LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –
Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –
Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22560/17 R.G. proposto da:
N. FINANCE S.A., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, giusta procura speciale conferita con atto dell’11 settembre 2017, autenticata il 12 settembre 2017, dagli avv.ti Eugenio Briguglio e Gianluca Boccalatte, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Ernesto Mocci, in Roma, via Germanico, n. 146;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente domiciliata;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 734/14/17 depositata in data 24 febbraio 2017;
udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio dell’11 marzo 2021 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.
RILEVATO
che:
1. L’Agenzia delle entrate emise nei confronti della N. Finance S.A., con sede in Lussemburgo, tre avvisi di accertamento relativi agli anni d’imposta 2006, 2007 e 2008, rettificando i redditi dichiarati e rideterminando l’imponibile ai fini IRES, IRAP ed I.V.A., all’esito di verifica recepita nel processo verbale di constatazione notificato alla contribuente in data 19 giugno 2008.
Con gli atti impositivi l’Agenzia delle entrate contestò alla N. Finance S.A. la qualifica di società estero-vestita, avente sede effettiva in Italia, come tale tenuta all’adempimento di tutti gli obblighi fiscali prescritti dalla normativa nazionale, e successivamente trasmise la comunicazione di reato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Mantova a carico di N.G. per il reato previsto e punito dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5.
2. La contribuente impugnò gli atti impositivi, eccependo in via pregiudiziale la decadenza dell’Agenzia delle entrate dal potere di accertamento, con riguardo all’anno d’imposta 2006, l’inesistenza della notificazione degli accertamenti perchè effettuata presso la sede in Italia della controllante N. s.p.a. e, nel merito, contestò di essere società estero-vestita, deducendo che la pretesa fiscale incorreva nella violazione del principio di libertà di stabilimento.
3. Con sentenza n. 191/01/14 la Commissione tributaria provinciale di Mantova, riuniti i ricorsi, li accolse, disattendendo le eccezioni preliminari e ritenendo indimostrata l’estero-vestizione della società lussemburghese.
4. In esito all’appello dell’Agenzia delle entrate, che rappresentò che la N. Finance S.A. costituiva una sorta di “cassaforte” creata al solo scopo di attuare una pianificazione fiscale, finalizzata a conseguire indebiti risparmi d’imposta, ed all’appello incidentale della contribuente, che reiterò le eccezioni preliminari disattese dal primo giudice, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, riformando la sentenza di primo grado, accolse parzialmente l’appello incidentale, annullando, per l’effetto, l’avviso di accertamento emesso per l’anno 2006 – sul rilievo che fosse fondata l’eccezione di decadenza dall’azione accertativa – e accolse in parte l’appello principale, confermando gli avvisi di accertamento relativi agli anni 2007 e 2008.
In particolare, con riferimento all’appello principale, richiamato l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione e dalla Corte di Giustizia in materia di estero-vestizione, motivò che la questione dovesse essere risolta avendo riguardo al t.u.i.r., art. 73, secondo cui “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.
Escludendo che la tesi dell’Agenzia delle entrate potesse essere smentita sulla base della sentenza n. 43809 del 2015 della Corte di Cassazione, terza sezione penale, richiamata dalla contribuente, ritenne di dover attribuire rilevanza agli elementi rappresentati dall’amministrazione finanziaria, plurimi, univoci e concordanti, tra i quali l’assenza di una sede effettiva e di addetti alle dipendenze della società. Rilevò che la N. Finance S.A. non esercitava attività diretta alla produzione ed allo scambio, nè quella di direzione del gruppo, essendo società controllata, con la conseguenza che non risultava pertinente il richiamo all’art. 2497 c.c., concludendo che alla stregua della disciplina OCSE e delle previsioni tributarie la contribuente dovesse essere considerata come società avente stabile organizzazione in Italia, essendo in Italia identificato il suo centro di attività effettiva.
Rigettò, inoltre, sia la dedotta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non sussistendo a carico dell’Amministrazione l’obbligo di dare riscontro alle osservazioni dei contribuenti mediante una disamina analitica delle questioni esposte, sia le censure riproposte con riguardo alle sanzioni irrogate, non ravvisando, nella fattispecie, l’incertezza oggettiva di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, e di cui allo Statuto del contribuente, art. 10, comma 3.
5. Avverso la suddetta decisione la N. Finance S.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a nove motivi.
L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, con due motivi, cui resiste la contribuente con controricorso e ricorso incidentale condizionato, con nove motivi.
6. Con nota di deposito di documenti del 6 giugno 2019 la N. Finance S.A. ha evidenziato di avere aderito alla definizione agevolata di cui al D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6, convertito, con modifiche, dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, limitatamente all’avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 2006, depositando quietanza di versamento attestante il pagamento dell’importo dovuto.
L’Agenzia delle entrate in data 1 giugno 2020 ha depositato istanza con la quale, premesso che la definizione agevolata presentata dalla contribuente per l’anno 2006 risulta regolare, ha chiesto dichiararsi l’estinzione parziale del giudizio limitatamente a tale anno d’imposta e fissarsi l’udienza per la discussione in ordine agli altri anni d’imposta non oggetto di definizione agevolata.
In prossimità dell’adunanza camerate la contribuente ha depositato memoria ex art. 380 bis.1. c.p.c.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo del ricorso principale la contribuente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 48 del Trattato UE e dell’art. 21, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per avere la C.T.R. considerato la società estero-vestita e residente in Italia agli effetti fiscali.
Deduce che la motivazione della decisione impugnata contrasta palesemente con il principio di “libertà di stabilimento” di cui agli artt. 43 e 48 del Trattato UE – come interpretato dalla sentenza Cadbury-Schweppes della Corte di Giustizia, che ha riconosciuto la libertà di dislocare strutture societarie o attività economiche nel territorio dell’Unione Europea, anche se all’esclusivo scopo di assicurare alla ricchezza ivi emersa un minor carico fiscale, all’unica condizione che non si tratti di “costruzioni di puro artificio” – e non si pone in linea con i principi enunciati da questa Corte con la sentenza n. 2869 del 2013, la quale ha precisato che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi sia stato o meno, ossia se l’operazione sia meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.
