Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.20382 del 16/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10963/2015 R.G. proposto da:

M.A. E F.LLI, società di fatto, M.A., M.D., M.S., rappresentati e difesi dall’avv. Adriano Bellacosa, elettivamente domiciliati in Roma, via G.B. Vico, n. 22, presso lo studio legale Bellacosa.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione n. 44, n. 2044/44/14, pronunciata il 23/05/2013, depositata il 03/03/2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 06 luglio 2021 dal Consigliere Riccardo Guida.

RILEVATO

che:

1. la M.A. e F.lli, società di fatto (in seguito: la “società” o la “contribuente”), svolgente attività di pompe funebri, e i soci M.A., M.D. e M.S. impugnarono avanti alla Commissione tributaria provinciale (“C.T.P.”) di Napoli gli avvisi di accertamento, ai fini IRAP (nei confronti della società) e ai fini IRPEF (nei confronti dei soci), che recuperavano a tassazione maggiori redditi, per i periodi di imposta dal 2003 al 2005, accertati con metodo analitico induttivo;

2. la C.T.P., dopo averli riuniti, dichiarò inammissibile il ricorso con r.g. n. 3207/09 (sul quale si è formato il giudicato); per il resto, rigettò i ricorsi della società;

3. la Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) della Campania, in parziale accoglimento dell’appello della società e dei soci, ha ridotto del 30% il reddito accertato dall’Amministrazione finanziaria, sulla base delle seguenti considerazioni: (i) era corretto il ricorso all’accertamento analitico induttivo (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39), in quanto la società (soggetta a regime di contabilità semplificata) aveva contabilizzato le prestazioni con l’emissione di fatture, ma anche con la registrazione dei corrispettivi, senza il rilascio delle ricevute fiscali, e aveva omesso di adottare il “registro degli affari”, quale scrittura obbligatoria in cui vanno annotati i servizi funebri effettuati; inoltre, la contabilità era stata tenuta secondo il criterio di cassa e non secondo quello di competenza, non era stato istituito il registro del personale dipendente ed erano stati dedotti costi non inerenti (per esempio, l’avena per cavalli”); (ii) d’altra parte, il reddito determinato dall’A.F. doveva essere ridotto, come sopra accennato, del 30%, sia perché sicuramente non tutti i servizi funebri risultanti dall’anagrafe dei Comuni di ***** e di ***** erano stati svolti dalla M. s.d.f., sia perché era eccessivo il prezzo stimato dall’organo di controllo nella misura di Euro 2.100,00 per un servizio funebre; (iii) in ultima analisi, tenuto conto delle tariffe di altri Comuni, il costo unitario in esame doveva essere rideterminato in Euro 1.400,00, aumentato di Euro 100,00, per ogni anno dopo il primo;

4. i contribuenti hanno proposto ricorso, con tre motivi, per la cassazione della sentenza d’appello, ed hanno depositato una memoria; l’Agenzia resiste con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo di ricorso (“I. – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 42, ed al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 e art. 109, comma 4, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).”), i contribuenti censurano la sentenza impugnata per non avere correttamente valutato le risultanze probatorie, e per non avere bene applicato i principi in tema di presunzioni e di partecipazione della parte al processo tributario, alla luce dei quali emergeva con chiarezza l’illegittimità dell’accertamento fiscale. Da una diversa angolazione giuridica, si censura la sentenza impugnata per avere determinato il valore unitario del ricavo in Euro 1.400,00, senza considerare anche i costi che, ovviamente, erano stati sostenuti per ottenere i maggiori ricavi accertati; infine, si ascrive alla C.T.R. di avere erroneamente escluso l’inerenza di alcuni costi (come l’avena per i cavalli”), che rientravano nella “sfera dell’impresa”;

2. con il secondo motivo (“II. – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione al mancato riconoscimento dei minori ricavi (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): contraddittorietà ed illogicità della motivazione (art. 111 Cost., comma 6).”), i contribuenti censurano la sentenza impugnata (vedi pag. 14 del ricorso) per “l’omesso esame in ordine a un fatto decisivo, rappresentato dalla documentata contestazione circa l’ammontare complessivo dei ricavi, determinato con l’avviso di accertamento”;

3. con il terzo motivo (“III. – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 112 c.p.c., ed alle censure afferenti la congruità dell’accertamento e la dovuta detrazione dei maggiori costi D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39,D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 75 e 109.”), i contribuenti censurano la sentenza impugnata per omessa pronuncia da un lato sulla questione relativa alla motivazione apparente degli avvisi di accertamento, e dall’altro sulla questione che l’ufficio, ricostruiti i ricavi dell’impresa, aveva però omesso di riconoscere i costi ad essi correlati;

4. il primo motivo è inammissibile;

la censura in esso contenuta si sostanzia nella richiesta, inammissibilmente rivolta a questa Corte di legittimità, di una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito. Infatti, è ius receptum che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento di fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che lo scrutinio dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione che ne ha fatto il giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 7/04/2017, n. 9097; 07/03/2018, n. 5355);

5. il secondo e il terzo motivo, suscettibili di esame congiunto per connessione, sono inammissibili;

fin da Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053, si è andato consolidando il principio di diritto per cui l’attuale art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella specie applicabile ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Nella fattispecie concreta, con le surrichiamate censure, i contribuenti non rivolgono alla sentenza critiche riconducibili al paradigma legale di cui all’art. 360, novellato n. 5, e fanno valere, in modo generico, degli errores in procedendo riconducibili grosso modo al vizio di omessa pronuncia su alcuni motivi di appello. Sicché la censura, per essere ammissibile, avrebbe dovuto essere sussunta al paradigma dell’art. 360, n. 4, il che non è avvenuto, ferma la considerazione che, in realtà, la Commissione regionale si è pronunciata sul tema dei “costi”, laddove ha ridotto del 30% l’ammontare dei ricavi;

6. conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile;

7. le spese del giudizio di legittimità sono regolate in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.800,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021

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