LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –
Dott. DI IASI Camilla – Presidente di sez. –
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di sez. –
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 33372-2018 proposto da:
T.P.F., (già P.T.F.), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 290, presso lo studio dell’avvocato ADRIANO CASELLATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MONTEROTONDO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA C. FRACASSINI 18, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO VENETTONI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2396/2018 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 20/04/2018;
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/02/2020 dal Consigliere Dott. MAURO DI MARZIO.
RILEVATO
CHE:
1. – Il Comune di Monterotondo ha disposto nel 1983 l’occupazione di urgenza finalizzata all’espropriazione, in seguito mai effettivamente perfezionata, di un fondo dell’odierno ricorrente, T.P.F., fondo poi destinato ad opere di edilizia residenziale pubblica.
2. – T.P.F. ha, in conseguenza dell’occupazione non seguita dall’espropriazione, intrapreso nei confronti del Comune di Monterotondo un’azione risarcitoria, che ha dato luogo ad una pronuncia di condanna del Comune da parte del Tribunale di Roma, confermata nell’an da una sentenza della Corte d’appello di Roma, che ha quantificato in un minore importo, rispetto a quello liquidato dal primo giudice, il risarcimento spettante all’attore, sentenza poi confermata con sentenza del 17 febbraio 2011, numero 3909, di questa Corte.
3. – Lo stesso T.P.F. ha quindi chiesto al Comune, avvalendosi del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42 bis la restituzione dell’area illegittimamente occupata o, in alternativa, la c.d. “acquisizione sanante” della medesima area all’amministrazione, dietro corresponsione dei distinti indennizzi, patrimoniale e non patrimoniale, previsti dalla norma.
4. – L’amministrazione ha risposto negativamente alla domanda con nota del 16 aprile 2013, assumendo in breve di essere già divenuta proprietaria del bene.
5. – Il T. ha dunque impugnato il provvedimento dinanzi al Tar Lazio, che, con sentenza del 19 maggio 2016, ha respinto la domanda, reputando che il giudicato civile formatosi a seguito della menzionata sentenza di questa Corte coprisse anche l’ormai intervenuto trasferimento all’amministrazione del diritto di proprietà sull’area in discorso.
6. – Con sentenza del 20 aprile 2018, il Consiglio di Stato, investito dell’appello proposto da T.P.F., nel contraddittorio con il Comune di Monterotondo, ha respinto l’appello e regolato le spese di lite. Ha ritenuto il Consiglio di Stato che ricorresse nella specie l’ipotesi della rinunzia abdicativa da parte del proprietario, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.
Ha poi precisato la sentenza impugnata, per quanto rileva, che:
– T.P.F. aveva agito per il risarcimento del danno per equivalente monetario patito per la perdita dell’area, secondo il suo valore venale al prezzo di mercato;
– egli stesso aveva qualificato la domanda come diretta alla dichiarazione dell’avvenuta accessione invertita in favore del Comune per effetto dell’irreversibile trasformazione del bene a seguito della realizzazione dell’opera pubblica;
– in grado d’appello la controversia aveva riguardato il solo quantum del risarcimento;
– finanche la Corte di cassazione aveva dato per assodato l’intervenuto acquisto per accessione invertita, in capo al Comune, della proprietà delle aree, titolo per il correlativo diritto, in capo al privato, ad ottenere il ristoro per equivalente monetario.
Era dunque da escludere che il giudicato derivante dalla conclusione del già menzionato giudizio civile, come sostenuto dall’appellante, fosse caduto solo sull’aspetto del risarcimento del danno per il periodo dell’illegittima occupazione, tanto più che, se anche si fosse ritenuto non formato il giudicato a seguito della sentenza di questa Corte del 2011, avrebbe comunque trovato applicazione il principio, ampiamente illustrato nella sentenza impugnata, secondo cui l’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della pubblica amministrazione cessa con la rinunzia abdicativa, così qualificata dal Consiglio di Stato, derivante dalla richiesta di risarcimento del danno.
7. – Per la cassazione della sentenza T.P.F. propone ricorso per un mezzo illustrato da memoria, nella quale si richiama la recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 20 gennaio 2020, pronunciatasi sul tema della rinuncia abdicativa.
Resiste con controricorso il Comune di Monterotondo.
CONSIDERATO
CHE:
8. – L’unico mezzo denuncia: “Eccesso di potere giurisdizionale, sotto il profilo del diniego di giustizia e della violazione dell’art. 6 Conv. Europea dei Diritti dell’Uomo C.E.D.U. e dell’art. 1 Prot. Agg. C.E.D.U., in relazione all’art. 111 Cost., u.c.; art. 362 c.p.c., comma 1; art. 110 cod. proc. amm. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1)”.