La decisione dei giudici di secondo grado, aggiunge la ricorrente, avrebbe quindi dovuto incentrarsi su altro punto, ossia verificare se la società fosse o meno “una costruzione di puro artificio”, tenendo conto che al fine di evitare tale configurazione non viene richiesto che la società localizzata in altro Stato membro eserciti una attività “industriale o commerciale”, essendo sufficiente una attività “economica effettiva”.
A tale riguardo evidenzia che una società che si limita a gestire partecipazioni societarie, la tesoreria di gruppo, nonchè marchi e brevetti, in Italia svolgerebbe sicuramente una attività economica effettiva, seppure non dotata di una struttura, di mezzi e di personale, e che non può di conseguenza ipotizzarsi che non sia effettiva la medesima attività solo perchè svolta in un altro Stato membro, poichè siffatta interpretazione non potrebbe che essere considerata “discriminatoria” alla stregua del diritto comunitario per violazione del comma 2 dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Sottolinea pure che dalla lettura del paragrafo 71 della sentenza Cadbury-Schweppes si evince che la Corte di Giustizia sancisce la possibilità per le autorità nazionali di ottenere informazioni sulla società estera attraverso il ricorso a “meccanismi di collaborazione e di scambio d’informazioni tra amministrazioni fiscali nazionali”, che, nel caso di specie, non sono stati attivati; peraltro, al fine di comprovare l’infondatezza della tesi posta a fondamento del p.v.c., aveva prodotto attestazione dell’autorità fiscale lussemburghese dalla quale emergeva che la N. Finance S.A. risiedeva in Lussemburgo, ai sensi dell’art. 4 della Convenzione contro le doppie imposizioni del 3 giugno 1981 stipulata tra l’Italia ed il Lussemburgo, aveva sede effettiva in Lussemburgo ed era soggetta all’imposta sui redditi delle persone giuridiche. Nonostante fossero state rappresentate all’Agenzia delle entrate tali circostanze, neppure le erano stati forniti i chiarimenti per attivare la “procedura amichevole” di cui all’art. 26 della Convenzione ed evitare la doppia imposizione.
Fa altresì rilevare che sul tema degli indici per determinare quando una struttura societaria possa essere considerata di “puro artificio” deve farsi riferimento alla Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea dell’8 giugno 2010, relativa alla disciplina delle S.E.C. (Società estere controllate), alla luce della quale la verifica del presupposto costituito dallo svolgimento di una “effettiva e genuina” attività economica deve innanzitutto consistere nell’accertare se un’attività, svolta in Italia con le medesime modalità con le quali viene svolta in altro Paese membro, configuri o meno una attività economica, oltre che ai principi enunciati dalla sentenza n. 43809 del 2015, pronunciata dalla terza Sezione penale della Corte di Cassazione, che ha escluso che la Gado s.a.r.l., società lussemburghese che aveva acquistato i marchi degli stilisti Dolce e Gabbana, fosse una società estero-vestita.
Assume, quindi, che, svolgendo una attività economica, non costituisce una “costruzione di puro artificio”, e ciò sia facendo riferimento al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 162, sia sulla base dell’art. 5, paragrafo 4, della Convenzione Italia-Lussemburgo contro le doppie imposizioni, traendo origine entrambe le norme dall’art. 5, paragrafo 5, del Modello Ocse di Convenzione contro le doppie imposizioni.
Nel corso del giudizio di merito aveva documentalmente provato che i contratti di licenza relativi all’attività di “gestione” dei marchi e dei brevetti erano stati stipulati in Lussemburgo dagli amministratori lussemburghesi ed aveva prodotto tutta la documentazione relativa ai contratti di finanziamento stipulati con le altre società del Gruppo N..
2. Con il secondo motivo, deducendo omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), lamenta che i giudici d’appello avrebbero trascurato di esaminare le prove offerte volte a dimostrare l’attività svolta in Lussemburgo, non avendo fatto alcun riferimento ai documenti relativi alla registrazione di marchi e brevetti, ai contratti di licenza relativi all’attività di gestione dei marchi e dei brevetti e ai contratti di finanziamento stipulati con le altre società del Gruppo N..
La C.T.R., secondo la prospettazione della ricorrente, avrebbe recepito gli indizi addotti dall’Agenzia delle entrate, pur essendo stato dimostrato che la società era amministrata in Lussemburgo e non considerando che ricevere direttive dalla controllante costituiva fatto del tutto naturale.
3. Con il terzo motivo, denunciando nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e dell’art. 161 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, censura la sentenza impugnata per contraddittorietà della motivazione.
Nel corso del giudizio aveva esposto che, essendosi in presenza di un gruppo di società, l’esistenza di rapporti intercorrenti tra la N. Finance S.A. e la holding italiana N. s.p.a. era del tutto naturale, come pure che quest’ultima ed i suoi amministratori svolgessero una attività di direzione e di coordinamento delle società del gruppo, in conformità a quanto previsto dall’art. 2497 c.c., ma i giudici regionali, in modo contraddittorio, avevano ritenuto che il richiamo alla disciplina contenuta negli artt. 2497 c.c. e ss. non fosse pertinente, perchè la N. Finance S.A. non era controllante, ma società controllata.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. per vizio di ultrapetizione, avendo la C.T.R. considerato la contribuente come società avente stabile organizzazione in Italia, sebbene il tema della “stabile organizzazione” non avesse mai fatto ingresso nel giudizio.
5. Con il quinto motivo deduce nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e dell’art. 161 c.p.c., per avere la C.T.R. omesso di pronunciarsi sul motivo, riproposto in appello, relativo all’illegittimità della pretesa erariale ai fini I.V.A.
6. Con il sesto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c. e dell’art. 21, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – censura la sentenza impugnata nella parte in cui è stata rigettata l’eccezione di inesistenza della notifica degli atti impositivi.
