LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – rel. Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28378-2018 proposto da:
D.F., D.A., D.L., in proprio e in qualità di eredi di M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LORENZO RESPIGHI, 13, presso lo studio dell’avvocato ALESSIA GEMINI, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto n. cron. 1996/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 17/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/09/2019 dal Consigliere Dott. SERGIO GORJAN.
FATTI DI CAUSA
A., L. e D.F., in proprio e quali eredi di M.A., ebbero a proporre istanza di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di un procedimento civile di natura ereditaria,del quale erano stati parte. Il Consigliere delegato ebbe ad accogliere la domanda liquidando a favore di ciascuno dei ricorrenti la somma di Euro 9.000,00 per il periodo di durata del procedimento presupposto ritenuto irragionevole,ma i ricorrenti proposero opposizione ritenendo l’importo riconosciuto riduttivo.
La Corte d’Appello di Roma, con il decreto impugnato, ebbe a rigettare l’opposizione, ritenendo la liquidazione effettuata corretta ed in linea con i parametri di legge.
I consorti D., anche quali eredi della madre M., hanno proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.
Il Ministero della Giustizia,regolarmente evocato,s’è costituito a resistere con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso proposto dai consorti D. s’appalesa privo di fondamento e va rigettato.
Con la prima ragione d’impugnazione svolta i ricorrente denunziano violazione della norma ex art. 116 c.p.c. in relazione alla L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2 bis poichè la Corte capitolina ha ritenuto che il giudizio presupposto avesse natura di scioglimento della comunione mentre il suo oggetto era l’invalidità del testamento redatto dal de cujus.
Da tale errata qualificazione della domanda svolta nel giudizio civile, della cui irragionevole durata si dibatteva, la Corte romana ha statuito l’ammontare annuo del ristoro in misura riduttiva rispetto a quanto dovuto, se rettamente utilizzati i parametri ex lege n. 89 del 2001 stabiliti per la tassazione dell’indennizzo.
La censura s’appalesa siccome infondata poichè in effetti i ricorrenti non apprezzano compiutamente l’argomento utilizzato dal Collegio romano per addivenire all’individuazione della somma base in forza della quale tassare l’indennizzo.
Invero, nel provvedimento impugnato, la Corte territoriale non già afferma che il procedimento civile presupposto fosse stato un giudizio di scioglimento di comunione, bensì richiama arresto di questo Supremo Collegio al riguardo per indicare il criterio seguito al fine di tassare l’indennizzo.
Inoltre, come ricordano gli stessi ricorrenti nel descrivere lo svolgimento del giudizio civile presupposto,se la lite ebbe ad avviarsi sulla loro domanda di declaratoria di invalidità del testamento redatto dal rispettivo marito separato-padre, tuttavia venne introdotta, in via riconvenzionale, anche domanda di accertamento della consistenza dell’asse relitto dal de cujus ai fini del calcolo della disponibile.
Dunque non concorre all’evidenza la dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., avendo la Corte capitolina proceduto ad una valutazione degli elementi versati in causa ed essendo giunta alla conclusione, motivata da richiamo ad arresto di legittimità, di poter assimilare la causa civile presupposta, per la sua natura desunta dal complesso delle domande effettivamente svolte in causa dalle parti, a quella avente ad oggetto lo scioglimento di comunione ereditaria ovvero ai giudizi di natura amministrativa o fallimentare di lunga durata.
L’argomento critico svolto dai D. si compendia in buona sostanza nella proposizione di mera opzione interpretativa alternativa fondata sull’enfatizzazione della sola domanda afferente l’invalidità del testamento, rispetto a quella elaborata dal Collegio romano circa la qualificazione dell’oggetto della lite presupposta ai fini dell’incidenza sulla quantificazione del ristoro dovuto.
Con il secondo mezzo d’impugnazione i ricorrenti lamentano omesso esame di fatti decisivi posto che il Collegio romano non ebbe a considerare che la domanda proposta nel giudizio presupposto non era di scioglimento di comunione, bensì d’accertamento dell’invalidità del testamento e che in prime cure non fu svolta attività istruttoria mentre in sede d’appello si procedette ad inutile consulenza tecnica ai fini della valutazione dell’asse relitto, poichè la lite fu decisa in forza di altra questione assorbente.
Inoltre, i ricorrenti osservano come il Collegio romano aveva omesso di considerare la valenza delle “posta in gioco” ossia il valore della lite presupposta e l’incidenza di questo sulle loro aspettative economiche quali parti in causa, stante che molti degli immobili oggetto del testamento invalidato erano di natura commerciale e locati ossia produttivi di reddito.
