Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.20397 del 16/07/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – est. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27777/2015 proposto da:

O.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GORIZIA n. 14, (Studio Legale Sinagra-Sabatini-Sanci) presso lo studio dell’avvocato FRANCO SABATINI, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 605/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 14/05/2015 R.G.N. 676/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/03/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA.

RILEVATO

Che:

1. la Corte d’Appello di L’Aquila ha respinto l’appello di O.C. avverso la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva rigettato il ricorso, proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, volto ad ottenere l’annullamento dell’atto del 18 settembre 2012, con il quale l’Agenzia in ragione del compimento dell’anzianità massima di servizio, aveva risolto il rapporto di lavoro dirigenziale, e la conseguente condanna dell’ente convenuto alla reintegrazione nell’incarico in precedenza espletato ed al risarcimento dei danni tutti subiti in conseguenza dell’illegittimo recesso;

2. la Corte territoriale ha osservato che erroneamente il primo giudice aveva ritenuto che l’Agenzia avesse esercitato il potere conferito alle amministrazioni pubbliche dal D.L. n. 122 del 2008, art. 72, comma 11, convertito dalla L. n. 133 del 2008, perché in realtà l’ente aveva risolto il rapporto ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. a) del CCNL per il personale dirigente dell’Area VI, che prevedeva, appunto, la risoluzione “nel caso di compimento dell’anzianità massima di servizio o del limite massimo di età”, “salvo domanda dell’interessato per la permanenza in servizio oltre tale termine, da presentarsi almeno tre mesi prima”;

3. il giudice d’appello ha, poi, rilevato che l’appellante aveva posto a fondamento dell’asserita illegittimità dell’atto adottato, non la contrarietà alla legge della disposizione contrattuale, bensì l’insussistenza nel suo caso dei requisiti richiesti dalle parti collettive e ciò perché al momento del raggiungimento dell’anzianità contributiva di quaranta anni, ossia alla data del 9 marzo 2012, era già entrato in vigore il D.L. n. 201 del 2011, convertito dalla L. n. 214 del 2011, che aveva elevato i limiti di età e di contribuzione per accedere al collocamento a riposo;

4. la Corte aquilana ha disatteso l’interpretazione del D.L. n. 201 del 2011, prospettata dall’appellante ed ha richiamato la norma di interpretazione autentica dettata dal D.L. n. 101 del 2013, art. 2, comma 4, convertito dalla L. n. 125 del 2013, secondo cui il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comportava obbligatoriamente l’applicazione del regime previgente all’entrata in vigore della nuova normativa;

5. infine il giudice d’appello ha osservato che l’ O. non aveva presentato la domanda di permanenza in servizio entro il termine previsto dal c.c.n.l. ed ha aggiunto che, a fronte di disciplina dettata dal contratto collettivo in vigore già dall’anno 2006, nessun obbligo di informativa poteva essere posto a carico dell’amministrazione appellata;

6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso O.C. sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria, al quale ha opposto difese con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

CONSIDERATO

Che:

1. con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 c.c., in relazione agli artt. 112,434 e 324 c.p.c., ed addebita alla Corte territoriale di non avere rilevato d’ufficio la nullità dell’art. 39 del CCNL 1.8.2006 per il personale dirigente dell’Area VI, nullità che, invece, andava dichiarata in quanto la disposizione contrattuale prevede una causa di risoluzione automatica del contratto non prevista dal legislatore, il quale ha ricondotto l’effetto risolutorio del rapporto di lavoro unicamente al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, alle dimissioni, al mutuo consenso;

1.1. richiama il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte sulla rilevazione d’ufficio delle cause di nullità in ogni stato e grado del giudizio e sostiene che nella fattispecie il rilievo era doveroso, sia perché l’Agenzia per affermare la legittimità dell’atto impugnato aveva richiamato la disciplina contrattuale, sia in quanto lo stesso giudice d’appello aveva dato atto delle deduzioni svolte dall’appellante anche sull’illegittimità della disciplina dettata dalle parti collettive;

2. il ricorso è inammissibile perché prospetta, per la prima volta con il ricorso per cassazione, un vizio dell’atto di recesso oggetto di impugnazione non dedotto nel giudizio di merito;

3. anche all’esito della pronuncia delle Sezioni Unite in tema di rilievo officioso delle nullità negoziali questa Corte ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui la causa petendi dell’azione proposta dal lavoratore per contestare la validità e l’efficacia del licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimità dell’atto denunciato nel ricorso introduttivo, con la conseguenza che costituisce inammissibile domanda nuova la prospettazione, in sede di impugnazione, di un profilo di illegittimità non tempestivamente dedotto (Cass. n. 8/2020; Cass. n. 18705/2019; Cass. n. 9675/2019; Cass. n. 6950/2019; Cass. n. 23869/2018; Cass. n. 7687/2017);

3.1. le pronunce richiamate, alla cui motivazione si rinvia ex art. 118 disp. att. c.p.c., hanno sottolineato le peculiarità dell’azione di impugnazione del recesso dal rapporto di lavoro rispetto alle domande nelle quali venga in rilievo la validità del regolamento contrattuale oggetto di causa ed hanno evidenziato, in particolare, che le ragioni sottese ai principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite non si prestano ad essere estese al giudizio nel quale si discute della legittimità del licenziamento;

4. nel caso di specie il ricorrente, attraverso la prospettazione della nullità della clausola del contratto collettivo invocata a fondamento del potere di recesso, finisce per denunciare un profilo di illegittimità dell’atto impugnato non tempestivamente allegato nel giudizio di merito, nel quale, come si desume dalla motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente aveva posto “il centro focale della decisione” sulla insussistenza delle condizioni alla cui ricorrenza le parti collettive hanno subordinato l’esercizio del potere;

5. ciò rende applicabile il principio di diritto richiamato nei punti che precedono, atteso che quel principio, per le ragioni sulle quali riposa, opera ogniqualvolta, al di là della formale qualificazione dell’atto adottato, venga in rilievo l’esercizio del potere datoriale di recesso dal rapporto;

5. il ricorso, nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di non avere statuito su una questione che era stata comunque prospettata dall’ O., è formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c, n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, perché il ricorrente si limita a richiamare le conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e dell’appello, che si riferiscono unicamente alla revoca o all’annullamento dell’atto impugnato senza fare cenno alla nullità della disposizione contrattuale, e non riporta, neppure nelle parti essenziali, le argomentazioni che sarebbero state dedotte a sostegno dell’illegittimità della disciplina contrattuale, sicché il difetto di completezza del motivo impedisce alla Corte di verificare ex actis la fondatezza della censura;

6. l’inammissibilità del motivo, quindi, non consente alla Corte di esaminare nel merito la fondatezza della censura e di affrontare la questione dell’estensibilità all’impiego pubblico contrattualizzato di principi che, in ordine alla tipicità delle cause di cessazione del rapporto di lavoro, sono stati affermati in relazione al rapporto di lavoro alle dipendenze di privati (cfr. sulla diversità della disciplina, pur all’esito della contrattualizzazione, Cass. n. 4355/2005; Cass. n. 26377/2008; Cass. n. 14628/2010);

7. le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente;

8. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472