Premesso che a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, la notifica degli atti tributari ad un soggetto non residente doveva essere effettuata esclusivamente secondo le obbligatorie modalità nello stesso previste, che era applicabile lo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60-bis, e che in esecuzione alla Direttiva n. 2003/93/CE del 7 ottobre 2003, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e indirette, il legislatore aveva offerto la possibilità all’Amministrazione finanziaria di richiedere all’Autorità competente di un altro Stato membro l’assistenza per notificare atti e decisioni dei propri organi amministrativi, sostiene che gli avvisi di accertamento non possono ritenersi notificati alla N. Finance S.A. e che il vizio di inesistenza giuridica non può ritenersi sanato ai sensi dell’art. 156 c.p.c.
7. Con il settimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dello Statuto dei diritti del contribuente, art. 12, comma 7.
A seguito della notifica del processo verbale di constatazione aveva depositato una memoria contenente “osservazioni e richieste”, ma queste non erano state in alcun modo “valutate” dall’ente impositore prima di emettere l’avviso di accertamento; nella stessa memoria aveva anche inserito una specifica richiesta, manifestando la volontà di attivare la “procedura amichevole” prevista dall’art. 26 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Lussemburgo, ma la richiesta era rimasta inevasa.
Diversamente da quanto ritenuto dalla C.T.R, l’omissione di una specifica motivazione sulle osservazioni esposte dava luogo a nullità dell’atto impositivo, pena la violazione dei principi costituzionali del contraddittorio e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, nonchè del diritto di difesa.
8. Con l’ottavo motivo deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, commi 1 e 2, per non avere i giudici di appello dichiarato non irrogabili le sanzioni per assenza di colpa, posto che non si discuteva di colpa grave e che l’assenza di colpa era stata affermata dal Giudice per le indagini preliminari di Mantova che aveva disposto l’archiviazione del procedimento penale a carico del legale rappresentante della società.
9. Con il nono motivo denuncia violazione e falsa applicazione dello Statuto dei diritti del contribuente, art. 10, comma 3, per non avere il giudice d’appello dichiarato non irrogabili le sanzioni per obiettive condizioni di incertezza delle norme, pur sussistendo sul tema dell’esterovestizione orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
10. Con il primo motivo del ricorso incidentale la difesa erariale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, introdotto dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 24; del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 2, comma 3, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3 (nel testo vigente fino al 2 settembre 2015), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si duole che la C.T.R., accogliendo l’eccezione sollevata dalla contribuente, abbia affermato la decadenza dell’Ufficio dal potere accertativo con riguardo all’anno d’imposta 2006.
11. Con il secondo motivo del ricorso incidentale censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per il caso in cui si dovesse ritenere che la C.T.R., con autonoma ratio decidendi, abbia ritenuto tardiva la denuncia dei fatti penalmente rilevanti da parte dell’Ufficio, facendo rilevare che il cd. raddoppio dei termini di decadenza dall’accertamento opera a prescindere dal momento in cui la denuncia penale è stata presentata, trattandosi, nel caso di specie, di atti impositivi notificati prima del 2 settembre 2015 e, come tali, assoggettati alla disciplina prevista dal D.L. n. 223 del 2006.
12. Con il controricorso al ricorso incidentale la contribuente – dopo avere ribadito di avere eccepito sia in primo che in secondo grado, per il solo anno d’imposta 2006, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e l’impossibilità di applicare il raddoppio dei termini all’Irap – nel resistere ai motivi formulati dall’Agenzia delle entrate, ha eccepito che sul capo della sentenza impugnata che afferma l’inapplicabilità del cd. raddoppio dei termini agli effetti dell’Irap si è ormai formato il giudicato, poichè l’Agenzia delle entrate non ha proposto sul punto un motivo specifico di impugnazione; con la conseguenza che l’avviso di accertamento per il periodo d’imposta 2006, nella parte relativa all’Irap, deve ritenersi nullo per intervenuta decadenza dal potere accertativo. Rilevando, inoltre, che l’Agenzia delle entrate con il ricorso incidentale ha impugnato il solo capo della sentenza che aveva accolto l’appello incidentale per il periodo d’imposta 2006, ma non ha riproposto i motivi di merito, reiterati in appello, che i giudici di secondo grado non avevano esaminato in conseguenza della intervenuta decadenza dei termini di accertamento, ha dichiarato di voler proporre ricorso incidentale condizionato – per l’ipotesi in cui questa Corte non ritenesse l’esame del merito ormai precluso per effetto della mancata riproposizione dei relativi motivi da parte dell’Agenzia delle entrate – anche con riguardo all’anno 2006, affidato ai medesimi motivi già formulati con il ricorso principale in relazione agli anni d’imposta 2007 e 2008.
13. Come emerge dalla comunicazione di regolarità depositata dall’Agenzia delle entrate successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione, la N. Finance S.A. ha formulato tempestiva domanda di definizione agevolata della controversia, ai sensi del D.L. n. 119 del 2018, art. 6, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 136 del 2018, relativamente all’avviso di accertamento n. T9T030301057-2012, afferente l’anno d’imposta 2006, provvedendo al pagamento di quanto dovuto ai fini del perfezionamento della definizione.
In conformità alla richiesta di estinzione parziale del giudizio per cessazione della materia del contendere avanzata dall’Agenzia delle entrate, non residuano ragioni per non realizzare immediatamente la ratio legislativa che nella specie è quella di pervenire all’estinzione del processo pendente, risultando perfezionata la fattispecie estintiva delineata dalla citata norma limitatamente all’anno d’imposta 2006.
Il processo va, pertanto, dichiarato estinto limitatamente all’anno 2006 e va dichiarata cessata la materia del contendere, con conseguente inammissibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, del ricorso incidentale spiegato dall’Agenzia delle entrate, con il quale si formulano doglianze che attengono all’avviso di accertamento relativo a tale anno d’imposta.
