Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.9473 del 22/05/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 232/2015 proposto da:

A.R.A.P. – Azienda Regionale Attività Produttive, nella persona del legale rappresentante pro tempore, succeduta per fusione per unione al Consorzio per lo Sviluppo Industriale dell’Aquila, rappresentata e difesa dall’Avv. Donatella Boccabella, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso per cassazione, entrambi elettivamente domiciliati in Roma presso lo studio dell’Avv. Giuseppe Marzano.

– ricorrente –

contro

G.A., G.G., Gu.Gi. e G.P., rappresentati e difesi dall’Avv. Alberto Villante, giusta procura speciale su foglio allegato al controricorso.

– controricorrenti –

e Società G.P. & Figli S.a.s., nella persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 956/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, pubblicata in data 26/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/01/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 956/2014 pubblicata il 26 settembre 2014, la Corte di appello di L’Aquila determinava in Euro 45.502,89, oltre interessi legali dal 15 dicembre 2008 al deposito presso la Cassa DD.PP., l’indennità di espropriazione relativa al terreno di proprietà di G.A., G.G., Gu.Gi. e G.P., terreno edificabile inserito dagli strumenti urbanistici in zona di espansione industriale polivalente ed espropriato con Decreto 15 dicembre 2008, n. 7.

2 Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso l’A.R.A.P. – Azienda Regionale Attività produttive -, succeduta per “fusione per unione” al Consorzio per lo Sviluppo Industriale dell’Aquila con un unico motivo. 3. G.A., G.G., Gu.Gi. e G.P. hanno resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’A.R.A.P. lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla L. n. 2359 del 1865, art. 39; nonchè la violazione dell’art. 42 Cost., in relazione al principio della determinazione della giusta indennità di espropriazione.

Ad avviso del ricorrente il CTU correttamente aveva fatto ricorso agli indici medi di edificabilità, affermando che nel caso in esame andava considerato l’indice di edificabilità del comparto industriale e non del singolo lotto, poichè era tutto l’intero comparto che concorreva alla determinazione della volumetria realizzabile nel comparto stesso e la conseguente distribuzione sia della stessa volumetria sui formandi lotti, sia delle opere di urbanizzazione primarie non poteva essere una discriminante sul valore dell’area stessa.

Il ricorrente, inoltre, metteva in evidenza, la circostanza che la porzione di terreno oggetto di valutazione era attualmente utilizzata a parcheggio e la natura di zona polivalente del comparto in cui ricadeva lo stesso terreno.

Evidenziava, ancora, che, alla discutibile scelta di applicare gli indici di utilizzazione fondiaria e territoriale nella misura massima consentita del 60%, aveva fatto seguito l’apodittica decisione di aggiungere al costo di costruzione anche la percentuale di profitto lordo dell’impresa costruttrice quantificata nel 20%, mentre il CTU aveva espressamente richiamato nel suo elaborato il “Prezziario Abruzzo”, i cui prezzi erano comprensivi delle spese generali e dell’utile di impresa.

Infine, lamentava la decisione, da parte della Corte territoriale, di non utilizzare uno dei due contratti usati dal consulente perchè riguardava una locazione parziale (per la sola parte destinata agli uffici) di un più ampio immobile destinato anche alla produzione.

1.1 Il motivo è infondato.

1.2. Il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, prevede che l’indennità di espropriazione di un’area edificabile debba essere determinata nella misura pari al valore venale del bene, e ciò considerando le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio.

In tal modo, la legge prende in considerazione un criterio di liquidazione agganciato al valore di mercato del terreno, del tutto assimilabile a quello già previsto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 39 (richiamato espressamente dall’Azienda ricorrente), che appunto si riferisce al “giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita”.

Tuttavia la Corte territoriale non ha affatto violato la norma citata, avendo premesso che non era controverso tra le parti che l’espropriazione in esame avesse ad oggetto un terreno edificabile, in quanto inserito dagli strumenti urbanistici in zona di espansione industriale polivalente e che, pertanto, l’indennità spettante ai proprietari dello stesso dovesse corrispondere al valore venale del terreno da determinare, con riferimento alla data del decreto di esproprio, secondo i criteri fissati con l’ordinanza che aveva disposto la consulenza tecnica e che gli unici profili controversi concernevano l’applicazione che di tali criteri aveva fatto il CTU, il quale era pervenuto alla quantificazione del valore venale unitario del bene in Euro 26,00/mq, quale misura media tra quelle risultanti da tre diversi criteri di stima: il criterio del valore dell’edificio realizzabile sull’area espropriata secondo l’indice fondiario previsto dalla normativa urbanistica locale; il criterio dell’indice di utilizzazione territoriale e il criterio reddituale basato sull’esame di tre contratti di locazione aventi ad oggetto immobili realizzati su aree aventi la medesima destinazione urbanistica e ubicazione analoga a quella oggetto di causa.