Il motivo richiama giurisprudenza di questa Corte che ammette il sindacato, sotto il profilo del superamento dei limiti esterni della giurisdizione, delle sentenze del Consiglio di Stato destinate ad esplicare i propri effetti in maniera contrastante con una norma sovranazionale cui lo Stato italiano sia tenuto a dare applicazione: e, nella materia in discorso, il diritto e la giurisprudenza dell’Unione sarebbero fermi nell’affermare il principio secondo cui in nessun caso sia possibile giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poichè una pronuncia di tal fatta presuppone l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene per fatto illecito e, dunque, si pone in contrasto con il Primo Protocollo allegato alla Convenzione citata.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza impugnata, avrebbe giudicato detto principio cedevole rispetto alla circostanza della ritenuta rinuncia, da parte del ricorrente, alla proprietà per effetto della proposizione della domanda risarcitoria: e dunque la sentenza si porrebbe in contrasto con il diritto unionale giacchè negherebbe al ricorrente un processo effettivo.
La pronuncia oggetto del ricorso non escluderebbe cioè che l’occupazione non seguita dall’espropriazione costituisca illecito permanente che si perpetua di giorno in giorno, ma affermerebbe che, dinanzi a tale illecito, la domanda del proprietario di mero risarcimento del danno per equivalente comporterebbe, contestualmente ed implicitamente, abdicazione del diritto di proprietà e sanatoria dell’illecito stesso: viceversa la corresponsione del risarcimento del danno da occupazione illegittima, secondo il ricorrente, non potrebbe sanare alcun illecito, se non in contrasto con il citato art. 1 del Protocollo Aggiuntivo e con il divieto di trasferimento della proprietà del bene in conseguenza di un illecito, sicchè la pubblica amministrazione non sarebbe esonerata dall’adottare un valido provvedimento ex art. 42 bis testo unico espropriazioni al fine di acquisire formalmente e motivatamente la proprietà sull’area oggetto di opera pubblica.
Ancora, secondo il motivo, se fosse vero che la rinuncia implicita al diritto di proprietà ha carattere abdicativo, come affermato dal Consiglio di Stato, detta rinuncia non potrebbe produrre quale effetto automatico l’acquisto della proprietà del fondo da parte della pubblica amministrazione, la quale, dunque, dovrebbe in ogni caso svolgere un’ulteriore attività volta al trasferimento della proprietà, ai sensi del citato art. 42 bis: ed anche sotto tale profilo l’impostazione del Consiglio di Stato confliggerebbe con i principi Europei, poichè ammetterebbe che ad un illecito permanente possa essere attribuito da una sentenza valore costitutivo del diritto di proprietà in capo all’amministrazione che l’illecito ha compiuto.
RITENUTO CHE:
9. – Il ricorso è inammissibile.
9.1. – L’inammissibilità è anzitutto conseguente al rilievo che il ricorrente ha censurato una sola delle due distinte rationes decidendi poste dal Consiglio di Stato a fondamento del rigetto dell’appello contro la sentenza del Tar Lazio che aveva ritenuto coperto dal giudicato l’ormai intervenuto trasferimento della proprietà del bene, per “accessione invertita”, dal T.P. al Comune di Monterotondo.
Il Consiglio di Stato, difatti, ha svolto nella propria sentenza due argomenti separati e di per sè autonomamente idonei a sostenere il decisum: per un verso ha affermato che il Tar aveva correttamente rilevato il formarsi del giudicato sull’acquisto della proprietà del bene in capo all’amministrazione, evidenziando che la stessa sentenza della Corte di cassazione, come in effetti è, discorreva di “accessione invertita”; per altro verso ha evidenziato essere irrilevante “che, eventualmente, non si sia formato il giudicato” (così a pagina 9 della sentenza), giacchè la domanda di risarcimento del danno aveva di per sè stessa comportato un effetto abdicativo tale da determinare il trasferimento della proprietà a favore dell’amministrazione.
Va da sè che la conferma della sentenza del Tar trova giustificazione in una ratio decidendi non censurata, quella concernente il formarsi del giudicato sul punto di cui si è detto, tale da privare il ricorrente di interesse a far valere il denunciato eccesso di potere giurisdizionale che affliggerebbe esclusivamente l’altra ratio decidendi effettivamente censurata (sull’esigenza di censurare tutte le raiones decidendi che sorreggono la pronuncia impugnata tra le tante Cass., Sez. Un., 29 marzo 2013, n. 7931). 9.2. – In ogni caso, il motivo spiegato è in se stesso inammissibile.