14. Il sesto motivo, che deve essere scrutinato preliminarmente, è infondato.
14.1. Per la notifica di un atto impositivo nei confronti di soggetto non residente si deve avere riguardo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 – il quale prevede che, in alternativa a quanto stabilito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 142, se il contribuente non ha residenza in Italia, non vi ha eletto domicilio e non vi ha costituito un rappresentante fiscale, la notifica può essere validamente effettuata, in caso di società, mediante spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo della sede legale estera risultante dal registro delle imprese di cui all’art. 2188 c.c. – oppure allo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60-bis, in base al quale l’Amministrazione finanziaria italiana può chiedere all’autorità competente di un altro Stato membro di notificare al destinatario, secondo le norme sulla notificazione dei corrispondenti atti vigenti nello Stato membro interpellato, tutti gli atti e le decisioni degli organi amministrativi dello Stato relativi all’applicazione della legislazione interna sulle imposte indicate nell’art. 2 della Direttiva relativa alla cooperazione amministrativa in campo fiscale n. 2011/16/UE del 15 febbraio 2011 del Consiglio, che ha abrogato la direttiva 77/99/CEE del 19 dicembre 1977.
14.2. Nel caso di specie è pacifico che la notifica degli atti impositivi non è stata effettuata ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 60 o 60-bis, nè ai sensi dell’art. 142 c.p.c., ma ciò non toglie che, in ragione della astratta tipologia del vizio del procedimento di notifica qui prospettato, da annoverarsi nel genere della nullità, debba trovare applicazione la disciplina di sanatoria prevista dall’art. 156 c.p.c. in esito al raggiungimento dello scopo.
L’applicabilità di detta norma anche alla notifica dell’avviso di accertamento è stata sancita da Cass. sez. U, 5/10/2004, n. 19854, secondo cui “La natura sostanziale e non processuale (nè assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento” (in senso conforme, Cass., sez. 6-5, 13/07/2015, n. 14536).
14.3. Va, invece, esclusa l’inesistenza giuridica della notificazione degli atti impositivi, posto che, secondo l’orientamento di questa Corte, essa è ravvisabile nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità (Cass., sez. U, 20/07/2016, n. 14917).
14.4. D’altro canto, con riferimento alla dedotta violazione di legge, è il caso di richiamare il costante orientamento della Corte secondo cui “In tema di atti d’imposizione tributaria, la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento, ma una condizione integrativa d’efficacia, sicchè la sua inesistenza o invalidità non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocamente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere all’Amministrazione finanziaria, su cui grava il relativo onere probatorio” (Cass., sez. 5, 24/08/2018, n. 21071; in senso conforme, Cass., sez. 5, 24/04/2015, n. 8374).
Ciò comporta che “La notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicchè il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l’atto abbia raggiunto lo scopo” (Cass., sez. 15/01/2014, n. 654) 14.5. Considerato che, nel caso di specie, non è contestato che la contribuente abbia tempestivamente impugnato gli avvisi di accertamento ed abbia, così, potuto svolgere compiutamente le proprie difese in giudizio, e non risultando che medio tempore fosse maturata la decadenza a carico dell’Amministrazione finanziaria, appare chiaro che la C.T.R. non è incorsa nel denunciato errore di diritto laddove ha ritenuto che l’asserito vizio di notifica sia rimasto, comunque, sanato, a norma dell’art. 156 c.p.c., per effetto del raggiungimento dello scopo, desumibile proprio dalla tempestiva impugnazione (Cass., sez. 5, 21/9/2016, n. 18480; Cass., sez. 5, 28/11/2018, n. 30794).
A tale proposito, peraltro, occorre ricordare che la Corte ha più volte affermato che l’invalida notifica dell’avviso di accertamento è sanata per raggiungimento dello scopo, ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui lo stesso, in sede di ricorso giurisdizionale contro l’atto, ne abbia, come nel caso di specie, diffusamente contestato il contenuto (Cass., sez. 5, 27/07/2018, n. 19974; Cass., sez. 5, 9/05/2018, n. 11043).
15. Anche il settimo motivo va respinto.
15.1. Questa Corte ha avuto modo di precisare (Cass., sez. 5, 24/02/2016, n. 3583; conf. Cass., sez. 5, 14/10/2016, n. 20781; Cass., sez. 5, 27/07/2016, n. 15616; Cass., sez. 6-5, 31/03/2017, n. 8378), in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, che “è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni presentate dal contribuente ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, atteso che la nullità consegue solo alle irregolarità per cui essa sia espressamente prevista dalla legge, oppure, in difetto di previsione, allorchè ricorra una lesione di specifici diritti o garanzie tali da impedire la produzione di effetti da parte dell’atto cui ineriscono”.
Invero, all’obbligo dell’amministrazione finanziaria di “valutare” le osservazioni del contribuente (cui l’imposizione del termine dilatorio, a pena di nullità, è strumentale) non si aggiunge l’ulteriore obbligo di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo, a pena di nullità.
Peraltro, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 18184 del 2013, nell’affermare l’invalidità dell’atto impositivo, non rispettoso del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, salvi i casi di motivata urgenza, hanno precisato che la “sanzione” della invalidità dell’atto conclusivo del procedimento, pur non espressamente prevista, deriva ineludibilmente dal sistema ordinamentale, comunitario e nazionale, nel quale la norma opera e, in particolare, dal rilievo che il vizio del procedimento si traduce in una divergenza dal modello normativo di particolare gravità, in considerazione della rilevanza della funzione, di diretta derivazione da principi costituzionali.
Nella specie, si discute soltanto della mancata esplicitazione nella motivazione dell’atto impositivo della valutazione delle osservazioni e richieste del contribuente, con la conseguenza che non è configurabile il vizio dedotto.
16. Il primo, il secondo ed il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi, sono infondati.
16.1. L’esterovestizione societaria, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass., sez. 5, 7/02/2013, n. 2869; Cass., sez. 5, 21/12/2018, n. 33234; Cass., sez. 5, 21/06/2019, n. 16697), indica la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una persona giuridica all’estero, in particolare in quei Paesi che offrono un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto a quello previsto a livello nazionale, ove il soggetto effettivamente opera, alio scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.
