Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.20269 del 15/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2649/2020 proposto da:

O.A., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA MONICA BASSAN;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI PADOVA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 2783/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/07/2019 R.G.N. 4321/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/03/2021 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI.

RILEVATO

Che:

1. con sentenza 3 luglio 2019, la Corte d’appello di Venezia rigettava, per manifesta infondatezza, l’appello di M.A., cittadina nigeriana, avverso l’ordinanza di primo grado, di reiezione delle sue domande di protezione internazionale e umanitaria;

2. essa riteneva l’inverosimiglianza del suo racconto, definito “frutto di fantasia”, per avere la richiedente “affastellato le circostanze più varie, peraltro risalenti all’anno 2012”: pressioni di individui non specificati di adesione ad una setta sul marito, la sua opposizione e il seguito di minacce, atti di violenza nei suoi confronti e contro l’officina dove lavorava, con il ferimento implausibile del titolare; “quindi, con netto salto logico”, minacce degli sconosciuti anche nei confronti suoi propri, senza alcuna spiegazione di ciò e poi l’aggressione subita in condizione di gravidanza, il ricovero in ospedale e la perdita del bambino e del lavoro, l’incendio della casa;

3. la Corte territoriale escludeva pertanto i requisiti delle misure di protezione internazionale richieste, anche tenuto conto dell’assenza di un’indiscriminata violenza rilevante a fini dell’esposizione a grave danno, in caso di rimpatrio, nella zona di provenienza della richiedente (Benin City, in Edo State, nella parte meridionale della Nigeria), sulla base delle fonti ufficiali aggiornate consultate (Easo, COI Report Nigeria Security, novembre 2018), nella ribadita “irrilevanza di situazioni… riguardanti le pratiche di culti locali”: neppure ai fini di concessione della protezione umanitaria, in assenza di “qualsiasi elemento anche a livello di allegazione idoneo a definire la presumibile durata di una esposizione a rischio”;

4. con atto notificato il 30 dicembre 2019, la straniera ricorreva per cassazione con tre motivi; il Ministero dell’Interno intimato non resisteva con controricorso, ma depositava atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, ult. alinea, cui non faceva seguito alcuna attività difensiva.

CONSIDERATO

Che:

1. la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., per omessa valutazione dell’estratto, ritualmente prodotto, di nascita della propria figlia avvenuta nel febbraio 2017 (come da dichiarazione a verbale di udienza 10 maggio 2017 del giudizio di primo grado), essendo ella in Italia con il marito, al fine di concessione della protezione umanitaria, in funzione della tutela del nucleo familiare, riconosciuto dagli artt. 29 e 30 Cost., artt. 8 e 12 CEDU e da altre norme internazionali richiamate, da riconoscere come diritto fondamentale indipendentemente dallo statuto di cittadinanza (Corte Cost. 28/1995, 203/1997), da valutare nella prospettiva della sua condizione di vulnerabilità e del vaglio comparativo tra la situazione di integrazione in Italia e nel Paese d’origine, sotto il profilo della tutela dei diritti umani fondamentali (primo motivo); nullità della sentenza per omessa motivazione, sulla propria condizione di vulnerabilità, “liquidata” con pochi accenti (“in sole quattro righe”) di assoluta genericità, in riferimento al non essere “vittima di tratta o di altra forma di grave sfruttamento”, senza avere ella mai fatto a ciò riferimento, neppure indiretto; in assenza invece di una valutazione delle dichiarazioni a verbale e del documento di nascita suindicati e neppure alla mancanza di legami familiari nel Paese d’origine, per essere “figlia unica e i suoi genitori… deceduti” (a pg. 37 dello scritto difensivo in appello in riferimento all’omessa valutazione del Tribunale) (secondo motivo); violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, per assenza di valutazione della situazione del proprio Paese d’origine, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, né approfondimento del fenomeno del cultismo, particolare diffuso e pervasivo del tessuto sociale e istituzionale nigeriano; neppure la polizia, pure interpellata dai due coniugi, essendo stata in grado di offrire protezione dalle sette, come esplicitamente dichiarato dalla richiedente (terzo motivo);

2. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono fondati;

3. occorre premettere la necessità, a fini di riconoscimento del permesso di soggiorno umanitario, di una valutazione comparativa dell’integrazione raggiunta in Italia con la situazione soggettiva ed oggettiva nella quale il richiedente verrebbe a trovarsi nel paese di origine ove fosse rimpatriato, con riguardo, in riferimento a quest’ultima, al rischio di lesione dei diritti fondamentali, dovendo il giudice del merito specificare in concreto l’esistenza o l’inesistenza di un rischio siffatto, dando conto di quali siano i diritti esposti a pericolo per effetto del rimpatrio (Cass. 10 settembre 2020, n. 18805);

3.1. la Corte territoriale si è al riguardo limitata a rilevare l’assenza di “qualsiasi elemento anche a livello di allegazione idoneo a definire la presumibile durata di una esposizione a rischio” (al p.to 11 di pg. 6 della sentenza), così incorrendo nel vizio di omessa o apparente motivazione per aver reso impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento, avendo omesso l’indicazione degli elementi, da cui avrebbe tratto il proprio convincimento, peraltro di assoluta genericità (Cass. 7 aprile 2017, n. 9105; Cass. 5 agosto 2019, n. 20921; Cass. 30 giugno 2020, n. 13248): così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6;

3.2. per giunta, essa ha ignorato, sempre ai fini della protezione umanitaria, il documento e la dichiarazione a verbale di udienza 10 maggio 2017 relativi alla nascita in Italia della figlia della richiedente (avvenuta nel febbraio 2017), con la violazione, non tanto dell’art. 116 c.p.c. (denunciata nella rubrica), quanto piuttosto dell’art. 115 c.p.c., secondo il tenore argomentativo del (primo) motivo: posto che, come noto, essa ricorre quando il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, mentre la violazione dell’art. 116 c.p.c., è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o comunque una risultanza probatoria, non abbia operato (in assenza di diversa indicazione normativa) secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (Cass. s.u. 30 settembre 2020, n. 20867);

3.3. la Corte d’appello veneziana ha quindi stigmatizzato l'”irrilevanza di situazioni… riguardanti le pratiche di culti locali”, richiamando il proprio consolidato orientamento (al p.to 10 di pgg. 5 e 6 della sentenza), senza alcuna disamina degli elementi non marginali del cultismo, ampiamento diffuso in Nigeria e della richiesta di protezione alla polizia, cui denunciato l’incendio della casa, non ottenuta;

3.4. secondo l’indirizzo di questa Corte, in tema di protezione internazionale, la prognosi negativa circa la credibilità del richiedente non può essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari o addirittura insussistenti, trascurando un profilo decisivo e centrale del racconto (Cass. 8 giugno 2020, n. 10908, con specifico riferimento alla setta degli *****); avendo essa anche ritenuto, sia pure in riferimento alla protezione sussidiaria, che le minacce di morte da parte di una setta religiosa integrino gli estremi del danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e non possano essere considerate un fatto di natura meramente privata, anche se provenienti da soggetti non statuali, avendo pertanto l’autorità giudiziaria adita il dovere di accertare, avvalendosi dei suoi poteri istruttori anche ufficiosi ed acquisendo le informazioni sul paese di origine, l’effettività del divieto legale di simili minacce, ove sussistenti e gravi, ovvero se le autorità del Paese di provenienza siano in grado di offrire adeguata protezione al ricorrente (Cass. 15 febbraio 2018, n. 3758; Cass. 30 ottobre 2019, n. 27859);

4. pertanto il ricorso deve essere accolto, con la cassazione della sentenza e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Venezia in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 4 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021

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