LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5752/2017 R.G. proposto da:
G.G., in proprio e nella qualità di legale rappresentante p.t. della CROTT DEL VECC S.A.S. DI G. G. &
C., rappresentato e difeso dall’Avv. Angelo Mammoliti, con domicilio eletto in Roma, viale Liegi, n. 28, presso lo studio dell’Avv. Giorgio Tamburrini;
– ricorrenti –
contro
ITALFONDIARIO S.P.A.;
– intimata –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 4576/16, depositata il 13 dicembre 2016.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 12 gennaio 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
FATTI DI CAUSA
1. G.G., in proprio e nella qualità di rappresentante della Crott del Vecc S.a.s. di G. G. & C., convenne in giudizio l’Italfondiario S.p.a., in qualità di mandataria dell’Intesa San Paolo S.p.a., proponendo opposizione al Decreto Ingiuntivo n. 229 del 2013, con cui il Tribunale di Como aveva intimato ad entrambi il pagamento della somma di Euro 97.564,03, a titolo di saldo debitore di un conto corrente intestato alla società e garantito da fideiussione rilasciata dal G..
A sostegno della domanda, l’attore contestò la determinazione della somma dovuta, sostenendo l’illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi e dell’addebito trimestrale della commissione di massimo scoperto.
Si costituì la Banca, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 2 aprile 2014, il Tribunale rigettò l’opposizione.
2. L’impugnazione proposta dagli opponenti è stata rigettata dalla Corte d’appello di Milano con sentenza del 13 dicembre 2016.
Premesso che il contratto di conto corrente, sottoscritto il 9 maggio 2006, prevedeva espressamente la pari periodicità della capitalizzazione degli interessi a debito ed a credito, in conformità del D.Lgs. n. 4 agosto 1999, n. 342 e della Delib. CICR 9 febbraio 2000 e rilevato che la Banca aveva prodotto gli estratti conto periodici, la Corte ha confermato che, come ritenuto dal Tribunale, gli appellanti non avevano fornito la prova nè della decorrenza del rapporto dal 13 dicembre 1994, nè di una scorretta applicazione della predetta clausola.
Ha ribadito inoltre la liceità della pattuizione della commissione di massimo scoperto, espressamente prevista dal contratto e liquidata anch’essa con periodicità trimestrale, osservando che la validità della stessa, correlata all’obbligo della Banca di tenere a disposizione del cliente il massimo importo affidato, ovvero al rischio dalla stessa assunto in proporzione all’utilizzo concreto del credito da parte del cliente, è stata espressamente prevista dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in L. 28 gennaio 2009, n. 2 e dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito in L. 3 agosto 2009, n. 102. Ha ritenuto pertanto superfluo l’espletamento di una c.t.u. contabile, ai fini dell’accertamento dell’esatto ammontare della somma dovuta, precisando comunque che, a partire dal 28 giugno 2009, la Banca non aveva più addebitato alcuna commissione, conformemente a quanto previsto dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 117-bis, introdotto dal D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in L. 22 dicembre 2011, n. 241.
3. Avverso la predetta sentenza il G. e la Crott del Vecc hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. L’intimata non ha svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 1321,1341 e 1344 c.c., art. 644 c.p.p.. E della L. n. 2 del 2009, nonchè il vizio di motivazione, insistendo sulla nullità della clausola che prevedeva la commissione di massimo scoperto, in quanto costantemente applicata nella sua massima estensione, e quindi idonea ad alterare l’equilibrio del rapporto in favore del contraente più forte, anche alla luce dell’attribuzione alla Banca della facoltà di recedere ad nutum dal rapporto. Sostengono infatti che, ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117-bis, non è più consentita l’applicazione di commissioni calcolate in misura non proporzionale alla somma effettivamente messa a disposizione del cliente per la durata effettiva dell’affidamento, nè di oneri ulteriori, mentre per gli sconfinamenti è ammessa soltanto la previsione di una commissione di istruttoria veloce e del tasso d’interesse debitore.
2. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 2967 c.c. e degli artt. 184 e 189 c.p.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, per effetto della ritenuta validità della clausola che prevedeva la commissione di massimo scoperto, ha rigettato l’istanza di ammissione della c.t.u..
3. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni intimamente connesse, sono infondati.