Si tratta, in sostanza, di una particolare espressione dell’abuso di diritto, il cui divieto è ormai pacificamente riconosciuto come principio generale anche nel diritto tributario Europeo e nel diritto dei singoli Stati membri (Cass., sez. U, 23/12/2008, n. 30055), attuata mediante tecniche complesse, al solo scopo di sottrarre a tassazione materia imponibile nel Paese di effettiva appartenenza, mediante la creazione di una realtà fittizia all’estero, raggirando il criterio della “worldwide taxation”, (ossia il criterio di tassazione dei redditi su base mondiale), a cui soggiacciono i soggetti residenti, i quali devono essere tassati per i redditi ovunque prodotti nel mondo.
16.2. Perchè, tuttavia, questo fenomeno risponda alla nozione di pratica abusiva occorre, da un lato, che esso abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale, precludendo la nascita del presupposto d’imposta nel territorio nazionale, e, dunque, sottraendosi fraudolentemente al pagamento delle imposte, e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (Corte di Giustizia 17 dicembre 2015, in C-419/14, WebMindLicenses Kft, punto 36).
Non è, pertanto, sufficiente applicare criteri generali predeterminati, dovendosi verificare di volta in volta la singola operazione, atteso che una presunzione generale di frode e di abuso non può giustificare nè un provvedimento fiscale che pregiudichi gli obiettivi di una direttiva, nè uno che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (Corte Giustizia, 7 settembre 2017, in C- 6/16, Equiom e Enka, punti 3032) Ciò comporta che è necessario accertare che lo scopo essenziale dell’artificiosa creazione di una fictio iuris sia proprio l’ottenimento di un vantaggio fiscale, perchè qualora il contribuente possa scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma ha, invece, il diritto di optare per quella forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale (Corte Giustizia, in C- 419/14, cit.; Corte di giustizia, in C-255/02, Halifax, punto 73; Part. Service, causa C-245/06, punto 47; Weald Leasing, causa C-103/09, punto 27; RBS Deutschland Holdings, causa C-277/09, punto 53; X BV e X NV, cause C- 398/16 e 399/16, punto 49).
16.3. Proprio con particolare riguardo al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, la sentenza della Corte di Giustizia del 12 settembre 2006, C- 196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, ha affermato, in tema di libertà di stabilimento, che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere la normativa dello Stato membro interessato.
L’obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio. La nozione di stabilimento implica, quindi, l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercè l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro: presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di una attività economica e reale. Ne consegue che, perchè sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.
In definitiva, quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in artificiosa realtà vi sia stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente fittizia (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.
16.4. Dal punto di vista normativo, trova applicazione il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 3 – poi divenuto, con la rinumerazione operata dal D.Lgs. n. 344 del 2003, art. 73, comma 3 – il quale stabilisce che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte dei periodi di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.
La disposizione normativa, pertanto, individua tre criteri, collegati da una “o” disgiuntiva e, quindi, tra loro alternativi; di conseguenza è sufficiente la sussistenza anche di uno soltanto di essi affinchè il soggetto passivo d’imposta possa essere considerato fiscalmente residente nel territorio dello Stato e, come tale, ivi assoggettato a tassazione, anche per i redditi prodotti aliunde.
Il primo criterio, di natura formale, è la sede legale, risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto, anche se tale criterio presenta evidenti limiti derivanti dalla circostanza che la sede legale può essere fittizia e non coincidere con quella effettiva.
Il secondo criterio, di natura sostanziale, è quello della sede dell’amministrazione, ossia il luogo in cui vengono assunte le decisioni di rilievo sotto il profilo imprenditoriale e strategico che investono l’impresa nel suo complesso; elemento individualizzante è il luogo da cui effettivamente provengono gli impulsi volitivi inerenti l’attività societaria, ossia il luogo in cui si esplicano la direzione ed il controllo di detta attività.
Il criterio dell’oggetto principale, anch’esso di natura sostanziale, indica il luogo in cui viene svolta l’attività essenziale perseguita per realizzare direttamente gli scopi sociali, con la conseguenza che, se l’attività viene svolta in parte in Italia ed in parte all’estero, l’Amministrazione finanziaria è tenuta ad individuare su quale territorio è localizzato il “core business”, ossia la principale attività commerciale o industriale realizzata.
Come precisato da Cass., sez. 5, 21 dicembre 2018, n. 33234, gli indici di natura sostanziale hanno chiara matrice civilistica, in quanto derivano dall’art. 2505 c.c., il quale, allo scopo di stabilire la disciplina applicabile a società costituite all’estero, prevedeva che “Le società costituite all’estero, le quali hanno nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione ovvero l’oggetto principale dell’impresa, sono soggette, anche per i requisiti di validità dell’atto costitutivo, a tutte le disposizioni della legge italiana”.
La norma è stata poi abrogata e sostituita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 25, che ne ha, peraltro, riprodotto i contenuti, stabilendo che “Si applica, tuttavia, la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti”.
16.5. Il Modello Ocse di Convenzione contro le doppie imposizioni, all’art. 5, disciplina il concetto di residenza secondo cui la “sede effettiva” delle società deve rinvenirsi nel “luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l’esercizio dell’impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove sì trattano gli affari e dove i diversi fattori dell’impresa vengono organizzati e coordinati per l’esplicazione e il raggiungimento dei fini sociali”.
La norma fornisce, quindi, indicazioni precise per la risoluzione di eventuali conflitti che possono insorgere tra i vari ordinamenti in materia di localizzazione della residenza, dando preminenza al concetto di “sede di direzione effettiva” della società, che deve essere intesa come il luogo in cui vengono assunte le decisioni chiave di gestione e amministrazione dell’impresa, necessarie per la conduzione dell’impresa; come il luogo dove le persone che esercitano le funzioni di maggior rilievo assumono ufficialmente le loro decisioni e come il luogo di determinazione delle strategie che dovranno essere adottate dall’ente nel suo insieme.