In effetti la Corte territoriale non ebbe ad omettere di valutare i fatti indicati dai consorti D. posto che,come già illustrato nell’esaminare la precedente censura, il Collegio romano non ha affatto affermato che la lite presupposta era uno scioglimento di comunione, bensì ha utilizzato insegnamento di questo Supremo Collegio al riguardo quale mero richiamo analogico per tassare la somma ritenuta equa a compensare il paterna d’animo subito in relazione alla specifica lite, in cui i D. erano parti.
Quindi non sussiste la dedotta omissione nemmeno con relazione all’incidenza della durata della lite sulle aspettative patrimoniali dei D., posto che al riguardo la Corte distrettuale ha appositamente statuito rilevando come detto pregiudizio era da dedurre nell’ambito del procedimento presupposto.
Con il terzo mezzo d’impugnazione i consorti D. lamentano violazione delle norme L. n. 89 del 2001, ex artt. 1 bis e 2 bis nonchè art. 116 c.p.c. e art. 2056 c.c. e norme in tema di ristoro danno patrimoniale posto che il Collegio capitolino ha rigettato la loro richiesta di esser ristorati anche del danno patrimoniale subito in dipendenza dell’irragionevole durata del procedimento presupposto,in quanto la contro parte – erede testamentaria – era nel godimento dei beni immobili fruttiferi relitti morendo dal loro padre ed ebbe ad annotare la sua domanda riconvenzionale su tutti i beni ereditari in dipendenza della domanda riconvenzionale afferente il calcolo della disponibile.
Tuttavia l’argomento critico svolto nella censura,in concreto, non lumeggia violazione di legge, poichè la Corte romana non dubita che nell’ambito del procedimento ex lege Pinto possa esser ristorato anche il danno patrimoniale, bensì ha ritenuto, operando anche specifico riferimento ad arresto di questo Supremo Collegio,che i D. non ebbero ad offrir prova che i danni lamentati fossero diretta conseguenza dell’irragionevole durata del procedimento presupposto.
L’argomentazione critica proposta dai ricorrenti,invece, si compendia esclusivamente nella richiesta a questa Corte di legittimità di una valutazione sul merito della questione, questione non consentita stante la natura del giudizio di legittimità.
Difatti nel ricorso viene lamentato che la Corte di merito non ebbe a ben comprendere che la loro richiesta non era correlata agli affitti non riscossi dai beni immobili dati in locazione nel periodo di durata del procedimento presupposto, bensì ad altri e diversi pregiudizi subiti.
Pregiudizi rappresentati da non poter disporre di alcuno dei beni ereditari, nemmeno quelli in loro possesso, avendo controparte annotato la lite sugli stessi specie al fine di onorare propri debiti od ancora dall’incapienza patrimoniale della contro parte lumeggiata dal fatto che i suoi eredi hanno rinunziato all’eredità.
Quindi i ricorrenti si sono limitati a riproporre le questioni già sottoposte alla Corte territoriale senza un effettivo confronto critico con la statuizione adottata – difetto di nesso eziologico tra i dedotti pregiudizi e la durata del procedimento poichè al riguardo dovevano esser azionati i rimedi consentiti dalla legge processuale nell’ambito del procedimento presupposto -.
Invero l’incapacità di pagare i debiti contratti prima della devoluzione ereditaria – ex se mera evenienza – non si correla con la lite ereditaria poichè di certo il debitore nell’assumere il debito, che sapeva d’esser incapace di onorare, non poteva affidarsi alla sorte della morte del congiunto, mentre proprio il pericolo di incapacità della controparte a restituire consentiva di procedere al sequestro dei beni fruttiferi contesi.
Quindi il Collegio romano ha ben valutato la situazione ed adottato soluzione rispettosa dei dettami di legge.
Con la quarta ragione di doglianza i D. ripropongono la questione sollevata nel terzo motivo di ricorso sotto il profilo di violazione di legge qualificandola siccome omesso esame delle prove dei dedotti danni patrimoniali subiti.
La censura s’appalesa siccome inammissibile posto che la norma ex art. 360 c.p.c., n. 5 consente la denunzia di omesso esame di ” fatti rilevanti”, non già delle prove portate a sostegno di detti fatti, siccome invece appare denunziato in ricorso.
Inoltre, come dianzi esposto con relazione al terzo motivo di ricorso, la Corte capitolina ha proceduto all’esame della questione e ritenuto – così implicitamente ritenendo irrilevanti le prove al riguardo – che i pregiudizi dedotti non si ponessero in nesso eziologico con l’irragionevole durata del procedimento presupposto.
Al rigetto del ricorso segue, ex art. 385 c.p.c., la condanna solidale dei consorti D. alla rifusione verso l’amministrazione della Giustizia delle spese di questo giudizio di legittimità,liquidate in Euro 1.500,00 oltre alle spese prenotate a campione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti,in solido fra loro, a rifondere all’Amministrazione della Giustizia le spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 1.500,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nell’adunanza di camera di consiglio, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020