LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente Aggiunto –
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente di Sez. –
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –
Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2563/2021 proposto da:
C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. PAULUCCI DE’
CALBOLI 44, presso lo studio dell’avvocato FABIO VIGLIONE, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 133/2020 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 10/12/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/06/2021 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale Dott. RENATO FINOCCHI GHERSI, il quale chiede che la Corte rigetti il ricorso.
FATTI RILEVANTI E RAGIONI DELLA DECISIONE p. 1.1 Il Dott. C.D. propone tre motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 133 dell’11 dicembre 2020, notificatagli il 15 dicembre 2020, con la quale la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura lo ha:
“dichiarato responsabile dell’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. c), contestato al capo A) del procedimento n. 8/14 ed al capo A) del procedimento n. 10/14, limitatamente alla consapevole violazione dell’obbligo di astensione nel periodo successivo al marzo 2010”;
conseguentemente condannato alla “sanzione disciplinare della perdita di anzianità per anni uno”;
assolto “dalle residue incolpazioni per essere rimasti esclusi gli addebiti”.
p. 1.2 Quanto a rievocazione dei principali fatti di causa, si evince dalla sentenza impugnata che:
nel gennaio 2014 il C. è stato raggiunto da procedimento disciplinare, su iniziativa tanto del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (proc. n. 8/14 rg.) quanto del Ministero della Giustizia (proc. n. 10/14 rg.), in relazione ai fatti emersi nell’ambito del procedimento penale iscritto a suo carico dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma (n. 15963/12 RGNR) per i reati di cui agli artt. 81,317,609 bis e 368 c.p.; fatti asseritamente da lui posti in essere, nell’allora qualità di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nella conduzione dell’indagine (denominata *****) a carico di tal F.G. quale amministratore della fallita ***** srl (proc. pen. 8976/07 PM), e concretanti sia illeciti funzionali ed extrafunzionali D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e c) ed art. 3, comma 1, lett. d)), sia illecito conseguente a reato suscettibile di ledere l’immagine del magistrato ex art. 4, comma 1, lett. d), D.Lgs. cit.;
nella conduzione dell’indagine in questione il C., secondo l’incolpazione, aveva consapevolmente omesso di doverosamente astenersi dallo svolgimento di tutta una serie di attività processuali con le quali, abusando della qualità e dei relativi poteri, aveva indotto la moglie del F., sig.ra G.M.R., a con lui instaurare e protrarre una relazione sessuale, circostanza di per sé idonea a configurare un interesse personale in conflitto con il perseguimento dei fini istituzionali di giustizia;
previa riunione in data 7 aprile 2014 dei due procedimenti disciplinari così instaurati, ed adozione della misura cautelare del trasferimento del magistrato dalla Procura Generale presso la Corte di Appello di Napoli (alla quale il C. era stato assegnato in data 2.8.2011) a quella presso la Corte di Appello di Bari, interveniva la sospensione dei procedimenti riuniti, fin visto l’esito del procedimento penale per gli stessi fatti (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8), con provvedimento della Procura Generale 28.2.2014, poi confermato in data 15.11.2016;
il procedimento penale trovava definizione con la sentenza della Corte di Cassazione n. 12277 del 14.1.2020 la quale – previo annullamento senza rinvio della sentenza della Corte di Appello di Roma (n. 8291/19) nella parte in cui aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al delitto di cui agli artt. 56 e 323 c.p., così riqualificato il fatto ascrittogli al capo a), perché estinto per intervenuta prescrizione – aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (n. 15934/17) con la quale il Tribunale di Roma aveva assolto il C. da tutti i reati ascrittigli per insussistenza del fatto;
ripreso il corso del procedimento disciplinare (con istanza 12.5.2020 del PG di fissazione dell’udienza di discussione), il C. veniva prosciolto, visto il suddetto giudicato penale di insussistenza del fatto, da tutti gli addebiti diversi da quelli mossigli ai capi a) (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. c)) nei procedimenti riuniti nn. 8 e 10/2014;
