LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 1164/2019 proposto da:
D.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Massimo Gilardonio, giusta procura speciale rilasciata con separato atto, elettivamente domiciliati presso la Cancelleria sezionale della Corte di Cassazione in Roma.
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.
– intimato –
avverso la sentenza n. 1100/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, pubblicata in data 25/06/2018.
FATTI DI CAUSA
1. D.M., cittadino nato l'*****, presentava domanda alla Commissione Territoriale di Brescia con la quale richiedeva il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che veniva rigettata con provvedimento regolarmente notificato.
2. Il richiedente aveva narrato di essere nato e vissuto a ***** e di avere lasciato il suo Paese il 27 aprile 2014 dopo essere fuggito dal campo dei ribelli che lo avevano sequestrato tre giorni prima insieme a due suoi compagni, con i quali commerciava lo zucchero in Gambia; che i ribelli avevano cercato di convincerlo ad unirsi alla loro causa dell’indipendenza; che si era recato in Gambia, Burkina Faso, Niger e quindi in Libia, per arrivare in Italia nel marzo 2015.
3. Il Tribunale di Brescia, adito con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., non riconosceva la protezione internazionale, nè quella sussidiaria, nè quella umanitaria e, con ordinanza pronunciata in data 3 novembre 2016, confermava il provvedimento di diniego della Commissione.
4. Avverso tale provvedimento D.M. proponeva appello e la Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 1100 emessa il 25 giugno 2018, rigettava l’appello e confermava l’ordinanza impugnata, compensando le spese di lite.
5. D.M. ricorre in cassazione con due motivi.
6. L’Amministrazione intimata non si è costituita.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo D.M. lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6,7,14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, artt. 2, 3 CEDU, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte d’appello di Brescia escluso la protezione sussidiaria nel silenzio assoluto sulla situazione generale del Senegal ed in violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, nonchè per avere omesso di considerare la condizione di vulnerabilità personale che discendeva dalla situazione nel paese di provenienza e nei paesi di permanenza avuto riguardo alla Libia.
In particolare il ricorrente afferma che la Corte territoriale non aveva tenuto conto del concreto rischio di danno effettivo ed obiettivamente percepibile ricollegabile alla condizione di violenza diffusa non arginata dallo Stato e del concreto rischio di danno effettivo ed obiettivamente percepibile ricollegabile alla condizione di vulnerabilità, come meglio precisata nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 15466/2014 del 7 luglio2014.
1.1 Il motivo è inammissibile.
Premesso che le censure formulate con il primo motivo attengono genericamente all’esclusione della protezione sussidiaria e all’omessa condizione di vulnerabilità, la Corte di appello di Brescia ha motivatamente escluso la credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, sottolineando le lacune ed incongruenze del racconto sul perchè lui e i suoi compagni fossero stati liberati da tre donne e sui motivi della persecuzione subita dai ribelli, assumendo che tali incongruenze costituivano il riflesso della fonte inattendibile da cui proveniva la narrazione (pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata).
I giudici di secondo grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte sui limiti del sindacato di legittimità secondo cui “La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito” (Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340).
Il richiedente, inoltre, non coglie l’autonoma ratio decidendi posta a fondamento del rigetto della domanda di protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b), costituita dalla scarsa verosimiglianza del racconto, ostativa alla configurabilità di una minaccia individuale alla vita o alla persona in relazione alla vicenda prospettata dal richiedente.
Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019, n. 24647).
Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakitè, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).
Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., 13 agosto 2018, n. 20721).
Con riguardo all’omessa considerazione della condizione di vulnerabilità personale che discende dalla situazione nei paesi di permanenza avuto riguardo alla Libia il motivo è inammissibile per difetto di specificità, mancando l’indicazione delle ragioni per le quali la valutazione dovesse estendersi anche alla condizione di tale Paese. Al riguardo, va evidenziato che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide, potendo il paese di transito rilevare, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva UE n. 115/2008, solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass., 6 dicembre 2018, n. 31676).
2. Con il secondo motivo D.M. lamenta la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, avuto riguardo alle condizioni legittimanti il rilascio del permesso umanitario.
Il ricorrente afferma che la Corte di appello di Brescia non si è pronunciata sulla domanda e non ha compiuto sul punto alcun accertamento.
2.1 Il motivo è inammissibile.
I giudici di secondo grado, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, hanno evidenziato che gli elementi emersi non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità del soggetto ricorrente e che il ricorrente si era limitato ad una critica sterile indirizzata alla motivazione della sentenza, senza nulla aggiungere, in concreto, con riferimento alla posizione personale e ad una qualche situazione di vulnerabilità in grado di giustificare le ragioni umanitarie richieste per il permesso di soggiorno.
Sul punto, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).
La condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).
Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).
Ed infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha escluso l’esistenza di una peculiare condizione di vulnerabilità peculiare del soggetto richiedente e ha condiviso la decisione di primo grado che aveva rilevato l’insussistenza di gravi motivi di carattere umanitario nella mancanza di documentazione riguardante oggettive e gravi situazioni personali.
5. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.
Nulla sulle spese per la mancata costituzione dell’Amministrazione intimata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020