LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21772/2014 R.G. proposto da:
V.G., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Moschetti e dall’avv. Francesco d’Ayala Valva, presso cui è elettivamente domiciliato in Roma, al viale Parioli n. 43;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;
– controricorrente –
avverso la sentenza n.63/13 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 15 aprile 2013, depositata in data 17 giugno 2013 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 24 febbraio 2021 dal consigliere Andreina Giudicepietro.
RILEVATO
CHE:
V.G. ricorre con cinque motivi avverso l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n.63/13 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 15 aprile 2013, depositata in data 17 giugno 2013 e non notificata, che, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa della cartella di pagamento conseguente ad avviso di accertamento per Irpef ed Ilor dell’anno di imposta 1991, ha rigettato l’appello del contribuente avverso la sentenza della C.t.p. di Venezia, favorevole all’ufficio;
nella sentenza impugnata la C.t.r. preliminarmente dava atto che la causa si inseriva in una serie di controversie promosse dal contribuente per opporsi alla pretesa tributaria relativamente a maggiori tributi accertati per l’anno di imposta 1991;
in particolare, la C.t.r. esponeva che con atto notificato all’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di *****, il contribuente impugnava la sentenza n. 172/12/2010, del 03 dicembre 2009, con la quale la Commissione tributaria provinciale di Venezia aveva confermato la legittimità della cartella di pagamento, notificata in data 18 gennaio 2002 da “GE.RI.CO. S.p.a.”, Concessionario della riscossione per la provincia di *****, con la quale l’amministrazione finanziaria aveva intimato il pagamento delle imposte IRPEF ed ILOR per l’anno 1991 e relative sanzioni ed interessi dovuti in dipendenza dell’avviso di accertamento, notificato in data 11 ottobre 1995, in seguito definito anche “primo accertamento”, divenuto definitivo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza n. 99/16A/1999 del 12 luglio 1999 della Commissione tributaria regionale, contro la quale era stato proposto un ricorso per revocazione, rigettato dalla stessa Commissione con sentenza n. 71/3A/2001, confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 23893/2007;
a seguito della notifica del ricorso, l’Agenzia delle entrate si costituisce e resiste con controricorso;
il ricorso è stato fissato per la Camera di Consiglio del 24 febbraio 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.
CONSIDERATO
CHE:
giova premettere una breve sintesi della fattispecie in esame;
l’ufficio II.DD. di *****, con un primo avviso di accertamento notificato in data 11.10.95 al contribuente V.G., rettificava per l’anno d’imposta 1991 il reddito d’impresa ai fini ILOR ed IRPEF in Lire 446.239.000;
l’avviso faceva riferimento ad una cospicua movimentazione d’assegni che risultavano negoziati attraverso il c/c bancario del V., gestore di un negozio di oggettistica;
il contribuente impugnava l’avviso sostenendo la non inerenza di dette operazioni finanziarie all’esercizio della sua impresa, trattandosi di operazioni di favore, non riferibili alla propria modesta attività commerciale, di mere operazioni di scambio richiestegli da un suo vicino di negozio, che aveva difficoltà a operare personalmente con le banche;
l’adita C.t.p. di Venezia con sentenza n. 163/96 del 9.12.96 dichiarava illegittimo l’avviso impugnato;
successivamente, in data 29.9.97, veniva notificato al contribuente altro avviso di accertamento di Lire 664.530.000 ad integrazione del precedente, emesso dall’ufficio a seguito di un secondo verbale della G.d.F. da cui erano emersi ulteriori elementi a carico del contribuente, sempre con riguardo alla stessa vicenda riguardante il giro di assegni di cui si è detto;
anche quest’avviso veniva impugnato dall’esponente con un autonomo ricorso, che la C.t.p. di Venezia accoglieva con sentenza 11/98 depositata il 16.6.98;
nel frattempo l’amministrazione, dopo l’avvenuta notifica del secondo avviso di accertamento, proponeva appello contro la sentenza n. 163/96 pronunciata dalla C.t.p. che, come si è detto, aveva dichiarato illegittimo il primo provvedimento;
l’adita C.t.r. del Veneto accoglieva il ricorso con sentenza n. 99/16/99 del 12.7.99, poi passata in giudicato per mancata impugnazione;
lo stesso ufficio erariale proponeva, inoltre, appello anche contro la sentenza della C.t.p. pronunciata con riguardo al secondo accertamento, che il giudice del gravame, con la decisione n. 18/16/01, accoglieva, prendendo atto dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza n. 99/99 relativa al primo accertamento;
avverso tale decisione n. 18/16/01, il contribuente proponeva ricorso per revocazione assumendo che detto provvedimento era inficiato da errore di fatto ed in contrasto con decisioni passate in giudicato, sia con riferimento alla menzionata sentenza n. 99. 16.99 (che era oggetto peraltro di un ulteriore, distinto ricorso per revocazione), sia a quelle pronunciate sulle pretese relative all’IVA (omologhi avvisi in rettifica era stati formati ai fini dell’IVA, avvisi poi dichiarati illegittimi con sentenze della stessa C.t.r., divenute definitive);
la C.t.r., investita delle domande di revocazione, le rigettava con sentenze confermate dalla Corte di Cassazione (Cass. sent. n. 23893 e n. 23894 del 2007);