gli addebiti di cui ai capi a), in particolare, riguardavano il fatto che nel suddetto procedimento penale a carico del F. (nei cui riguardi il C. aveva ottenuto la misura cautelare personale degli arresti domiciliari, richiesto il sequestro preventivo dell’impianto di compostaggio gestito dalla citata ***** srl ed ottenuto il rinvio a giudizio in esito all’udienza GUP 5 febbraio 2010) avesse posto in essere ulteriori attività processuali, segnatamente individuate: – nel dissequestro (8 ottobre 2009 – 6 luglio 2010) del suddetto impianto di compostaggio e dei beni facenti parte del patrimonio aziendale della società; nell’emettere nulla osta al fitto dell’impianto di compostaggio della ***** srl in favore della Compost Campania srl (4 novembre 2010); – nell’emettere nulla osta alla riassunzione della G. presso la medesima Compost Campania srl alla quale era stata concessa dalla procedura fallimentare la gestione dei beni e delle attività ex-***** (19 maggio 2011), in modo tale da abusare della qualità e dei poteri connessi all’assegnazione del procedimento penale (mantenuta fino alla trasmissione dibattimentale del fascicolo ad altra autorità giudiziaria), e così da indurre la G. “ad instaurare con lui una relazione sentimentale con costanti e frequenti rapporti sessuali, così violando i doveri di imparzialità e correttezza e soprattutto, consapevolmente, l’obbligo di astenersi sia dal compiere qualsiasi attività processuale che dal permanere nella formale titolarità di assegnazione del citato procedimento, nonostante la relazione sentimentale sopradescritta configurasse un interesse personale in conflitto con il perseguimento dei fini istituzionali di giustizia” (capo a) nel proc. 8/2014);
quanto all’altro procedimento, (capo a) nel proc. 10/2014) si addebitava al C. di aver abusato della qualità e dei relativi poteri “inducendo G.M.R., moglie di F.G., ad instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali; abuso di qualità che proseguiva anche dopo il trasferimento del magistrato alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Napoli (…), sempre al fine di mantenere detta relazione sessuale”; in particolare, gli si addebitava di aver rilasciato il nulla osta 19 maggio 2011 per riassumere al lavoro la G., nonostante fosse a conoscenza di una clausola contrattuale che faceva divieto alla nuova società di gestione Compost Campania srl di impiegare persone ricollegabili alla fallita ***** srl, ed inoltre di aver continuato ad interessarsi dei problemi di funzionamento dell’impianto della ***** e dei rinnovi del contratto di gestione a favore della Compost Campania, presso la quale era stata riassunta la G., pur dopo essere stato trasferito alla Procura Generale di Napoli.
p. 1.3 In ordine al merito della ritenuta responsabilità disciplinare (capi a) cit.), la sentenza impugnata ha osservato che:
(sent. pag. 8) la relazione tra il C. e la G. era stata accertata in sede penale, avendo il Tribunale di Roma sul punto testualmente affermato: “quel che può dirsi certo, sulla scorta delle dichiarazioni di entrambi, è che C.D. e G.M.R. si sono conosciuti a seguito delle vicende che hanno riguardato il procedimento ***** di cui il C. era titolare quale pubblico ministero e nel quale la G. era interessata in quanto moglie di uno dei principali indagati nonché gestore dell’impianto di compostaggio oggetto di sequestro. Altrettanto certo che tra i due vi sia stata una relazione caratterizzata da incontri a sfondo sessuale, iniziata nel mese di marzo 2010 e terminata nei primi mesi del 2012”;
(sent. ivi) indipendentemente dalla non configurabilità dei contestati reati di concussione e violenza sessuale, l’accertamento della relazione tra i due “non lascia dubbio alcuno in ordine alla sussistenza delle condizioni atte a fondare il dovere di astensione, proprio in ragione del rapporto sentimentale instaurato con la moglie dell’indagato”, avendo lo stesso Tribunale testualmente rilevato che: “e’ tutt’altro che irragionevole, infatti, ipotizzare che la mancata astensione trovasse origine nella necessità ed opportunità di serbare il silenzio sull’esistenza di una relazione clandestina così tutelando anche il rapporto coniugale della G.. In sostanza, la condotta del Dottor C., per come emersa in dibattimento, consistita nell’aver intrapreso una relazione sessuale con la moglie di un indagato senza astenersi, nel rilasciare nulla osta alla riassunzione e nell’emettere un provvedimento di dissequestro di beni strumentali, non può in alcun modo integrare i delitti di concussione e violenza sessuale”;
lungi da comportare preclusione all’accertamento della responsabilità disciplinare, quanto definitivamente accertato in sede penale confermava esso stesso la fondatezza dei capi di incolpazione sub a) (“limitatamente alla sola violazione del dovere di astensione”, D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 2, comma 1, lett. c)), stante l’incontrovertibilità della relazione tra il C. e la G. nonché l’adozione da parte del primo di almeno tre atti concretanti violazione dell’obbligo suddetto (dissequestro dei beni del 6 luglio 2010; nulla osta al fitto dell’impianto alla Compost Campania del 4 novembre 2010; nulla osta alla assunzione della G. da parte di quest’ultima del 19 maggio 2011);
(sent. pag. 13) l’applicazione di una sanzione disciplinare più grave di quella minima stabilita dalla legge si giustificava in ragione della particolare gravità del fatto e, segnatamente, della gravità “della lesione al prestigio della magistratura derivante dalla violazione dell’obbligo di astensione con riferimento alla instaurazione di un rapporto sentimentale con la moglie di un soggetto imputato in un procedimento trattato dal magistrato”.
