LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22569/2015 proposto da:
N.C., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO DI SALVIA;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE CAMPANIA, UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE DI AVELLINO, LICEO CLASSICO STATALE *****, MINISTERO ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, tutti rappresentati e difesi ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– resistenti con mandato –
avverso la sentenza n. 21/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 13/02/2015 R.G.N. 2098/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/03/2021 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.
RILEVATO
che:
1. La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 21/2015, respingeva l’impugnazione proposta da N.C. avverso la sentenza del Tribunale di Avellino che aveva rigettato l’impugnazione dell’atto di collocamento a riposo per il raggiungimento della massima anzianità contributiva, adottato nei confronti della ricorrente con provvedimento n. 432/C2 del 23 febbraio 2010 dal Dirigente Scolastico del Liceo Classico *****, con decorrenza dal 1 settembre 2010;
la Corte territoriale evidenziava che la N. era stata collocata a riposo nell’ambito della disciplina di cui al D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, conv. nella L. n. 133 del 2008, come modificato dalla L. n. 102 del 2009, art. 17, comma 35 novies, disciplina avente carattere eccezionale ed operativa solo per gli anni 2009, 2010 e 2011;
rilevava che la N., avendo maturato la massima anzianità contributiva nell’ambito del suddetto arco temporale, non poteva affermare alcuna inapplicabilità della normativa;
evidenziava che fosse imposto all’amministrazione solo il preavviso di sei mesi e che irrilevante fosse il mancato raggiungimento dei 65^ anni di età;
sosteneva che il provvedimento non necessitasse di alcuna specifica ulteriore motivazione a giustifica del collocamento a riposo fondato sul potere discrezionale conferito dalla norma;
escludeva profili di illegittimità costituzionale di una disposizione fondata su esigenze di contenimento della spesa pubblica;
2. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso N.C. con due motivi;
3. Le amministrazioni intimate hanno depositato atto di costituzione al fine di partecipare all’udienza di discussione;
4. la ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 2119 c.c., art. 1362 c.c. in relazione alla erronea interpretazione di circolari e direttive, della L. n. 604 del 1966, artt. 2, 3 e 5, L. n. 165 del 2001, art. 33, D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 509;
sostiene che la Corte territoriale, valutando come erroneamente eccezionale la disposizione di cui al D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, abbia ritenuto di prescindere dall’intero ordito posto a garanzia del dipendente (anche di quello privatizzato);
sostiene che interpretata nel senso voluto dalla Corte partenopea la norma suddetta risulterebbe confliggente con le disposizioni di tutela denunciate specie laddove è stato ritenuto che non sia necessaria alcuna altra motivazione oltre quella prevista mediante il richiamo per relationem al D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11;
2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’incostituzionalità del D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, come succ. modif. in relazione agli artt. 3,97 e 117 Cost., per effetto della riforma introdotta dal D.L. n. 201 del 2011, art. 24, convertito con modificazioni dalla L. n. 214 del 2011, che ha disposto l’elevazione del requisito dell’anzianità contributiva e per contrasto con la normativa sovranazionale;
sostiene che se l’interpretazione del del D.L. n. 201 del 2001, suddetto art. 24, comma 3, è quella fornita dal D.L. n. 101 del 2013, art. 2, comma 4, convertito, con modificazioni, in L. n. 125 del 2013, secondo cui il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in vigore del predetto art. 24, il diritto a pensione e/o quello a lavorare oltre il limite dei 40 anni di contribuzione per effetto della disciplina antecedente rispetto a quella del D.L. n. 101 del 2011, subirebbe un effetto deteriore in termini di aliquote sulla anzianità e sullo stesso fondamentale diritto del dipendente alla prosecuzione del rapporto, non consentendo al predetto soggetto il trattenimento in servizio fino ai 65 anni in presenza del requisito dei 40 anni di contribuzione, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost.;
assume che laddove si ancori il recesso all’anzianità contributiva tale indice rappresenta senza dubbio una discriminazione indiretta fondata sull’età in violazione della direttiva 2000/78/CE, art. 6;
3. il primo motivo è fondato nei termini di seguito illustrati;
3.1. l’assetto normativo della speciale forma di recesso in esame, come precisato, tra le altre, da Cass. 5 marzo 2019, n. 6350, ha avuto il seguente sviluppo:
