Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.18275 del 25/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al NRG 6922/2016 proposto da:

A.M.R., rappresentata e difesa dall’Avvocato Dario Congedo;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA, rappresentata e difesa dall’Avvocato Daniele Montinaro, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Claudio Ferrazza, in Roma, via Crescenzio, n. 19;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Lecce n. 1001/2015 pubblicata il 10 dicembre 2015.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25 febbraio 2021 dal Consigliere Dott. Alberto Giusti.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con atto di citazione notificato in data 11 ottobre 2002, A.M.R. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Galatina, la Banca 121 s.p.a. (poi Monte dei Paschi di Siena Gestione Crediti Banca s.p.a., società del gruppo Monte dei Paschi di Siena), esponendo di avere contratto in data 20 novembre 1996, congiuntamente al coniuge F.R., un mutuo fondiario ipotecario con l’istituto bancario, per l’importo di Euro 30.987,41 (Lire 60.000.000), da restituirsi mediante 120 rate mensili di Euro 444,58 (Lire 860.825) cadauna, dal 20 dicembre 1996 al 20 novembre 2006, con una modalità di calcolo ed ammortamento delle rate, applicata dall’istituto, cosiddetta “alla francese”, di talchè ciascuna rata era comprensiva sia di una quota di capitale sia di una quota di interessi calcolata sul debito residuo con un tasso variabile, originariamente pattuito nella misura del 12%, modificabile dall’istituto in relazione alle variazioni del tasso ufficiale di sconto. Deduceva l’attrice di avere versato la somma di Euro 20.658,27 e che, con lettera di messa in mora in data 2 settembre 2002, la banca l’aveva invitata a provvedere al pagamento della somma di Euro 26.913,63, a titolo di restituzione del mutuo ipotecario concesso, somma così suddivisa: capitale residuo Euro 17.883,75; rate scadute e non pagate Euro 8.203,07 (capitale Euro 5.043,78 – interessi Euro 3.159,29); rateo interessi Euro 3,85; mora maturata Euro 822,98.

Tanto premesso, l’attrice domandava al Tribunale l’accertamento della natura ultralegale degli interessi dalla medesima corrisposti e di dichiarare la nullità della clausola che li prevedeva e della clausola contrattuale che attribuiva all’istituto il diritto di modificare il tasso di interesse in relazione alle variazioni del tasso ufficiale di sconto, condannando la banca convenuta alla restituzione delle somme dalla stessa indebitamente percepite.

Con successivo atto in data 24 ottobre 2002, la A. proponeva opposizione al precetto notificatole dallo stesso istituto bancario.

2. – Con sentenza n. 5/2013, depositata il 9 gennaio 2013, il Tribunale adito rigettava la domanda, determinando in Euro 31.701,90 la somma dovuta dalla A. alla banca, oltre interessi per legge fino al soddisfo.

3. – Con sentenza n. 1001/15, depositata il 10 dicembre 2015, la Corte d’appello di Lecce ha rigettato il gravame della A..

Esaminando la doglianza di omessa applicazione al caso di specie della disciplina di cui agli artt. 1469-bis c.c. e segg., in ordine allo ius variandi e scrutinando la censura dell’appellante secondo cui in assenza di doppia sottoscrizione, della mancanza di prova dell’accordo sulla clausola di ius variandi e tenuto conto della sua natura vessatoria, detta clausola doveva ritenersi nulla, nonostante fosse inserita in un atto notariale di mutuo; la Corte territoriale ha evidenziato che le argomentazioni dell’appellante non incidono sulla decisione in ordine alla presenza o meno di somme a debito che l’attrice deve pagare alla banca. Infatti – ha osservato la Corte d’appello – la questione della mancata sottoscrizione della clausola dello ius variandi rimane assorbita, nella motivazione del giudice di primo grado, dalla assenza di interessi passivi ultralegali se non nei limiti rilevati dal c.t.u..

La Corte di Lecce ha del pari ritenuto che non coglie nel segno il motivo di appello relativo all’omessa motivazione sul chiesto accertamento della pratica dell’anatocismo da parte della banca. Ciò in quanto il Tribunale ha recepito i calcoli e i conteggi operati dal c.t.u. e la consulenza, non specificamente contestata, ha rideterminato l’effettivo dare avere tra le parti, epurando le somme individuate in eccedenza perchè richieste dalla banca in applicazione di interessi passivi ultrale-gali. Dai prospetti allegati alla consulenza, in particolare, risulta che solo per cinque rate sono stati conteggiati interessi non dovuti.

4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, notificata il 21 gennaio 2016, la A. ha proposto ricorso, con atto notificato l’8 marzo 2016, sulla base di due motivi.