p. 2.1 Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso, sostenendo sulla base di riportati indirizzi interpretativi – l’inammissibilità ovvero l’infondatezza di tutte le doglianze.
Ciò in ragione, segnatamente:
dell’autonomia della valutazione a fini disciplinari dei fatti già oggetto di giudicato penale di proscioglimento;
della rilevanza obiettiva dei presupposti costitutivi della violazione dell’obbligo di mancata astensione D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 2, comma 1, lett. c), non richiedente un intento o un effetto di “favoritismo”;
della insindacabilità in sede di legittimità della sanzione adottata dalla Sezione Disciplinare qualora, come nella specie, adeguatamente motivata.
Il ricorrente ha depositato memoria.
p. 2.2 Fissato all’udienza pubblica dell’8 giugno 2021, il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento in presenza del Procuratore Generale e dei difensori delle parti; ciò sul presupposto della rilevata tardività (decreto presidenziale 31 maggio 2021) dell’istanza di discussione orale presentata dalla difesa del ricorrente.
p. 3.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, commi 2 e 7 e art. 20, comma 3. Per non avere la Sezione Disciplinare accolto l’eccezione difensiva di estinzione dell’azione disciplinare relativamente ai capi sub a) in condanna, nonostante l’avvenuto ampio decorso (a far data dal gennaio 2014) dei termini di perenzione di cui all’art. 15 cit.. Una volta ravvisata (tanto dall’organo d’accusa quanto dal collegio giudicante) la diversità e l’autonomia dei fatti oggetto di incolpazione disciplinare rispetto ai fatti oggetto del procedimento penale, doveva infatti necessariamente conseguire l’ininfluenza dei provvedimenti di sospensione del procedimento disciplinare così come adottati (per i soli fatti di rilevanza penale posti a fondamento dell’addebito D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 4, lett. d)) dal Procuratore Generale in istruttoria, con avvenuto inutile spirare dei termini di legge. Diversamente ragionando, e cioè ravvisando non diversità ma identità dei fatti rispettivamente posti a base della contestazione penale e di quella disciplinare, era altrimenti necessitata la conclusione assolutoria nel merito anche per gli addebiti di cui ai capi a) cit., in quanto anch’essi pacificamente rientranti nel giudicato penale di insussistenza del fatto.
p. 3.2 I motivo è infondato sotto entrambi i profili nei quali si articola.
Per quanto concerne l’asserita preclusione in sede disciplinare del giudicato penale di assoluzione, basterà evidenziare come l’addebito mosso al C. D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 2, comma 1, lett. c), (unica contestazione oggi residuata proprio a seguito ed in ragione del pieno proscioglimento in sede penale per i fatti oggetto delle ulteriori contestazioni disciplinari originarie) riguardi un fatto certamente diverso da quelli considerati da quel giudicato.