La sede effettiva si identifica, pertanto, nel cd. Piace of effective management (POEM) e la valutazione dei suddetti elementi deve essere sempre condotta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma.
Ai fini della contestazione della fittizietà della residenza estera assume, dunque, rilievo il luogo da cui partono gli impulsi decisionali, ovvero la sede effettiva dell’amministrazione, che deve essere individuata caso per caso.
16.6. Viene, poi, in rilievo la Convenzione tra l’Italia e il Lussemburgo intesa ad evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi ed evasioni fiscali, firmata il 3 giugno 1981 e ratificata con L. 14 agosto 1982, n. 747, che, all’art. 4, prevede, al comma 1, che l’espressione “residente di uno Stato contraente” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua residenza della sua costituzione e di ogni altro criterio di natura analoga…”; al successivo comma 3, come criterio sussidiario, stabilisce che, “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da persona fisica o da una società è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, le competenti Autorità degli Stati contraenti faranno del loro meglio per risolvere la questione di comune accordo e per determinare le modalità di applicazione della Convenzione nei confronti di tale persona”.
Le due discipline, quella interna e quella pattizia, sono sostanzialmente equivalenti, perchè la seconda rinvia, come criterio generale, alla legislazione interna e prevede, poi, come criterio sussidiario nel caso di accertata doppia residenza, che eventuali contrasti debbano essere risolti di comune accordo dagli Stati contraenti.
16.7. Dovendo la nozione di “sede dell’amministrazione” (qualificata come uno dei criteri alternativi indicati nel t.u.i.r., art. 73, comma 3,) considerarsi coincidente con quella civilistica di “sede effettiva”, intesa come il luogo ove hanno in concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, ossia il luogo deputato per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente, per la determinazione del luogo della sede effettiva dell’attività economica di una società, occorre prendere in considerazione un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Possono essere presi in esame anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie (Cass., sez. 5, n. 2869 del 2013, cit.; Corte di Giustizia del 28 giugno 2007, in causa C- 73/06, Planzer Luxembourg Sarl).
17. La necessità di una verifica della sussistenza del complesso di fattori sopra indicato trova piena conferma anche nella giurisprudenza penale di questa Corte, la quale, con specifico riferimento al vigente t.u.i.r., art. 73, comma 3, in fattispecie in cui ha ravvisato la sussistenza del fenomeno di esterovestizione della residenza fiscale, ha affermato che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinchè sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi (Cass. pen, sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012 – dep. 23/02/2012, Barretta, Rv. 25210201; Cass. pen, sez. 3, n. 32091 del 21/02/2013, Mazzeschi, Rv. 257043 -01; Cass. pen., sez. 3, n. 10098 del 16/03/2020, Pavesi).
Valorizzando quale parametro discretivo essenziale il luogo della effettiva amministrazione e gestione degli affari, questa Corte ha ulteriormente sottolineato questo dato (Cass. pen., sez. 3, n. 50151 del 13/07/2018, Rv. 274090 – 01), evidenziando come le società esterovestite non sono, per ciò soltanto, necessariamente prive della loro autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabili come “schermi”, ovvero enti artificiosamente costruiti, ben potendo rientrare nel comune fenomeno della esterovestizione sia forme societarie del tutto apparenti (cd. società schermo), come tali del tutto fittizie, sia altre forme comunque dotate di una propria autonomia giuridica e operativa. Si è, infatti, precisato come sia ben possibile che quando l’attività economica svolta da una impresa non residente è nascosta al fisco italiano, perchè la sede fissa degli affari, per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività, si trova allocata nel territorio dello Stato (secondo la definizione normativa data dal t.u.i.r., art. 162, comma 1), non si è al cospetto, per ciò solo, di una “società schermo”, ovvero artificiosamente creata, bensì di una “stabile organizzazione occulta” che si configura quando un’impresa estera, avendo una sede fissa di affari nel territorio italiano, effettua la sua attività mediante una organizzazione di persone e di mezzi, ma senza dichiarare i relativi proventi dalla stessa generati e ad essa direttamente imputabili. Laddove, invece, ove la persona giuridica estera sia “artificiosa”, ossia in concreto priva di autonomia, essa rappresenterà solo uno “schermo” attraverso il quale l’amministratore agisce come effettivo titolare (Cass. pen., sez. 3, n. 18311 del 6/03/2014, Cialini, in motivazione).
18. Tanto premesso in linea generale, la sentenza impugnata si è attenuta ai principi sopra esposti e si sottrae alle censure ad essa rivolte con i mezzi in esame.
Prendendo le mosse dalla considerazione che gli accertamenti si fondano su un unico presupposto costituito dalla funzione rivestita dalla società, la quale sarebbe destituita di causa economica, la C.T.R. ha evidenziato che tale assunto poggia su una pluralità di elementi, che sono rappresentati: a) dal controllo esercitato su di essa dalla N. s.p.a. che detiene il 99 per cento del capitale sociale; b) dalla mera gestione dei finanziamenti erogati alle società del gruppo e delle royalties maturate su marchi e brevetti; c) dalla carenza di addetti alle sue dipendenze e di una sede, risultando la N. Finance s.a. domiciliata presso una fiduciaria lussemburghese (Manaco); d) dalla carica di amministratori ricoperta da due soci di riferimento della società italiana ( N.G. e P.A.; e) dal fatto che la famiglia N. influenza le scelte della società lussemburghese; f) dalla circostanza che G.C., amministratore della N. s.p.a., sarebbe il “il dominus di tutte le scelte strategiche ed operative”; g) dalla veste meramente formale delle cariche ricoperte dagli amministratori lussemburghesi, che rimarrebbero all’oscuro delle scelte assunte in Italia (paragrafo 11 della sentenza impugnata).