9.2.1. – Secondo un orientamento ormai costante di queste Sezioni Unite, il ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, in applicazione dell’art. 111 Cost., comma 9 è ammesso nel solo caso in cui la sentenza del giudice amministrativo abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale, esercitando la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, negando la giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto, in modo assoluto, della funzione giurisdizionale, ovvero, ancora, qualora abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, o negandola o compiendo un sindacato di merito, pur trattandosi di materia attribuita alla propria giurisdizione, limitatamente al solo controllo di legittimità degli atti amministrativi, così da invadere arbitrariamente il campo dell’attività riservata alla pubblica amministrazione.
Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte costituzionale che, con sentenza numero 6 del 2018, ha negato la configurabilità di un concetto più ampio di giurisdizione (cosiddetto “dinamico”, o “funzionale”, o “evolutivo”), quale quello invocato dall’odierno ricorrente in adesione ad una giurisprudenza minoritaria ed ormai recessiva, secondo cui rivelerebbero non solo le norme sulla giurisdizione dettate ai fini dell’individuazione dei “presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale”, ma anche quelle che stabiliscono “le forme di tutela” attraverso cui la giurisdizione si estrinseca e, quindi, la violazione di legge in relazione alla giurisdizione, ogni qual volta ricorrano interpretazioni “abnormi o anomale”, ovvero uno “stravolgimento” delle “norme di riferimento”. Il giudice delle leggi ha in particolare affermato che “la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione… comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi come una interpretazione evolutiva, poichè non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale”. La nozione di controllo di giurisdizione così delineata, “nei termini puntuali che ad essa sono propri, non ammette soluzioni intermedie…, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento””.
La tesi della giurisdizione “dinamica”, dunque, finendo per determinare l’equiparazione del ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato con quello “ordinario”, si pone in contrasto con l’art. 111 Cost., che sottrae le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo nomofilattico della Corte di cassazione.
Tali principi, desunti dalla pronuncia della Corte costituzionale menzionata, sono stati fatti propri dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha evidenziato trattarsi “di riaffermazione di principi già enunciati dalle Sezioni Unite” (Cass., Sez. Un., n. 20529 del 2018), sicchè la nozione di “motivi di giurisdizione” va letta in coerenza con quella esplicitata dalla Corte costituzionale (Cass., Sez. Un., n. 31023 del 2019), la cui decisione esercita “carattere vincolante, dato che essa ha identificato gli ambiti dei poteri attribuiti alle differenti giurisdizioni dalla Costituzione, nonchè i presupposti ed i limiti del ricorso ex art. 111 Cost., comma 8, così decidendo una questione che involge l’interpretazione di norme costituzionali e identificazione dei confini tra poteri da queste stabiliti… che non può non spettare alla Corte costituzionale, quale interprete ultimo delle norme costituzionali” (Cass., Sez. Un., n. 15338 e 15744 del 2019".
Non v’è dunque modo ormai di ritenere che diano luogo a diniego di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato gli errori in procedendo o in iudicando, ancorchè riguardanti il diritto dell’Unione Europea.
9.2.2. – Tanto premesso, è agevole osservare che, nel caso di specie, il ricorso non investe la nozione di giurisdizione nel senso prima indicato, giacchè non si riferisce nè al difetto assoluto di giurisdizione (ricorrente quando il Consiglio di Stato eserciti la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione), nè al diniego della giurisdizione sull’erroneo presupposto che la materia non può in senso assoluto formare oggetto di cognizione giurisdizionale, nè al difetto relativo di giurisdizione, configurabile quando il giudice amministrativo affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici. Al contrario il motivo denuncia il sostanziale errore di giudizio in cui il Consiglio di Stato sarebbe incorso per aver fatto discendere dalla domanda risarcitoria del proprietario rimasto vittima dell’occupazione non seguita da espropriazione, attraverso il discusso meccanismo della rinuncia abdicativa, il trasferimento, quale prodotto di un illecito, della proprietà del bene, con un effetto in buona sostanza di salvezza o reviviscenza della costruzione, travolta in dipendenza della giurisprudenza CEDU richiamata in ricorso, della c.d. “accessione invertita”.
Ma, come si premetteva, un motivo di tal contenuto esula dal controllo di giurisdizione che la Corte di cassazione a Sezioni Unite esercita sul Consiglio di Stato.
10. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente Comune di Monterotondo, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020