Il quadro integrato di riferimento è infatti oggi costituito:
dall’accertamento definitivo della insussistenza dei fatti di concussione-abuso d’ufficio, violenza sessuale e calunnia in danno della G., segnatamente sotto il profilo della comprovata inesistenza, nella condotta del C., di qualsivoglia elemento di coercizione o profittamento funzionale nei riguardi della donna ed in ordine alla relazione sessuale con questa stabilita;
dall’accertamento definitivo della effettiva sussistenza e protrazione (per almeno due anni, dal 2010 al 2012) di quest’ultima relazione;
dalla connessione della stessa con il perfezionamento della fattispecie disciplinarmente rilevante, ex art. 2, comma 1, lett. c) cit., della consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nella conduzione del procedimento a carico, tra gli altri, del F. (marito della G.) e degli organi di ***** srl.
Pur accogliendosi una nozione di “medesimo fatto” in senso non normativo ma storico-naturalistico, ed identificato sulla base della coincidenza di tutti gli elementi costitutivi (condotta – nesso causale – evento), i fatti penali dai quali il C. è stato assolto non coincidono per nulla con quello residuato sul piano disciplinare, dato esclusivamente dalla mancata astensione.
Altro sarebbe se in sede penale fosse stata definitivamente esclusa la realizzazione in sé dei comportamenti di mancata astensione ancora rilevanti in sede disciplinare (in sostanza, il trattenimento della titolarità del procedimento ed il rilascio dei vari nulla-osta richiesti dagli organi del Fallimento *****), ma ciò non è accaduto, dal momento che – come si è detto – l’assoluzione in sede penale per insussistenza del fatto è dipesa da tutt’altro; vale a dire dalla ritenuta inattendibilità della G. sulla non consensualità della relazione sessuale e sulla coercizione-induzione di cui ella sarebbe stata vittima ad opera del C. quanto ai reati contestati.
Si tratta di elementi che ben lasciano sussistere la violazione dell’obbligo di astensione, del tutto indifferente alla sussistenza-insussistenza di una condotta di violenza, coercizione, induzione o profittamento.
La sentenza della Sezione Disciplinare appare allora indenne dal vizio lamentato là dove ha esattamente colto e valorizzato la totale autonomia tra l’addebito disciplinare in oggetto ed il giudicato penale di assoluzione.
Si tratta, del resto, di una conclusione avvalorata dallo stesso accertamento del giudice penale il quale, nell’assolvere il C. dai reati contestatigli per la “non credibilità oggettiva e soggettiva” della G. (sent. Tribunale Roma cit., pagg. 10 segg.), ha tuttavia definitivamente appurato che tra il C. e la G. si era in effetti instaurata per lungo tempo quella relazione sessuale che oggi rappresenta un elemento ormai assodato e non più contestabile (né, del resto, contestato in sé dal C.).
Vi è di più, nel senso che – come osservato dalla Sezione Disciplinare (sent. pagg. 8-9) – dalla stessa sentenza del Tribunale di Roma emergono elementi confermativi della completa diversità ed autonomia dei fatti penali per i quali il C. è stato assolto, rispetto a quello oggi contestatogli in sede disciplinare, avendo il giudice penale osservato (sent. Tribunale Roma cit., pagg. 16-17) che – da un lato – la pur riscontrata violazione del dovere di astensione non poteva ritenersi correlata e prodromica alla commissione del reato di concussione (cioè al fine di mantenere la titolarità del procedimento e poter quindi condizionare la volontà della G. per indurla a proseguire la relazione sessuale), e che – d’altro lato – questa mancata astensione trovava non irragionevole spiegazione nella “necessità ed opportunità di serbare il silenzio sull’esistenza di una relazione clandestina, così tutelando anche il rapporto coniugale della G.”.
Conclude quindi il giudice penale nel senso che: “In sostanza la condotta del C., per come emersa in dibattimento, consistita nell’aver intrapreso una relazione sessuale con la moglie di un indagato senza astenersi, nel rilasciare un nulla osta alla riassunzione e nell’emettere un provvedimento di dissequestro di beni strumentali, non può in alcun modo integrare i delitti di concussione e violenza sessuale (…). Quel che sembra emergere, al contrario, è che sia stata proprio la G. a pensare di poter trarre da una relazione del genere una qualche utilità personale e familiare, collegata alla pendenza del procedimento penale ed al ruolo di titolare delle indagini rivestito dall’imputato” (ivi pag. 17).
