasferimento (Cass. 16/02/2012, n. 2294; Id., 9/4/2014 n. 8399; Id., 27/10/2015 n. 21903).
Se è vero quindi che per la giurisprudenza della Corte di cassazione la “settorialità” della situazione di rischio di danno grave nella regione o area di provenienza interna dello stato di origine del richiedente asilo di origine non preclude l’accesso alla protezione per la sola possibilità di trasferirsi in altra area o regione del Paese, priva di rischi analoghi, non vale certamente il contrario.
Non è quindi possibile, cioè, ottenere accesso alla protezione se si proviene da una regione o area interna del Paese di origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre aree o regioni invece insicure.
Il Tribunale di Milano dopo aver individuato l’area di provenienza del richiedente nel *****, ove era situato il villaggio di origine, e non nel K., in cui si era rifugiato presso uno zio, ha per ciò stesso, ritenuto non esposto a rischio il rimpatrio nel paese di origine del ricorrente; questi, quindi, non contestando siffatta premessa, con il rappresentare invece che il K. doveva ritenersi luogo di propria destinazione, non ha svolto sul punto una censura concludente.
Il tribunale ha escluso la credibilità del racconto e quindi, anche, della fuga del richiedente dal ***** verso il K., ad oltre 1000 chilometri di distanza, ragione, questa, per la quale non resta neppure definito il luogo di rimpatrio nei termini dedotti in ricorso che sul punto non si confronta.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 in relazione all’errata valutazione del principio di vulnerabilità e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).
Il collegio ritenuta l’inattendibilità del narrato in assenza di fatti diversi non avrebbe ritenuto concedibile la misura della protezione umanitaria.
La valutazione che avrebbe dovuto condurre il tribunale doveva comparare la realtà esistente per il richiedente in Italia e quella passata da cui era fuggito e nella incolmabile sproporzione tra i due contesti rimettere gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Il motivo è inammissibile per genericità e non autosufficienza, non provvedendo lo stesso a dare contenuto, previa allegazione fattuale, alla realtà in cui il ricorrente si trovava a vivere nel Paese di provenienza ed a quella goduta in Italia in tal modo segnalando le posizioni, integrative della condizione di vulnerabilità, toccate dalla relativa sproporzione di contesti.
La valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere correlata ad una valutazione individuale, da spendersi caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia che va comparata con la situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, per una serie di evidenze obiettive che, ove si deducano come mancate nel giudizio svolto nella fase di merito, non possono che essere compiutamente allegate nel successivo ricorso per cassazione in risposta al principio di autosufficienza.
3. Il ricorso è pertanto ed in via conclusiva inammissibile Nulla sulle spese non avendo l’Amministrazione intimata articolato difese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020