La Banca Monte dei Paschi di Siena ha resistito con controricorso. 5. – In prossimità della Camera di consiglio la controricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia omessa applicazione al caso di specie della disciplina di cui agli artt. 1469-bis c.c. e segg.. Attesa la natura vessatoria della clausola contenuta nel contratto di mutuo fondiario, attributiva, all’istituto di credito, del diritto di modificare arbitrariamente il tasso di interesse applicato, la ricorrente deduce che, sebbene inserita in un atto notarile di mutuo, la clausola postulava la necessità della doppia sottoscrizione.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Va premesso che la Corte salentina non ha affrontato il fondo della questione relativa alla mancata sottoscrizione della clausola dello ius variandi, avendola ritenuta assorbita.

Ha rilevato, nello specifico, la Corte del gravame che il consulente tecnico nominato in primo grado, e senza che sul punto sia stata sollevata specifica censura, ha appurato che lo ius variandi, nel caso di specie, è stato vincolato alle variazioni del tasso ufficiale di sconto secondo la data di decorrenza stabilita dall’autorità monetaria competente; che, inoltre, il tasso di interesse – originariamente stabilito per contratto al 12% annuo – si componeva di una parte variabile in funzione della variazione del tasso ufficiale di sconto e di una parte fissa, relativa allo spread praticato dalla banca, che è stato appurato essere sempre pari al 4,5%; che, avendo il c.t.u. accertato e ribadito in sede di chiarimenti che in totale le rate in cui il TAEG ha superato il tasso soglia di usura sono state solo cinque, la questione sulla vessatorietà della clausola sullo ius variandi resta assorbita.

1.3. – Tanto premesso, le ragioni di inammissibilità della censura sono plurime e convergenti.

Innanzitutto, la ricorrente si limita a postulare “la natura indubbiamente vessatoria della clausola contenuta nel contratto di mutuo fondiario ed attributiva, all’istituto di credito, del diritto di modificare… arbitrariamente il tasso di interesse applicato”, ma – in difetto di un accertamento, da parte della Corte d’appello, della natura vessatoria della clausola in questione – non contiene la specifica indicazione, richiesta dall’art. 366 c.p.c., n. 6, del contratto di mutuo che reca detta clausola.

E’ palese che, se potesse ammettersi la formulazione di censure fondate su atti o documenti non specificamente indicati, finirebbe per attribuirsi alla Corte il potere di riempire la censura di contenuto, assegnando al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle doglianze del ricorrente al fine di decidere successivamente su di esse: lettura del dato normativo, questa, inaccettabile, perchè sovverte i ruoli dei diversi soggetti del processo.

Indicare specificamente un atto o un documento significa, anzitutto, dire qual è il suo contenuto, senza di che il motivo non può che rimanere confinato nell’oscurità. Il rispetto della citata disposizione esige, ancora, che sia specificato in quale sede processuale nel corso delle fasi di merito il documento, pur eventualmente individuato in ricorso, risulti prodotto, dicendo dove, nel processo, è rintracciabile. Dire dove l’atto acquisito al processo è rintracciabile si traduce nella localizzazione dell’atto o del documento, ossia nella indicazione del fascicolo (di parte o di ufficio) in cui essi, atti o documenti, sono collocati (Cass., Sez. I, 10 dicembre 2020, n. 28184).

Nella specie il documento contrattuale contenente la clausola de qua non è localizzato.

1.4. – Altra ragione di inammissibilità risiede nel fatto che il motivo di ricorso non coglie la ratio decidendi, giacchè la Corte d’appello non ha affrontato nel merito la questione di diritto se la stipulazione del contratto recante la detta clausola per atto pubblico basti ad esonerare dall’osservanza della doppia sottoscrizione, ma ha statuito che la doglianza articolata dall’appellante “non assume rilevanza ai fini dell’accoglimento della censura”.

Il motivo non dialoga con la specifica affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, di irrilevanza della questione di diritto sollevata.

Al riguardo, va comunque richiamato l’indirizzo secondo cui le clausole inserite in un contratto stipulato per atto pubblico, ancorchè si conformino alle condizioni poste da uno dei contraenti, non possono considerarsi come “predisposte” dal contraente medesimo ai sensi dell’art. 1341 c.c. e, pertanto, pur se vessatorie, non necessitano di specifica approvazione (Cass., Sez. Un., 10 gennaio 1992, n. 193; Cass., Sez. I, 28 agosto 2004, n. 17289; Cass., Sez. II, 20 giugno 2017, n. 15237; Cass., Sez. VI-2, 16 luglio 2020, n. 15253).