18.1. Valorizzando i suddetti elementi, univoci e concordanti, offerti dall’Amministrazione finanziaria, tra i quali assumono particolare rilievo l’assenza di una sede effettiva e di addetti alle dipendenze della società, oltre che la composizione dell’organo amministrativo e la carenza di un autonomo centro decisionale diverso da quello della controllante, la C.T.R. è giunta alla conclusione della assimilazione del concetto di “sede dell’amministrazione”, indicato come uno dei criteri alternativi previsto dal t.u.i.r., art. 73, comma 3, a quello civilistico di “sede effettiva” della società, intendendo quest’ultima, in sostanziale conformità ai principi sopra enunciati, come il luogo in cui si svolge in concreto la direzione e la gestione dell’attività d’impresa e dal quale promanano le relative decisioni. Ha, quindi, ritenuto, all’esito della valutazione dei suddetti elementi, che risulta “arduo identificare una specifica funzione che la società lussemburghese debba svolgere, rispondente ad una causa economica, diversa da quella di conseguire un risparmio di imposta, escludendo così il carattere abusivo della delocalizzazione, intesa a pianificare la gestione fiscale del gruppo, al fine di conseguire indebiti risparmi di imposta”; ha, in tal modo, negato la configurabilità della residenza fiscale in Lussemburgo e considerato la contribuente come società avente stabile organizzazione in Italia, dove era fissata una sede fissa d’affari in cui veniva esercitata la sua attività effettiva, in base al t.u.i.r., art. 162, con tutte le conseguenze ai fini fiscali.
18.2. L’accertamento della creazione di una costruzione puramente artificiosa, priva di effettività economica e finalizzata esclusivamente ad eludere le imposte sugli utili generati da attività svolta sul territorio nazionale, impone di ritenere che la C.T.R. non abbia poggiato il proprio convincimento su “affermazioni inconciliabili”, che possano comportare nullità della sentenza, nè che abbia violato il principio di libertà di stabilimento o adottato una interpretazione discriminatoria nel trattamento fiscale in danno di società non residente rispetto a società residente, essendosi anzi attenuta alle raccomandazioni dettate dalla Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea dell’8 giugno 2010 sul coordinamento delle norme sulle società estere controllate (SEC), che, nel fornire al punto A) un elenco non esaustivo di indicatori che inducono a sospettare che gli utili siano stati artificialmente trasferiti a una SEC, comprende vari aspetti, tra i quali, alla lettera b), che “la costituzione non corrisponde essenzialmente ad una società reale intesa a svolgere attività economiche effettive”.
18.3. Quanto, poi, alla omessa considerazione dei documenti prodotti nel giudizio di merito, la doglianza, oltre ad essere carente in punto di autosufficienza, non avendo la parte riprodotto quanto meno i documenti più significativi al fine di consentire a questa Corte di valutarne la decisività, per come formulata, mira chiaramente ad una rivalutazione degli elementi probatori e documentali acquisiti in giudizio e, quindi, ad una rivisitazione dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, non consentita in sede di legittimità.
18.4. Peraltro, come correttamente rilevato dai giudici di merito, a supporto della tesi difensiva di parte ricorrente neppure soccorre la sentenza n. 43809 del 2015 della Terza Sezione penale di questa Corte, che ha escluso che la società Gado s.a.r.l., società lussemburghese che aveva acquistato i marchi degli stilisti Dolce e Gabbana, fosse una società estero-vestita. E ciò sia perchè nel processo penale non opera il regime presuntivo a cui si fa, invece, ricorso nel processo tributario, sia perchè, nel caso di specie, gli elementi presuntivi addotti dall’Amministrazione finanziaria conducono a ritenere che la società controllata estera fosse priva di sostanza economica, considerato che la N. Finance S.A. non era dotata nè di un ufficio in Lussemburgo, risultando domiciliata presso una fiduciaria, nè di personale alle sue dipendenze e, quindi, di una struttura organizzativa apprezzabile tramite la quale potesse svolgere attività effettiva diretta alla produzione ed allo scambio sul territorio dello Stato membro di stabilimento.
18.5. Quanto poi alla validità probatoria del certificato di residenza fiscale, prodotto dalla contribuente, la Corte di Giustizia UE, con riferimento alla materia della residenza fiscale, ai fini I.V.A., nella sentenza del 28 giugno 2007, causa C-73/06 PLanzer Luxembourg Sarl c/ Bundeszentralamt fur Steuern, ha affermato che le certificazioni relative alla residenza fiscale permettono di presumere che l’interessato sia non soltanto soggetto passivo di IVA nello Stato membro di rilascio, ma anche che vi risieda, disponendo ivi o della sede della sua attività economica o di un centro di attività stabile a partire dal quale sono svolte le operazioni, per cui l’Amministrazione finanziaria è, in linea di principio, vincolata alle indicazioni riportate nella certificazione e, qualora nutra dubbi circa il contenuto dell’attestazione rilasciata, dovrà accertarsi della realtà ricorrendo alle misure amministrative a tal fine previste dalla normativa comunitaria in materia di I.V.A., ossia dovrà coinvolgere la corrispondente Autorità estera mediante gli appositi strumenti dello scambio di informazioni.
Non può, tuttavia, non rilevarsi che la certificazione fiscale non è ex se esaustiva per il superamento della presunzione di fittizia localizzazione della residenza in uno Stato diverso dall’Italia, ma deve essere corroborata da ulteriori elementi di prova – anche fattuali – idonei a dimostrare l’effettiva sede dell’amministrazione della società estera fuori dal territorio nazionale.
Nel caso di specie, la certificazione rilasciata dall’Autorità fiscale lussemburghese, che attesta che la ricorrente è una società residente in Lussemburgo ai sensi dell’art. 4 della Convenzione contro le doppie imposizioni del 3 giugno 1981 stipulata tra l’Italia ed il Lussemburgo, con sede di direzione effettiva in Lussemburgo ai sensi del paragrafo 3 dello stesso art. 4 della Convenzione e che è un contribuente soggetto all’imposta sui redditi delle persone giuridiche ai sensi della L. sull’imposta sui redditi 4 dicembre 1967, art. 159, paragrafo 1, in difetto di idonei elementi di riscontro comprovanti che la società avesse la sede effettiva al di fuori del territorio italiano e svolgesse in concreto effettiva attività economica in Lussemburgo, non può essere considerata da sola sufficiente a vincere gli univoci elementi fattuali e presuntivi offerti dall’Amministrazione finanziaria.
