LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –
Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –
Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. R.G. 9502/14, proposto da:
C.G.M., rappresentato e difeso, dall’avv.to Gaspare Falsitta e dall’avv.to Silvia Pansieri e dall’avv.to Tita Gradara, in virtù di procura in calce al ricorso, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv.to Tita Gradara, in Roma, largo Somalia, n. 67;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 127/2013 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, depositata il 15/10/2015 e non notificata;
Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 27 gennaio 2021 dal Consigliere D’Angiolella Rosita.
RILEVATO
che:
La Commissione Tributaria regionale della Lombardia (di seguito, per brevità, CTR), riformando in parte la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, accoglieva la domanda subordinata proposta dall’appellante Agenzia delle entrate di rideterminazione dei maggiori ricavi in Euro 21.503,00 in base allo studio di settore UKO5U del 2007.
La controversia traeva origine da un avviso di accertamento emesso nei confronti di C.G.M., con il quale venivano determinati maggiori ricavi per l’anno 2005, sulla base dei cd. studi di settore, impugnato dal contribuente innanzi alla commissione provinciale di Pavia che accoglieva integralmente il ricorso ritenendo, tra l’altro, inattendibile i parametri di cui allo studio di settore UKO5U.
Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe, affidandosi a due motivi.
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO
che:
C.G.M., denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la CTR “omesso di esaminare un’eccezione che era stata proposta dal contribuente sin dal ricorso introduttivo, che era stata accolta dai giudici di primo grado e che costituiva un autonomo motivo di nullità dell’avviso di accertamento”, quale l’eccezione costituita dall’insieme degli elementi circostanziali offerti dal contribuente e tenuti in considerazioni dal giudice di primo grado per l’inapplicabilità dello studio di settore (ridotta capacità lavorativa per malattia di diabete insulinico; congruità del reddito in relazione i beni pervenuti dalla successione paterna).
Col secondo motivo deduce la violazione e la falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.L. n. 331 del 1991, art. 62 bis, e della normativa in materia di studi di settore nella parte in cui la CTR ha considerato che l’applicabilità dello studio di settore non potesse essere impedita dal certificato medico esibito dal contribuente.
I due motivi vengono esaminati congiuntamente perché strettamente connessi. Essi sono infondati.
Occorre premettere che la CTR, dopo una lunga e completa esposizione sull’oggetto della domanda (v. pagine 1 -8), ha ampiamente motivato sui presupposti legittimanti l’accertamento mediante studi di settore richiamando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte, tra cui la sentenza delle S.U. n. 26635 del 2009, per la quale la procedura di accertamento standardizzato costituisce un sistema di presunzioni semplici la cui gravità precisione e concordanza non nasce solo in relazione agli standards in sé considerati ma anche in relazione alle giustificazioni, contrarie, offerte dal contribuente; sulla base di tali premesse in diritto, ha compiuto specifico esame di merito (avente ad oggetto la certificazione medica e l’irrilevanza della fatturazione di cassa) concludendo per la mancanza di sufficienti elementi di prova a discarico offerti dal contribuente per l’applicabilità dello studio evoluto UKO5U.
Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (Sez. U., Sentenza n. 26635 del 18/12/2009, Rv. 610691-01) il procedimento di accertamento standardizzato si caratterizza per l’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, che consente l’adeguamento degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, determinando il passaggio dalla fase statica (gli standard come frutto dell’elaborazione statistica), alla fase dinamica dell’accertamento (l’applicazione degli standard al singolo destinatario dell’attività accertativa). In tal senso, è stato considerato (cfr., Sez. 5, Sentenza n. 14288 del 13/07/2016, Rv. 640541-01; Sez. 5, Sentenza n. 10242 del 26/04/2017, Rv. 64392901) che “i parametri o studi di settore previsti dalla L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 181 e 187, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quanto eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 39, comma 1, lett. d”, fermo restando l’onere per il contribuente di “allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributarlo standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento”.
E’ stato considerato che “la determinazione del reddito mediante l’applicazione degli studi di settore, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio con il contribuente, è idonea a integrare presunzioni che sono, anche da sole, sufficienti ad assicurare un valido fondamento all’accertamento tributario, ferma restando la possibilità, per il contribuente che vi è sottoposto, di fornire la prova contraria, nella fase amministrativa e anche in sede contenziosa” (così, Sez. 5, Ordinanza n. 23252 del 18/09/2019).
Il metodo di accertamento in questione ha d’altronde superato il vaglio della giurisprudenza unionale, la quale ha stabilito che la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità, devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che consenta all’Amministrazione finanziaria, a fronte di gravi divergenze tra i redditi dichiarati ed i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale, a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva 2006/112, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (v. CGUE 21/11/2018, causa C648/16, Fontana; su tali principi, cfr. Sez. 5, 29/03/2019, n. 8854; 22/05/2019, n. 13769 e 18/09/2019, n. 23252).
E’ dunque onere del ricorrente dimostrare, al fine di superare la presunzione di reddito determinata dalla procedura standardizzata, attraverso informazioni ricavabili da fonti di prova acquisite al processo con qualsiasi mezzo, la sussistenza di circostanze di fatto tali da far discostare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento e giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale in virtù di detta procedura.
La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi, nella parte in cui, valutando l’onere della prova posta in capo al contribuente, ha ritenuto, in base ad un accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, che il contribuente non avesse fornito prova idonea per dimostrare il conseguimento di minori ricavi e quindi non vinta la presunzione di cui agli artt. 2729 c.c. e s.s. Anche rispetto al certificato medico (di cui al secondo motivo di ricorso) la Commissione non ha ne ha escluso la rilevanza in generale, ma ne ha escluso la rilevanza in concreto in quanto privo di concreti parametri medico legali o di altri elementi riscontro, atti a stabilirne l’incidenza rispetto alla specifica attività e, quindi, rispetto al reddito accertato.
Il ricorso va dunque rigettato. Le spese di lite si pongono a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della V Sezione Civile, il 27 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021