LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. PEPE Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6890/2014 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F.: *****), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F.: *****), presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi 12, è domiciliata;
– ricorrente –
Contro
R.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Massimo Libertini ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via C.
Pascarella n. 34;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 285/22/13 della Commissione tributaria Regionale del Lazio, depositata il 07/08/2013;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6/5/2021 dal Consigliere Dott. Stefano Pepe.
RITENUTO
Che:
1. La Commissione tributaria regionale (CTR) del Lazio, con sentenza n. 285/22/13, depositata il 07/08/2013, accoglieva l’appello di R.A. avverso la sentenza della CTP che aveva dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto dal contribuente, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 64 e dell’art. 396 c.p.c., relativo alla sentenza della CTP n. 211/10/2004; ricorso con il quale lamentava di non aver mai ricevuto l’avviso dell’udienza di trattazione e la comunicazione del dispositivo della sentenza di cui chiedeva la revoca.
2. Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
3. Il contribuente ha depositato controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo monito l’Agenzia delle entrate deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64 e degli artt. 395 e 396 c.p.c..
A parere della ricorrente la CTR sarebbe incorsa nel vizio denunciato laddove ha ritenuto sussistere nel caso di specie un’ipotesi di errore di fatto revocatorio sulla base di argomenti che avrebbero, al più, potuto consentire una impugnazione tardiva della sentenza passata in giudicato (previo accoglimento di istanza di rimessione in termini) e non una revocazione. Alla luce di tali premesse l’Amministrazione ritiene che la presunta mancata notifica dell’avviso di fissazione di udienza e, successivamente, del deposito della sentenza lamentati dal contribuente non potevano essere fatti valere con la revocazione.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, nonchè degli artt. 324 e 327 c.p.c..
L’Agenzia dell’entrate – dopo aver rilevato che nel caso di specie non poteva ricorrere in capo al contribuente la condizione di ignoranza circa la pendenza del giudizio tributario, la cui sentenza era oggetto di revocazione, in quanto lo stesso contribuente aveva proposto l’originario ricorso – osserva che in ragione di ciò era decorso il termine lungo per impugnare e, pertanto, era avvenuto il passaggio in giudicato della sentenza oggetto di revocazione. A sostegno di tali conclusioni la ricorrente riporta il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità rispetto al quale la isolata sentenza riportata dalla CTR (Cass. n. 6048 del 2013), che individua il dies a quo di decorrenza del termine per impugnare dal momento di effettiva conoscenza della sentenza, risulta superata. 3 Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 67 e dell’art. 112 c.p.c..
Con tale motivo l’Agenzia delle entrate censura la sentenza della CTR nella parte in cui, nell’affermare la sussistenza di una ipotesi di revocazione, non ha affrontato il merito della causa, così incorrendo nel vizio di omessa pronuncia.
4. I motivi, da trattarsi congiuntamente stante la loro intima connessione, sono fondati.
Va, preliminarmente, rilevato che i primi due motivi devono essere riqualificati secondo il paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in applicazione del principio di diritto ai sensi del quale “L’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato” (Cass. n. 26310 del 07/11/2017 Rv. 646419 – 01).
4.1 Nel merito, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, nel testo vigente ratione temporis prevedeva che “1. Contro le sentenze delle commissioni tributarie che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate è ammessa la revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c.. 2. Le sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello possono essere impugnate per i motivi di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 6, purchè la scoperta del dolo o della falsità dichiarata o il recupero del documento o il passaggio in giudicato della sentenza di cui all’art. 395 c.p.c., n. 6, siano posteriori alla scadenza del termine suddetto. 3. Se i fatti menzionati nel comma precedente avvengono durante il termine per l’appello il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da raggiungere i sessanta giorni da esso”.
L’art. 395 c.p.c. dispone che “Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1. se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra; 2. se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; 3. se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario; 4. se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; 5. se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; 6. se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato”.
Il successivo art. 396 c.p.c., disciplina i casi di revocazione straordinaria, cioè delle sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello e, in particolare, prevede che “Le sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello possono essere impugnate per revocazione nei casi dell’articolo precedente, nn. 1, 2, 3 e 6, purchè la scoperta del dolo o della falsità o il ricupero dei documenti o la pronuncia della sentenza di cui al n. 6 siano avvenuti dopo la scadenza del termine suddetto. Se i fatti menzionati nel comma precedente avvengono durante il corso del termine per l’appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da raggiungere i trenta giorni da esso”.
4.2 Dal riportato quadro normativo è dunque possibile distinguere tra revocazione “ordinaria”, quando l’impugnazione concerne una sentenza non ancora passata in giudicato, e revocazione “straordinaria”, quando, invece, inerisce ad una sentenza passata in giudicato.