19. Dalle considerazioni svolte discende anche l’infondatezza del quarto motivo di ricorso.
Il riferimento contenuto in sentenza alla “stabile organizzazione” in Italia non costituisce questione estranea al thema decidendum, irritualmente introdotta dai giudici di appello, in quanto, al fine di accertare la natura artificiosa della società estera si può fare utile riferimento ai criteri indicati dal t.u.i.r., art. 162, tenuto conto che il p. 1 dell’art. 5 del modello OCSE definisce la stabile organizzazione come “una sede fissa di affari in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività”.
Nella fattispecie in esame, i giudici di appello, richiamando il t.u.i.r., art. 162, hanno in sostanza inteso evidenziare che la N. Finance S.A., società estera controllata dalla holding italiana N. s.p.a., aveva in Italia il suo centro di attività effettiva.
20. Il quinto motivo è pure infondato, anche se la motivazione della sentenza deve essere integrata nei termini che di seguito si precisano.
E’ ben vero che la C.T.R. ha omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame relativo all’illegittimità della pretesa erariale ai fini I.V.A., con il quale la contribuente aveva sostenuto che agli effetti degli obblighi I.V.A. erano del tutto estranee le tematiche relative alla residenza fiscale elaborate dalla prassi internazionale dei Paesi aderenti all’OCSE.
Questa Corte ha, tuttavia, avuto modo di osservare (cfr. Cass., sez. L, 1/03/2019, n. 6145; Cass., sez. U, 2/02/2017, n. 2731), che “Il ricorso per cassazione che denunci il vizio di motivazione della sentenza, perchè meramente apparente, in violazione dell’art. 132 c.p.c., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell’appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c.”. In tali casi la Corte può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito quando la questione di diritto posta risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza d’appello, sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (Cass., sez. 2, 1/02/2010, n. 2313).
Ciò è quanto va ravvisato nella fattispecie in esame in cui la doglianza della contribuente volta a sostenere la illegittimità della pretesa impositiva ai fini I.V.A., in questa sede oggetto del quinto motivo di ricorso come sopra riportato avverso la sentenza resa dalla C.T.R., risulta destituita di fondamento.
Va, infatti, osservato, che in ambito I.V.A. non esiste una previsione specifica sulla residenza dei soggetti passivi e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, prevede che tutte le attività imprenditoriali svolte in Italia sono assoggettate ad imposizione in Italia. Da ciò deriva che le operazioni che la società esterovestita ha posto in essere debbono essere ricondotte a cessioni o prestazioni nazionali soggette ad I.V.A., non potendo i principi sopra richiamati validi ai fini delle imposte dirette non valere anche ai fini delle imposte indirette, trattandosi di principi di natura generale applicabili in conseguenza della rilevata fittizietà della localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero che non consentono distinzioni in relazione alla tassazione delle diverse categorie reddituali.
21. Non merita accoglimento l’ottavo motivo di ricorso.
In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. E’ comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass., sez. 5, 30/01/2020, n. 2139; Cass., sez. 5, 15/05/2019, n. 12901; Cass., sez. 5, 13/09/2018, n. 22329).
22. Va parimenti rigettato il nono motivo di ricorso.
In tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, può ravvisarsi l’incertezza normativa obiettiva, che è causa di esenzione del contribuente da responsabilità, quando la disciplina da applicare si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso, per l’equivocità del loro contenuto, con conseguente insicurezza del risultato interpretativo ottenuto, riferibile non già ad un contribuente generico o professionalmente qualificato o all’Ufficio finanziario, bensì al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass., sez. 6 – 5, 24/02/2014, n. 4394).
La “incertezza normativa oggettiva tributaria” è, dunque, caratterizzata dall’impossibilità d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile, e va distinta dalla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto (il cui accertamento è demandato esclusivamente al giudice e non può essere operato dall’amministrazione), come emerge dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, che distingue le due figure, pur ricollegandovi i medesimi effetti. Peraltro, il fenomeno dell’incertezza normativa oggettiva può essere desunto dal giudice attraverso la rilevazione di una serie di “fatti indice”, quali ad esempio: 1) la difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) la mancanza di una prassi amministrativa o l’adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente (Cass., sez. 5, 17/05/2017, n. 12301; Cass., sez. 5, 13/06/2018, n. 15452; Cass., sez. 5, 1/02/2019, n. 3108; Cass., sez. 5, 12/04/2019, n. 10313).
Nella fattispecie la normativa applicabile fornisce elementi adeguati e sufficientemente chiari per la individuazione delle ipotesi riconducibili alla esterovestizione, per cui appare sussistente la sola incertezza derivata da condizioni soggettive della contribuente, mentre è da escludere l’errore dovuto ad interpretazione errata della normativa o alla diversa interpretazione dei fatti, unica condizione che potrebbe giustificare lo sgravio delle sanzioni.
23. Conclusivamente, va dichiarato estinto il giudizio limitatamente all’accertamento relativo all’anno d’imposta 2006 e cessata la materia del contendere e va dichiarata l’inammissibilità del ricorso incidentale dell’Agenzia delle entrate.
Ai sensi del D.L. n. 119 del 2018, art. 6, comma 13, ultimo periodo, le spese del processo estinto restano a carico della parte che le ha anticipate.
Il ricorso principale va, inoltre, rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara estinto per legge il giudizio di cassazione per il verificarsi della fattispecie di cui al D.L. n. 119 del 2018, art. 6, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 136 del 2018, limitatamente all’anno d’imposta 2006, e dichiara cessata la materia del contendere.
Dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate.
Rigetta il ricorso principale e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 13.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2021
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