Sicché dal giudicato penale assolutorio emergono – se mai – elementi a carico, e non a discolpa, del C. quanto all’illecito disciplinare oggi in esame.
D’altra parte, è indirizzo costante di questa Corte di legittimità in tema di rapporti fra procedimento penale e procedimento disciplinare riguardante i magistrati L. n. 109 del 2006, ex art. 20, che il giudicato penale non preclude in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, essendo diversi sia i presupposti delle rispettive responsabilità sia i beni giuridici protetti, fermo restando il solo limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità, operato da quest’ultimo, cosicché, “se è inibito al giudice disciplinare di ricostruire l’episodio posto a fondamento dell’incolpazione in modo diverso da quello risultante dalla sentenza penale dibattimentale passata in giudicato, sussiste tuttavia piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell’ottica dell’illecito disciplinare” (Cass. SS.UU. n. 23778/10; n. 14344/15).
La doglianza in esame è infondata anche per quanto concerne il profilo (dal C. proposto subordinatamente alla denegata affermazione della diversità ed autonomia dei fatti addebitatigli) dell’asserita estinzione per prescrizione dell’azione disciplinare, siccome relativa ad un fatto (mancata astensione) che, in quanto privo di qualsivoglia rilevanza penale, sarebbe per ciò soltanto indenne dall’effetto sospensivo qui disposto L. n. 109 del 2006, ex art. 15, comma 8.
Diversamente da quanto così ritenuto dal ricorrente, la diversità dei fatti (tutti inizialmente contestati in sede disciplinare) non produce effetti sul regime di sospensione dell’azione disciplinare, dal momento che questi effetti – rispondendo all’esigenza pratica di evitare la scissione dell’accertamento di responsabilità disciplinare a seconda della natura e rilevanza penale delle condotte unitariamente contestate – coinvolgono la concreta fattispecie disciplinare colta nell’interdipendenza dei vari comportamenti che la integrano e nel complesso della sua storicità. Quindi la sospensione, anche se disposta fin visto l’esito del giudizio sui fatti di rilevanza penale, esplica effetto pure in ordine ai fatti diversi da questi ultimi, trattandosi di predisporre le condizioni per un vaglio globale ed organico della responsabilità disciplinare.
Si è in proposito stabilito (Cass. SSUU n. 24630/20) che, in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, la disposizione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a) – secondo cui il corso dei termini del procedimento disciplinare resta sospeso nel caso in cui per il medesimo fatto sia stata esercitata l’azione penale: “non può essere interpretata restrittivamente, come riferita unicamente all’identità tra i fatti oggetto dei due procedimenti, ma deve essere letta in senso più ampio, comprensivo della comune riferibilità degli stessi ad una medesima vicenda storica, avuto riguardo all’esigenza, conforme alla “ratio” della norma in esame, di assicurare l’unitarietà del procedimento disciplinare e di evitare per quanto possibile che l’esercizio dell’azione penale per alcuni soltanto dei fatti complessivamente addebitati all’incolpato possa determinarne il frazionamento”.
Nello stesso senso si è pronunciata (in una fattispecie di contestazione disciplinare di mancata astensione associata ad imputazione ex art. 323 c.p.) Cass. SSUU n. 18302/20, secondo cui il regime di sospensione ex art. 15, comma 8 cit. “trova applicazione non solo in caso di identità tra i fatti oggetto dei due procedimenti ma anche in presenza della loro comune riferibilità ad una “medesima vicenda storica”; e così pure Cass. SSUU n. 9277/20, secondo la quale: “(…) un’eccessiva limitazione nell’applicazione dell’istituto della sospensione potrebbe determinare una frammentazione dei processi con effetti negativi sotto il profilo dell’economia processuale e dell’interesse dell’incolpato ad un processo unitario rispetto a fatti complessivamente addebitati e maturati in un unico contesto”.
p. 4.1 Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), nonché carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità del C., atteso che questi, come pubblico ministero, non aveva obbligo di astensione se non in presenza di “gravi ragioni di convenienza” ex art. 52 c.p.p. e che i tre atti in relazione ai quali gli era stata contestata la mancata astensione (due dei quali neppure considerati dalla Procura Generale) risalivano ad epoca di molto successiva all’udienza preliminare del 25 novembre 2009 nella quale egli aveva chiesto il rinvio a giudizio del F. e degli altri imputati; udienza tenutasi quando il ricorrente neppure ancora conosceva la G..