Com’è noto, l’invalidità delle clausole dei contratti bancari aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto fu introdotta dal D.L. n. 185 del 2008, art. 2-bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 2 del 2009, il quale dettò una complessa disciplina, che distingueva tra i contratti di conto corrente assistiti da un’apertura di credito e quelli non affidati: per questi ultimi il primo periodo della norma in esame subordinava la validità della clausola alla condizione che la commissione fosse legata ad un servizio effettivamente reso dalla banca, prevedendone la nullità, indipendentemente dalla misura della commissione pattuita, qualora il saldo del conto fosse risultato a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni, ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido; per i primi, il secondo periodo sanciva invece la nullità delle clausole, “comunque denominate”, che prevedessero “una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma” ovvero “una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente”, a meno che il corrispettivo dovuto non fosse “predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente”, e fosse “specificatamente evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale con l’indicazione dell’effettivo utilizzo avvenuto nello stesso periodo”, facendo salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni momento (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 12997). La nullità delle clausole contrattuali che prevedevano la commissione di massimo scoperto è stata successivamente ribadita dapprima dal D.L. n. 78 del 2009, art. 2, comma 2, convertito con modificazioni dalla L. n. 102 del 2009, il quale ha aggiunto un terzo periodo al comma 1 dell’art. 2-bis, che impone un limite massimo al corrispettivo onnicomprensivo ammesso dal secondo periodo, e in seguito del D.L. n. 201 del 2011, art. 6-bis, comma 1, inserito dalla Legge di Conversione n. 214 del 2011, che ha trasfuso la predetta disciplina, in parte modificandola, nel D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117-bis, il quale consente alle parti di prevedere, quali unici oneri a carico del cliente a fronte di sconfinamenti in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido, “una commissione di istruttoria veloce determinata in misura fissa, espressa in valore assoluto, commisurata ai costi e un tasso di interesse debitore sull’ammontare dello sconfinamento”.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dei ricorrenti, la disciplina introdotta dal D.L. n. 185 del 2008, art. 2-bis, comma 1, non aveva efficacia retroattiva, e non era pertanto applicabile nè ai rapporti esauriti, nè a quelli ancora in corso, limitatamente al periodo anteriore alla data della sua entrata in vigore: in tal senso depongono chiaramente non solo la ratio della norma in esame, volta a risolvere i problemi applicativi suscitati dalla normativa in materia di usura introdotta dalla L. 12 marzo 1996, n. 108, in particolare quello dell’applicabilità della stessa ai contratti stipulati in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, ma anche la portata chiaramente innovativa delle disposizioni dalla stessa introdotte, non configurabili come norme d’interpretazione autentica neppure con riguardo alla disciplina antiusura, e soprattutto la norma transitoria contenuta nel comma 3, la quale prevedeva che i contratti in corso dovessero essere adeguati alla nuova disciplina entro centocinquanta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione (cfr. Cass., Sez. I, 3/11/2016, n. 22270; 22/06/2016, n. 12965). A maggior ragione, deve escludersi l’applicabilità al periodo anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008, delle disposizioni successivamente dettate del D.L. n. 78 del 2009, art. 2, comma 2 e dal D.L. n. 201 del 2011, art. 6-bis, comma 1, che si sono limitate ad apportare integrazioni e modifiche alla disciplina introdotta dalla norma precedente, senza peraltro intervenire in alcun modo sulla disciplina transitoria contenuta dell’art. 2-bis, comma 3.
Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, rilevato che il contratto di conto corrente intercorso tra le parti era stato sottoscritto in data anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008, art. 2-bis, ha escluso la nullità della clausola contrattuale che prevedeva l’applicazione della commissione di massimo scoperto, ritenendola giustificata da una causa lecita, in quanto volta ad assicurare alla banca una remunerazione per la messa a disposizione di fondi a favore della correntista, nonchè legittimamente pattuita sul piano formale e correttamente applicata, in quanto convenuta in misura determinata o comunque determinabile, e liquidata con periodicità pari a quella delle altre commissioni. A ciò si aggiunga che, come accertato dalla medesima sentenza, rimasta incensurata sul punto, dagli estratti conto prodotti in giudizio era emerso che a decorrere dal 28 giugno 2009, ovverosia dalla data di entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008, art. 2-bis, la Banca non aveva più addebitato alcun importo al predetto titolo, la cui imposizione a carico della correntista si sarebbe posta in contrasto con la nuova disciplina introdotta dalla norma richiamata e confermata da quelle successive. In quest’ottica, essendo rimasta correttamente esclusa la fondatezza della pretesa alla restituzione delle somme addebitate a titolo di commissione, in riferimento tanto al periodo anteriore quanto a quello successivo all’entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008, doveva ritenersi superfluo anche l’espletamento della c.t.u. richiesta ai fini della quantificazione del relativo ammontare, la cui mancata ammissione, costituendo esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, risulta comunque incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da adeguata motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 25/07/2006, n. 16980; Cass., Sez. III, 3/03/2005, n. 4652; 16/07/2003, n. 11143).
4. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2021
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