1.5. – In ogni caso, la censura non considera che, in tema di contratti bancari conclusi con i consumatori, è vessatoria la clausola, contenuta nelle condizioni generali di contratto, che riconosce unilateralmente al professionista la facoltà di modificare le disposizioni economiche del rapporto contrattuale, anche in mancanza di un giustificato motivo, così come richiesto, in via generale, dall’art. 1469-bis, comma 5, n. 11, poi riprodotto del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 33, comma 2, lett. m), (Cass., Sez. I, 21 maggio 2008, n. 13051).

La ricorrente, nell’articolare la doglianza, non tiene specificamente conto:

che non ogni clausola prevedente lo ius variandi è vessatoria, ma solo quella che accorda al professionista tale potere di modifica unilaterale senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso;

che, ai sensi della disciplina ratione temporis applicabile, la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, nè all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purchè tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile (art. 1469-ter c.c.); che, rispetto ai rapporti di mutuo a tasso variabile, quale era appunto quello in essere tra le parti, la modifica dell’andamento dei tassi di interesse conseguenti all’oscillazione del parametro di riferimento rappresenta un fatto assolutamente fisiologico, e in un contratto a lungo termine, quale tipicamente è il mutuo, introduce sì un profilo di alea, la quale tuttavia è quella normale e immanente alla causa di questo tipo di operazione, ed è destinata a gravare, in maniera speculare, su entrambe le parti contraenti; che, al fine di rispettare l’obbligo di trasparenza di una clausola contrattuale che fissa un tasso d’interesse variabile nell’ambito di un contratto di mutuo ipotecario, tale clausola deve non solo essere intelligibile sui piani formale e grammaticale, ma consentire altresì che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, sia posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie; in tale prospettiva, costituiscono elementi particolarmente pertinenti ai fini della valutazione da effettuare al riguardo, da un lato, la circostanza che gli elementi principali relativi al calcolo di tale tasso siano facilmente accessibili a chiunque intenda stipulare un mutuo ipotecario, grazie alla pubblicazione del metodo di calcolo di detto tasso, nonchè, dall’altro, la comunicazione di informazioni sull’andamento, nel passato, dell’indice sulla base del quale è calcolato questo stesso tasso (Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza 3 marzo 2020, nella causa C125/18).

2. – Con il secondo motivo si deduce “omessa motivazione sul chiesto accertamento della pratica dell’anatocismo da parte dell’appellata”. La Corte d’appello – pur condividendo l’osservazione relativa alla necessità della doppia sottoscrizione della clausola relativa allo ius variandi – avrebbe errato nel ritenere la non incidenza del rilievo a causa della presenza di somme che la A. doveva pagare alla banca. La ricorrente contesta che la sola sussistenza di una posizione debitoria nei confronti dell’istituto sia di per sè presupposto sufficiente a sanare qualsivoglia irregolarità ed illegittimità in seno al rapporto contrattuale banca-cliente. Nel ricorso ci si duole inoltre del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto che, essendo state solo cinque le rate che hanno superato il tasso soglia di usura, la questione sulla vessatorietà della clausola dello ius variandi potesse rimanere assorbita nella censura, del tutto differente, inerente all’applicazione di interessi ultralegali ad opera dell’istituto di credito mutuante. La mancanza di una contestazione specifica, da parte della A., della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale non potrebbe finire per avvalorare l’operato della banca in ordine alla applicazione di interessi passivi ultralegali, tanto più alla luce del fatto che, con il secondo motivo di appello, era stata censurata l’omessa motivazione, da parte del Tribunale, sul chiesto accertamento della pratica dell’anatocismo. In definitiva, secondo la ricorrente, la Corte d’appello avrebbe, di fatto, omesso di pronunciare e di motivare sullo specifico motivo di gravame concernente la vessatorietà della clausola dello ius variandi.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Lo è, quanto alla censura sullo ius variandi, innanzitutto per la ragione esposta in sede di scrutinio del primo motivo, ossia per la mancata osservanza del principio di autosufficienza, sul versante della localizzazione del contratto che reca la clausola de qua, e per il difetto di specificità della censura.