Oltre a ciò, doveva ritenersi assodato (e di ciò la Sezione Disciplinare non aveva dato conto alcuno) che la violazione dell’obbligo di astensione (quand’anche ritenuto esistente) implicava la sussistenza, nell’ambito di un rapporto qualificato con il magistrato, di un “favoritismo”, elemento nella specie chiaramente insussistente, dal momento che:
il dissequestro dei beni aziendali ***** del 6 luglio 2010, come accertato dal Tribunale di Roma, non aveva favorito in alcun modo né la società né il F. né tantomeno la G., risolvendosi anzi in un provvedimento di liberazione dei beni strumentali in vista della loro successiva locazione a favore di soggetti terzi da parte degli organi della procedura fallimentare; come confermato dal giudice delegato al Fallimento *****, il nulla osta al dissequestro era avvenuto, su istanza del curatore, con formula “per le finalità della procedura” ed aveva, se mai, recato un danno (legittimo), e non un vantaggio, agli indagati;
il nulla osta al fitto dell’impianto di compostaggio della ***** in favore della Compost Campania del 4 novembre 2010, analogamente, era stato dal Tribunale ritenuto scevro da qualsiasi favoritismo e reale incidenza, dal momento che si trattava di provvedimento richiesto dalla procedura fallimentare quale pro forma, ed in assenza di qualsivoglia efficacia sostanziale; tanto più che la decisione del fitto dell’impianto di compostaggio in questione era già stata assunta dal giudice delegato sin dal 22 ottobre 2009, come da sollecitazione al pubblico alla presentazione di offerte irrevocabili, a tal fine pubblicata dal curatore pochi giorni dopo;
il nulla osta alla riassunzione della G. presso la Compost Campania srl del 19 maggio 2011 (unico addebito di violata astensione mosso dal Procuratore Generale) costituiva nulla più di un “visto agli atti” richiesto dalla procedura fallimentare ai soli fini del procedimento penale (nel quale la G. non risultava imputata né indagata), ed era inoltre privo di qualsivoglia efficacia giuridica, dal momento che la riassunzione in servizio da parte della Compost Campania (poi non verificatasi) era preclusa da una clausola contrattuale contenuta nel contratto di affitto intercorso tra quest’ultima società e la curatela la quale, infatti, del nulla osta non aveva poi tenuto alcun conto.
La sentenza impugnata si era inoltre limitata ad apoditticamente affermare la responsabilità disciplinare del C. richiamando puramente e semplicemente la decisione del Tribunale di Roma, così da farne discendere inopinatamente una “evidenza” di responsabilità in realtà del tutto inesistente; né la Sezione Disciplinare aveva in alcun modo preso posizione e dato conto degli argomenti difensivi circa, tra il resto, il ruolo svolto nella vicenda dagli organi della procedura fallimentare nonché l’assenza di qualsivoglia reale incidenza di tali atti sulle sorti tanto della medesima procedura fallimentare quanto degli altri soggetti coinvolti. Il che palesava altresì il vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e).
p. 4.2 Il motivo è infondato in tutte le sue articolazioni.
Per quanto attiene alla dedotta violazione o falsa applicazione di legge, soccorre anche in tal caso il consolidato indirizzo di legittimità che, distinguendo le ipotesi rituali di astensione (ex art. 52 c.p.p. e art. 73 c.p.c.) da quelle disciplinarmente rilevanti ex art. 2, comma 1, lett. c) cit., afferma (Cass. SSUU n. 18302/20) come ai fini della realizzazione del predetto illecito “ad opera anche del magistrato del pubblico ministero” rilevi esclusivamente l’omessa astensione in presenza di un conflitto, anche solo potenziale, tra l’interesse pubblicistico al perseguimento dei fini istituzionali di giustizia ad esso affidati dall’ordinamento, e l’interesse alieno a tali finalità (privato o personale) di cui egli sia portatore in proprio o per conto di terzi, non essendo altresì necessaria l’effettiva realizzazione di tale ultimo interesse.