– la facoltà della Pubblica Amministrazione di risolvere unilateralmente il rapporto di impiego al raggiungimento della massima anzianità contributiva è stata prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11, primo e secondo periodo, poi convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 112, secondo cui, nel testo originario, “nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti (…) sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa (n.d.r., a cui, in sede di conversione, si aggiungeva quello “affari esteri”), tenendo conto delle rispettive peculiarietà ordinamentali”;
– l’art. 72, comma 11, è stato successivamente novellato dalla L. 4 marzo 2009, n. 150, art. 6, comma 3, che ha sostituito il requisito del compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, con il requisito del “compimento dell’anzianità massima di servizio di 40 anni”; – entrambe le formulazioni della norma, succedutesi in breve arco temporale, si limitavano a richiedere il requisito, in un caso della massima anzianità contributiva, nell’altro della massima anzianità di servizio, senza imporre ulteriori condizioni, quanto alla formazione della volontà negoziale dell’Amministrazione, e senza richiedere in modo espresso il rispetto dell’obbligo motivazionale;
– la determinazione di specifiche modalità applicative era, infatti, espressamente prevista solo per il personale dei comparti sicurezza, difesa ed affari esteri, in ragione delle peculiarietà dei rispettivi ordinamenti;
– successivamente, il D.L. 10 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 35 novies, convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, ha sostituito l’art. 72, comma 11, facendo riferimento (anni 2009, 2010, 2011) al requisito della massima anzianità contributiva, confermando il preavviso e precisando la unilateralità del recesso, da ricollegare all’esercizio del potere di organizzazione esercitato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del T.U., con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, prevedendosi infine l’applicabilità della disciplina anche per il personale dirigenziale;
– è poi intervenuto il D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 16, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui “in tema di risoluzione del rapporto di lavoro l’esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l’amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri di applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo”;
– le condizioni richieste per il recesso sono rimaste immutate anche nelle ulteriori novelle, fino all’intervento del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 1, comma 5, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, in ragione del quale il vigente art. 72, comma 11, primo periodo, prevede che “con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2 e successive modificazioni, incluse le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento (…) risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non prima del raggiungimento di un’età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale (…)”;
3.2. il caso di specie, riguardando un recesso intimato il 23 febbraio 2010 e destinato ad avere effetto dal 1 settembre 2010, rientra quindi nella disciplina antecedente a quella di cui al D.L. n. 98 del 2011, la cui vigenza risale al 6 luglio 2011;
3.3. con specifico riferimento ad essa, questa Corte ha ritenuto che “la facoltà di collocamento a riposo d’ufficio nel lavoro pubblico contrattualizzato, prevista dal D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, conv. con modif. dalla L. n. 133 del 2008, in ragione del raggiungimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni richiede una motivazione, ancor più necessaria in difetto di un formale atto organizzativo, che consenta il controllo di legalità sull’appropriatezza della risoluzione del rapporto rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguita, sicché la sua mancanza viola i principi generali di correttezza e buona fede, il principio dell’imparzialità e buon andamento della P.A., le norme imperative che richiedono la rispondenza dell’azione amministrativa al pubblico interesse e l’art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE” (v. Cass. 6 giugno 2016, n. 11595 ed ancora Cass. 6 marzo 2019, n. 6556; Cass. 5 marzo 2019 n. 6350; Cass. 8 gennaio 2021, n. 150);
3.4. erroneamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse necessaria alcuna motivazione;
4. quanto al secondo motivo del ricorso, va innanzitutto osservato che un’eventuale sollecitazione al giudice a sollevare una tale questione di legittimità costituzionale non può essere prospettata come “motivo di ricorso per cassazione” perché non può essere configurata come vizio della sentenza impugnata idoneo a determinarne l’annullamento da parte di questa Corte;