2.3. – Quanto, poi, alla omessa motivazione sul chiesto accertamento della pratica dell’anatocismo da parte della banca, occorre premettere che la Corte d’appello, nell’esaminare il secondo motivo di gravame (con cui ci si doleva della avvenuta applicazione da parte della banca di interessi pari a Euro 822,98 sulle rate del mutuo scadute e non pagate per complessivi Euro 8.2034,07, già comprensivi di capitale ed interessi), ha rilevato:

– che la censura non coglie nel segno, perchè il Tribunale ha recepito i calcoli e i conteggi operati dal c.t.u., al quale era stato richiesto proprio di individuare la applicazione di interessi passivi ultralegali;

– che la consulenza, non specificamente contestata, ha rideterminato l’effettivo dare avere tra le parti, epurando le somme individuate in eccedenza perchè richieste dalla banca in applicazione di interessi passivi ultralegali;

– che dai prospetti allegati alla consulenza risulta che solo per cinque rate sono stati conteggiati interessi non dovuti (rata 29, 37, 38, 40 e 43);

– che il perito ha determinato l’importo delle somme dovute dalla banca alla attrice in Euro 1.291,12 in totale (pag. 26 del supplemento c.t.u.);

– che l’importo correttamente indicato in sentenza di Euro 31.701,90, come dovuto dalla A., si ricava dalla sottrazione tra il totale delle somme dovute alla banca (Euro 33.327,44) e il saldo delle somme dovute dalla banca alla attrice e quantificate in Euro 1625,54;

– che nell’importo di Euro 1625,54 non è compresa solo la somma degli interessi ultralegali delle 5 rate (Euro 1.291,12), ma anche l’ulteriore somma di Euro 334,42 (v. pag. 53 e pag. 56 supplemento c.t.u.) a titolo di interessi di mora fuori soglia sulle 12 rate pagate in ritardo;

che si tratta del c.d. anatocismo secondario: considerato che la rata di mutuo “alla francese” comprendeva una quota di capitale e una quota parte di interessi corrispettivi, la banca, calcolando l’interesse di mora sull’intero importo, finiva per applicare l’anatocismo sulla quota di rata relativa agli interessi;

che tale aspetto, seppure non esplicitamente richiamato nella parte motiva della sentenza, è stato considerato dal c.t.u. ed è stato recepito dal Tribunale, laddove ha tenuto conto anche della somma pagata a titolo di interessi di mora fuori soglia, sicchè la doglianza in ordine all’eventuale difetto di motivazione sul punto è irrilevante ai fini della decisione;

che correttamente nel calcolo delle somme dovute dalla appellante sono state escluse anche quelle a titolo di anatocismo secondario, e ciò in applicazione del principio (enunciato da Cass., Sez. I, 22 maggio 2014, n. 11400) secondo cui nei mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità di adempimento di due obbligazioni poste a carico del mutuatario – aventi ad oggetto l’una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l’altra la corresponsione degli interessi per il suo godimento – che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse; di conseguenza, il fatto che nella rata esse concorrano, allo scopo di consentire all’obbligato di adempiervi in via differita nel tempo, non è sufficiente a mutarne la natura nè ad eliminarne l’autonomia; in forza delle limitazioni previste dall’art. 1283 c.c., la banca non può pretendere il pagamento degli interessi moratori sul credito scaduto per interessi corrispettivi.

La ricorrente censura che la Corte d’appello abbia ritenuto che il motivo di gravame non potesse trovare accoglimento poichè il giudice di primo grado, in ordine all’accertamento della pratica di anatocismo da parte dell’odierna resistente, ha recepito i calcoli ed i conteggi eseguiti dal consulente tecnico investito della questione durante il giudizio innanzi al Tribunale, e ritiene che tale grave mancanza vizi “irrimediabilmente la sentenza emessa dal Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Galatiba (LE) -, considerato che, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la sentenza deve contenere la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto che hanno portato alla decisione e, in particolare, dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche agli stesse sottese”.

Sennonchè, così formulato, il motivo si rivolge, inammissibilmente, contro la sentenza di primo grado, anzichè nei confronti della impugnata sentenza della Corte di appello.

In ogni caso, anche a ritenerla indirizzata contro la sentenza di appello, la censura non coglie la ratio decidendi, e quindi è anche sotto questo profilo inammissibile. Infatti, il giudice del gravame – ben lungi dall’incorrere nel difetto di motivazione per “la radicale inidoneità della stessa ad esprimere le ragioni della decisione” (così il ricorso, nelle ultime due righe della terzultima pagina) – ha esplicitato il ragionamento seguito dal Tribunale: sottolineando che il primo giudice, recependo i calcoli ed i conteggi operati dal c.t.u., ha epurato le somme individuate in eccedenza perchè richieste dalla banca in applicazione di interessi passivi ultralegali, a titolo di anatocismo secondario; evidenziando che la banca aveva finito con l’applicare l’anatocismo sulla quota di rata relativa agli interessi; enunciando il principio che la banca non può pretendere il pagamento degli interessi moratori sul credito scaduto per interessi corrispettivi.

3. – Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Le spese processuali, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

4. – Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.200, di cui Euro 2.000 per compensi, oltre a spese generali nella misura del 15% e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 25 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2021

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