Così, e con ancor più puntuale richiamo alla peculiarità della posizione del Pubblico Ministero, si è affermato che:
il magistrato del Pubblico Ministero ha l’obbligo, disciplinarmente rilevante, di astenersi ove la sua attività risulti influenzata da un interesse personale o vi possa essere il sospetto di un conflitto d’interessi, “dovendo l’art. 52 c.p.p., essere interpretato alla luce dell’art. 323 c.p.p., così da escludere l’esistenza di una mera facoltà di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto” (Cass. SSUU n. 33537/18);
l’illecito disciplinare in esame è configurabile anche a carico del Pubblico Ministero, benché per esso la legge processuale preveda solo la facoltà di astenersi, “in quanto anche per il P.M. sussiste il dovere di valutare, nell’esercizio delle sue funzioni, le ragioni di grave convenienza per non trattare cause in cui egli o suoi stretti congiunti abbiano interessi e quello di astenersi nel caso di verificata esistenza di tali ragioni, con particolare riguardo a interessi propri o personali dello stesso magistrato” (Cass. SSUU n. 11431/10);
l’omesso esercizio della facoltà di astensione da parte del magistrato investito di funzioni di Pubblico Ministero integra l’illecito disciplinare in questione “tutte le volte che si configurino, nel procedimento, situazioni obiettivamente suscettibili di far ipotizzare che la sua condotta possa essere ispirata a fini diversi da quelli istituzionali” (Cass. SSUU n. 24758/09).
E’ quindi evidente come il mero esegetico richiamo, da parte del ricorrente, alla “facoltà” di astensione del Pubblico Ministero di cui all’art. 52 c.p.p., in contrapposizione all'”obbligo” di astensione invece previsto per il giudice dall’art. 36 c.p.p., non colga nel segno, in quanto inadeguato a dare conto, secondo l’orientamento indicato, della complessità della fattispecie e, con ciò, della rilevanza disciplinare – non processuale del comportamento qui contestato.
Il motivo è poi infondato anche per quanto attiene all’asserito vizio motivazionale della sentenza impugnata.
Si conviene con il C. che la sentenza impugnata non si è fatta carico di motivare sulla concreta idoneità degli specifici comportamenti di mancata astensione (id est, le autorizzazioni ed i nulla-osta) a far conseguire al F., alla ***** o alla stessa G. qualche utilità o favore; né la sentenza si è soffermata sul fatto che un simile obiettivo, ancorché poi non raggiunto, potesse comunque rientrare nella iniziale finalizzazione della condotta dell’incolpato.
Neppure si nega che di questo specifico profilo si ebbe invece a diffusamente dibattere nel processo penale definitosi con l’assoluzione del C., dove si affrontò il problema della reale alterità della Compost Campania srl rispetto a *****, e dove vennero dal Tribunale sentiti anche il giudice delegato ed il curatore del Fallimento ***** (i quali esclusero, peraltro, qualsivoglia interferenza o pressione del C. nei confronti loro e delle scelte di gestione dei beni sociali e dei rapporti appresi alla procedura concorsuale).
E tuttavia, in tanto la carenza (o anche la totale assenza) motivazionale inficia la sentenza, in quanto essa si risolva nella obliterazione di elementi decisivi, cioè suscettibili di condurre ad una diversa statuizione, e tale non era l’esistenza-inesistenza di un “favoritismo” direttamente o indirettamente riconducibile agli atti posti in essere in violazione del dovere di astensione.
Si è stabilito che, ai fini della consumazione dell’illecito previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), “non occorre che il magistrato abbia avuto uno specifico intento di favorire o danneggiare una delle parti del processo, ma è sufficiente che egli fosse a conoscenza di circostanze di fatto che lo obbligavano ad astenersi” (Cass. SSUU n. 21974/18); e, inoltre, che l’illecito in questione “si caratterizza, sotto il profilo oggettivo, per essere un illecito di pura condotta, che viene integrato dalla sola condotta commissiva di partecipazione, da parte del magistrato, ad una attività d’ufficio rispetto alla quale sussisteva l’obbligo di astensione (senza necessità che da tale condotta derivi altresì uno sviamento di potere o un vantaggio per sé o per il terzo del cui interesse il magistrato si sia reso indebitamente portatore) e, sotto il profilo subiettivo, per la mancanza del dolo specifico, essendo al riguardo sufficiente la consapevolezza, nell’agente, della sussistenza di quelle situazioni di fatto in presenza delle quali l’ordinamento esige che egli si astenga dal compimento di un determinato atto (senza necessità di uno specifico intento finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti)” (Cass. SSUU n. 18302/20 cit.).