Con riferimento alla revocazione ordinaria, l’impugnazione attiene aspetti immediatamente rilevabili dalla lettura della sentenza (c.d. “motivi palesi”) ed in tal caso non è giustificato ammettere che tale strumento prevalga sulla definitività del giudicato, configurandosi la revocazione come una mera fase di un processo ancora pendente. I motivi, tassativi, di revocazione ordinaria sono, quelli riconducibili al c.d. “errore di fatto” (ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4), nell’ipotesi in cui la sentenza revocanda rappresenti, appunto, la conseguenza di un errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti di causa. L’altro motivo di revocazione ordinaria è rappresentato dalla contrarietà ad un precedente giudicato intervenuto tra le medesime parti processuali (art. 395 c.p.c., comma 1, n. 5). La revocazione è, cioè, proponibile nei confronti di una sentenza che sia contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata purchè il Giudice della sentenza revocanda non abbia pronunciato sulla relativa eccezione.
La revocazione c.d. “straordinaria”, al contrario, si incentra su motivi non immediatamente rilevabili dalla sentenza e, pertanto, giustifica la possibilità di far rilevare tali vizi anche oltre il passaggio in giudicato della sentenza.
I motivi di revocazione straordinaria, proposti ai sensi e per gli effetti dell’art. 396 c.p.c. anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, sono quelli previsti dall’art. 395 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3, e 6, ovvero: 1) dolo della parte; 2) falsità della prova; 3) rinvenimento di documenti decisivi; 6) dolo del Giudice.
4.3 Nel caso di specie la CTR ha erroneamente, da un lato, sussunto nella previsione di cui all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, il dedotto vizio revocatorio consistente nella presunta errata/mancata notifica dell’avviso della data di trattazione della causa e del dispositivo della conseguenziale sentenza e, dall’altro, ritenuto esso efficace anche nei confronti di sentenza coperta da giudicato.
4.4 Deve, infatti, affermarsi che la censura afferente al presunto vizio di notifica dell’udienza di trattazione e del dispositivo di sentenza non è qualificabile come errore di fatto ascrivibile al n. 4) dell’art. 395 c.p.c., in quanto costituente motivo di diritto che, come tale andava proposto nei termini di cui all’art. 327 c.p.c. laddove “In tema di processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, comma 1, (“ratione temporis” vigente) ha la sola finalità di stabilire in quali casi è consentita la proposizione del ricorso per revocazione, ma non ha la funzione di definirne i termini di decadenza, essendo tale profilo disciplinato dall’art. 327 c.p.c., comma 1, applicabile in forza del cit. D.Lgs., art. 38, comma 3, e art. 49" (Cass., n. 28536 del 06/11/2019 Rv. 655729 – 01). Sul punto va, infatti, osservato che l’errore di fatto che può dar luogo alla revocazione della sentenza ben può cadere sul contenuto degli atti processuali oggetto di cognizione del giudice, l’omesso rilievo di un vizio concernente la ritualità della notificazione dell’avviso di fissazione di udienza e di avvenuto deposito della sentenza non configura un errore di fatto, cioè un errore di natura meramente percettiva, una svista materiale, bensì, in ipotesi, un errore di diritto, da far valere con gli ordinari mezzi d’impugnazione.
Escluso nei termini sopra indicati il rimedio della revocazione, con riferimento alla decorrenza dei termini di impugnazione e, dunque, alla formazione del giudicato, questa Corte con orientamento consolidato, al quale il Collegio intende dare continuità ha affermato (ex plurimis e da ultimo Cass. n. 9330 del 2017 Rv. 644708 – 01) che “Nel processo tributario l’ammissibilità dell’impugnazione tardiva, oltre il termine “lungo” dalla pubblicazione della sentenza, previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, presuppone che la parte dimostri “l’ignoranza del processo”, ossia di non averne avuto alcuna conoscenza per nullità della notificazione del ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza, situazione che non si ravvisa in capo al ricorrente costituto in giudizio, cui non può dirsi ignota la proposizione dell’azione, dovendosi ritenere tale interpretazione conforme ai principi costituzionali ed all’ordinamento comunitario, in quanto diretta a realizzare un equilibrato bilanciamento tra le esigenze del diritto di difesa ed il principio di certezza delle situazioni giuridiche. Nè assume rilievo l’omessa comunicazione della data di trattazione, che è deducibile quale motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 161 c.p.c., comma 1, in mancanza della quale la decisione assume valore definitivo in conseguenza del principio del giudicato”.
Alla luce dei suindicati principi va rilevato che nella fattispecie il contribuente era evidentemente a conoscenza del processo a cui lui stesso aveva dato impulso impugnando l’avviso di accertamento dell’Amministrazione finanziaria e, pertanto, nei suoi confronti non poteva operare l’impugnazione tardiva oltre il “termine lungo” ex art. 38 cit. e che, pertanto, la sentenza di cui, peraltro, lo stesso contribuente aveva chiesto la revocazione era coperta da giudicato; giudicato per i quali risultano assenti i presupposti per la revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4.
5. Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata e non essendo necessari ulteriori accertamenti in punto di fatto, la controversia può essere decisa nel merito dovendosi dichiarare l’inammissibilità dell’originario ricorso del contribuente.
6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
PQM
La Corte:
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile l’originario ricorso del contribuente;
Condanna parte soccombente al pagamento a favore dell’Agenzia delle entrate al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.000,00 oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 9, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il 6 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2021