1.3. Tanto premesso, la Corte territoriale, dopo avere affermato che i primi due criteri si avvicinavano sostanzialmente a quello basato sul valore di trasformazione del suolo (corrispondente alla differenza tra il probabile valore venale dell’edificio sullo stesso realizzabile e il probabile valore del costo dell’edificio medesimo), non ha ritenuto condivisibile la scelta del CTU di tenere conto di un indice di utilizzazione fondiaria corrispondente a quello medio tra i minimi e i massimi consentiti dalla normativa urbanistica nelle aree aventi destinazione industriale secondo la zonizzazione interno del PRT e di un indice di utilizza2ione territoriale corrispondente alla media tra le medie dei vari indici pertinenti alle diverse destinazioni previste da tale zonizzazione.

La Corte aquiliana, contrariamente a quanto affermato dall’Azienda ricorrente, ha ampiamente motivato tale assunto, evidenziando che la scelta operata dal CTU non poteva essere adeguatamente giustificata dalla previsione per la destinazione industriale di un indice minimo e di un indice massimo, solo l’ultimo dei quali individuava la potenzialità di edificazione del fondo, poichè quello minimo era finalizzato ad evitare interventi di piccola entità; nè dalla previsione, per le varie destinazioni consentite dalla zonizzazione interna, di indici di utilizzazione territoriale diversi, posto che il terreno in esame ricadeva in zona polivalente, dove erano consentite tutte le utilizzazioni contemplate per la zona industriale, per quella artigianale, per quelle commerciale e di servizi sociali e consortili; nè dal riferimento agli indici di comparto, poichè le NTA del PRT vigente all’epoca dell’esproprio si riferivano ai singoli lotti.

Inoltre, la Corte di appello di L’Aquila ha espressamente detto che la percentuale di profitto lordo dell’impresa costruttrice era stata del tutto obliterata dal CTU (che aveva calcolato soltanto le percentuali di incidenza degli oneri di sistemazione esterna, degli oneri concessori e degli oneri professionali per progettazioni e direzione dei lavori, peraltro non contestate da entrambe le parti), rimanendo apodittica l’affermazione dell’Azienda ricorrente che i prezzi contenuti nel “Prezziario Abruzzo” “erano comprensivi delle spese generali e dell’utile di impresa” e che non poteva tenersi conto del contratto stipulato nel marzo 1989 tra la S.I.A.P. S.r.l. e la Acron S.r.l. perchè riguardava la locazione della sola parte destinata ad uffici.

1.4. E’ quindi evidente che la censura di violazione di legge formulata dall’Azienda ricorrente sottende invece una critica nel merito alla valutazione operata dalla Corte territoriale, che non può essere sindacata in sede di legittimità, se non per vizio motivazionale, nei ristretti limiti attualmente consentiti dalla legge processuale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Nè sussiste la censura motivazionale con riferimento alla formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, peraltro nemmeno richiamato, che, a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, nel senso della riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con il conseguente corollario che è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. U, 22 giugno 2017, n. 15486).

La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di liquidazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili, la determinazione del valore del fondo espropriato può seguire, indifferentemente, tanto la via del metodo sintetico-comparativo, volto ad individuare il prezzo di mercato dell’immobile attraverso il confronto con quelli di beni aventi caratteristiche omogenee, quanto quella del metodo analitico-ricostruttivo, fondato sull’accertamento del costo di trasformazione del fondo e che non è possibile stabilire tra i due criteri un rapporto di regola ad eccezione ed è pertanto rimessa al giudice di merito la scelta di un metodo di stima improntato, per quanto possibile, a canoni di effettività (Cass., 19 febbraio 2018, n. 3955).

Non sussiste, quindi, un metodo di valutazione privilegiato, anche se questa Corte, ancora recentemente, ha riconosciuto che, dovendosi fare riferimento esclusivamente al prezzo di mercato del bene espropriato, sia per i suoli edificabili che per quelli inedificabili, il metodo sintetico-comparativo è quello che meglio di ogni altro risponde alla perseguita finalità di accertamento del “giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita”, poichè si basa sull’effettiva realtà del mercato per immobili di caratteristiche identiche o similari alla data di riferimento, venendone il valore desunto da dati economici concreti, a prescindere dalla sua condizione giuridica (Cass., 9 maggio 2018, n. 11196).

In ogni caso “nel giudizio avente ad oggetto la determinazione della giusta indennità di espropriazione, la Corte d’Appello può legittimamente disattendere le conclusioni espresse dal consulente tecnico nominato circa il valore del bene, purchè svolga nella motivazione una valutazione critica delle risultanze processuali, indicando, in particolare, gli argomenti su cui fonda il proprio dissenso nonchè gli elementi ed i criteri cui ha fatto ricorso per pervenire ad una valutazione contrastante al fine di non vulnerare il principio del contraddittorio”. (Cass., 18 luglio 2019, n. 19468).

La Corte di appello, come già detto, ha dato ampiamente conto del perchè ha disatteso le conclusioni del CTU nella parti di interesse e la decisione dei giudici di secondo grado sulla determinazione del valore di mercato del terreno espropriato, in quanto improntata a criteri di effettività, non può ritenersi viziata.

2. Il ricorso deve quindi essere rigettato, con la condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese ai controricorrenti, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’A.R.A.P. – Azienda regionale attività Produttive, succeduta per “fusione per unione” al Consorzio per lo Sviluppo Industriale dell’Aquila, al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti, liquidate nella somma di Euro 4.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, il 15% per rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2020

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