infatti, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 24, comma 2, la questione di costituzionalità di una norma, non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che rilevata d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, purché essa risulti rilevante, oltre che non manifestamente infondata, in connessione con la decisione di questioni sostanziali o processuali che siano state ritualmente dedotte nel processo (in senso conforme vedi, tra le altre: Cass. 18 febbraio 1999, n. 1358; Cass. 22 aprile 1999, n. 3990; Cass. 29 ottobre 2003, n. 16245; Cass. 16 aprile 2018, n. 9284; Cass. 24 febbraio 2014, n. 4406);
4.1. in ogni caso, questa Corte ha già ritenuto (v. Cass. 10 luglio 2020, n. 14812) che la risoluzione unilaterale da parte di una Pubblica amministrazione dei rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato in applicazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, non contrasta con l’art. 117 Cost., per violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed dell’art. 6 della direttiva 2000/78/CE, attuata dal D.Lgs. n. 16 del 2003, come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, in quanto tale direttiva consente agli Stati membri di prevedere, nell’ambito del diritto nazionale, differenze di trattamento dei lavoratori fondate sull’età purché siano “oggettivamente e ragionevolmente” giustificate da un finalità legittima quale è la politica del lavoro e del relativo mercato o della formazione professionale e sempre che i mezzi per il raggiungimento di tale scopo siano necessari e appropriati, come si verifica nella specie (vedi per tutte: Cass. n. 22023 del 2015; Cass. n. 11859 del 2015, Cass., n. 9864 del 2018), anche in ragione delle considerazioni svolte nella trattazione del primo motivo di ricorso;
peraltro, in una prospettiva di salvaguardia della posizione del lavoratore, il legislatore ha fatto riferimento, quale condizione per il recesso unilaterale non all’età dello stesso ma al raggiungimento della anzianità massima contributiva di quaranta anni;
4.2. si aggiunga che, come pure da questa Corte già evidenziato (v. Cass. 3 luglio 2017, n. 16354), la Corte costituzionale ha da tempo affermato che dagli artt. 4 e 35, non discende un diritto soggettivo alla conservazione del posto di lavoro, ma solo la necessità di introdurre temperamenti al potere di recesso del datore, di modo che il lavoratore venga tutelato nei casi di arbitrarietà o irragionevolezza del licenziamento, che rimane comunque consentito nei casi in cui sussistano motivi adeguati a giustificare la cessazione del rapporto;
la Corte ha anche precisato che i modi e le forme della tutela costituzionale, limitata nei termini innanzi detti, sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, che è chiamato a valutare sia le singole fattispecie nelle quali il recesso può essere ritenuto giustificato, sia le tutele da assicurare al lavoratore legittimamente estromesso dalla azienda o dall’ufficio (v. Corte Cost. 13 dicembre 2000, n. 541);
4.3. il giudice delle leggi ha anche affrontato la questione della interferenza fra recesso dal rapporto di lavoro e godimento del trattamento pensionistico e già con la sentenza n. 15 del 1983, nel giudicare la legittimità costituzionale della L. n. 604 del 1966, art. 11, ha evidenziato che “nei riguardi dei lavoratori che sì trovino ad avere conseguito il diritto a pensione di vecchiaia, un trattamento diverso da quello previsto per i lavoratori non anziani risponde a ragioni ben concretamente coerenti ed adeguate in quanto la loro licenziabilità non ha riscontro nell’eventualità che essi possano rimanere senza retribuzione e senza trattamento di quiescenza per vecchiaia”;
per ragioni analoghe la Corte ha ritenuto che, ove si prospetti la necessità della riduzione del personale, risponde al criterio di ragionevolezza una disciplina normativa o contrattuale che privilegi, ai fini della individuazione del personale da licenziare, il raggiungimento dei requisiti di età e di contribuzione necessari per fruire del trattamento di quiescenza, trattandosi di scelta che “può essere giustificata in una situazione del mercato del lavoro tale da escludere per i lavoratori più giovani la possibilità di trovare a breve termine un altro posto di lavoro” (v. Corte Cost. 6 luglio 1994, n. 268);
4.4. infine, la Corte nel pronunciare, sia pure sotto altri aspetti, sulla legittimità della disposizione che qui viene in rilievo, ha evidenziato che non ha copertura costituzionale il diritto a rimanere in servizio per ottenere l’incremento del trattamento di quiescenza, poiché il bene protetto dall’art. 38 Cost., è solo quello che tutela il conseguimento del minimo pensionistico (v. Corte Cost. 6 marzo 2013, n. 33);
4.5. da tanto consegue che va accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato inammissibile il secondo; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’appello di Napoli che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità;
6. non sussistono le condizioni processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 11 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021