Non può dunque farsi fondatamente carico alla Sezione Disciplinare di non aver motivato su questo punto (il che rende del tutto inconferenti gli abbondanti argomenti spesi dal ricorrente a dimostrazione della formale doverosità ed assoluta neutralità dei tre “nulla osta” contestatigli), essendo necessario e sufficiente che, sui due capi a) in addebito, essa (sent. pagg. 8, 9) abbia invece compiutamente e logicamente argomentato (con esiti valutativi certamente non sindacabili né rivedibili in sede di legittimità) sui costituenti essenziali e decisivi della fattispecie disciplinare, come oggettivamente e soggettivamente emergenti:
dalla esistenza e protrazione nel tempo della intima relazione tra il C. e la G., moglie dell’imputato;
dalla idoneità di questa situazione a far scattare l’obbligo disciplinare di astensione, indipendentemente dal risultato pratico sortito, o anche soltanto atteso, dai tre atti compiuti in costanza di quella relazione;
dalla certa ed immanente consapevolezza nel C. dei presupposti fattuali, da lui stesso originati, che gli imponevano l’astensione.
Va del resto considerato che “il sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni della Sezione Disciplinare del CSM è limitato al controllo della congruità, adeguatezza e logicità della motivazione, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché è estraneo al sindacato di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali, pur dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006” (Cass. SSUU n. 7691/19 ed altre).
p. 5.1 Con il terzo motivo di ricorso subordinatamente si deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), violazione di legge e vizio di motivazione sotto il profilo della eccessività della sanzione applicata. La Sezione Disciplinare si era infatti sottratta all’onere di motivare in ordine alla congruità della sanzione applicata, nonostante che quest’ultima fosse stata individuata in sanzione superiore al minimo, ed in ragione di un apodittico richiamo alla “gravità della lesione al prestigio della magistratura”, senza – con ciò – minimamente considerare che il giudice penale aveva escluso nel C. qualsivoglia abuso o distorsione della funzione; né era stata considerata la totale ininfluenza ed inefficacia dei provvedimenti a lui contestati.
p. 5.2 Neppure questo motivo può trovare accoglimento, risultando esso finanche inammissibile nella parte in cui mira a sollecitare la Corte di legittimità ad una diversa e più mite delibazione fattuale degli elementi da assumere a riferimento nella determinazione della sanzione.
Sul piano strettamente normativo, l’applicazione della perdita dell’anzianità per un anno (dunque entro i limiti edittali per questa previsti dalla L. n. 109 del 2006, art. 9) era consentita dall’art. 12, lett. b) L. cit., discutendosi qui di un illecito punibile con sanzione non inferiore alla censura.
Sul piano della motivazione, la sentenza (pag. 13) ha ravvisato la gravità del fatto insita nella “lesione al prestigio della magistratura derivante dalla violazione dell’obbligo di astensione con riferimento alla instaurazione di un rapporto sentimentale con la moglie di un soggetto imputato in un procedimento trattato dal magistrato. Da qui la scelta di irrogare una sanzione più grave di quella minima stabilita dalla legge”; e questa valutazione non può essere sindacata in sede di legittimità.
Granitico è infatti l’indirizzo secondo cui, in tema di procedimento disciplinare a carico dei magistrati, la valutazione tanto della gravità dell’illecito (anche in ordine al riflesso del fatto oggetto dell’incolpazione sulla stima del magistrato, sul prestigio della funzione esercitata e sulla fiducia nell’istituzione), quanto della adeguatezza della sanzione rientra tra gli apprezzamenti di merito attribuiti alla Sezione Disciplinare, il cui giudizio è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logico-giuridici (Cass. SSUU nn. 8615/09; 16625/07; 23677/14 ed altre).
Ne segue il rigetto del ricorso.
Non vi è luogo a pronuncia sulle spese.
P.Q.M.
La Corte;
– rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, riunitasi in Roma, il 8 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021