inoltre, avverso la sentenza che aveva accolto l’appello dell’ufficio in relazione al secondo avviso di accertamento, il contribuente proponeva anche ricorso in Cassazione, deciso con la sentenza n. 23892/2007, che cassava con rinvio la sentenza della C.t.r. per difetto di motivazione, ritenendo che “i due avvisi di accertamento de quibus sono formalmente e sostanzialmente diversi e che il secondo avviso non contiene alcuna revoca di quello precedente con il quale pertanto continua a coesistere, per cui sarebbe erroneo ipotizzare una qualche estensione del precedente giudicato come sembra potersi desumere dalla motivazione che si censura”;
infine la C.t.r., in sede di giudizio di rinvio, annullava il secondo accertamento con decisione che non è stata ulteriormente oggetto di impugnazione;
la presente controversia, dunque, ha ad oggetto l’impugnativa della cartella di pagamento emessa in conseguenza del primo avviso di accertamento per le imposte dirette (Irpef ed Ilor anno 1991);
con il primo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, e art. 1;
il ricorrente deduce che i tributi di cui si discute nella presente causa erano già compresi nel ruolo e nella cartella di pagamento emessa in forza di un secondo avviso di accertamento, per Irpef ed Ilor 1991, che, secondo il ricorrente, aveva assorbito il precedente avviso;
tale secondo accertamento era stato annullato con sentenza n. 14/18/2010 della C.t.r. del Veneto a seguito di cassazione con rinvio della precedente sentenza, n. 18/16/2001 della stessa C.t.r.;
tanto premesso, il ricorrente censura la nullità della sentenza impugnata, in quanto nella esposizione del “fatto” mancherebbe totalmente la descrizione del contenuto degli atti impugnati, dei presupposti avvisi di accertamento, nonché l’indicazione, sia delle motivazioni assunte dalla Commissione tributaria provinciale, sia dei motivi di impugnazione proposti dal contribuente per la riforma di tale statuizione;
il motivo è infondato e va rigettato;
in tema di contenuto della sentenza, deve rilevarsi che in linea di principio ” la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa non costituisce un elemento meramente formale, bensì un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione dell’intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione” (Cass.. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 920 del 20/01/2015);
pertanto l’assenza di una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata “configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 29721 del 15/11/2019);
nel caso di specie, sia pure sinteticamente, la sentenza impugnata contiene la succinta esposizione dei fatti rilevanti per la causa, richiamando i due accertamenti emessi nei confronti del contribuente e le successive impugnazioni, con il diverso esito delle stesse;
pertanto, la decisione non è priva del contenuto minimo essenziale e non incorre in nullità sotto tale profilo;
con il secondo motivo, il ricorrente denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione su punto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);
secondo il ricorrente la C.t.r. sarebbe incorsa in un error in iudicando, laddove ha ritenuto che la sentenza di appello, che ha annullato il secondo accertamento, rilevando che esso aveva ad oggetto gli stessi “fatti” del primo, non contenesse “alcun riferimento alle questioni di merito sulle quali è fondata l’azione accertativa”;
il motivo è inammissibile, in quanto è articolato come vizio di insufficiente motivazione, laddove, invece, trova applicazione ratione temporis la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
invero, “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. S.U. n. 8053/2014 e successiva giurisprudenza conforme);
con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nella parte in cui la sentenza di secondo grado non ha rilevato il contrasto pratico tra giudicati, formatisi sulla medesima pretesa impositiva, assumendo che la statuizione di cui alla sentenza n. 14/1810 della C.t.r. del Veneto, riguardante il secondo accertamento, non troverebbe applicazione nel caso di specie, in quanto non conterrebbe “alcun riferimento alle questioni di merito sulle quali è fondata l’azione accertativa”;
secondo il ricorrente, le sentenze della C.t.r. del Veneto n. 99/16/99 e n. 14/18/2010 avevano riguardato la medesima pretesa impositiva, come confermato dalla seconda decisione – che si era pronunciata sulla illegittimità del secondo accertamento, integrativo del primo – la quale aveva rilevato che “il fatto identificato con il secondo avviso… e la condotta contestata al V. con il secondo avviso (sottrazione a tassazione dei movimenti bancari) erano gli stessi del primo avviso di accertamento”;
quindi, il ricorrente ritiene che la sentenza impugnata abbia violato l’art. 2909 c.c., non accogliendo l’eccezione avanzata dal contribuente, che invocava l’autorità del giudicato sopravvenuto, contenuto nella sentenza della C.t.r. del Veneto n. 14/18/2010;
con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la rinuncia del giudice di appello ad assumere un convincimento proprio, circa un fatto controverso e decisivo del giudizio (la continenza nel secondo accertamento dalla materia imponibile del primo), ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
il ricorrente osserva che nella ricostruzione del fatto la Commissione regionale del Veneto, nell’escludere l’identità della pretesa impositiva contenuta nei due avvisi di accertamento per l’anno 1991, ha fondato il proprio convincimento, non già su un’autonoma e personale valutazione, ma sul mero richiamo alla statuizione della sentenza n. 23892/2007 della Corte di Cassazione;
con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 132 c.p.c., e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, della sentenza impugnata, in quanto non riporta una “motivazione propria”;
con tale motivo il ricorrente eccepisce, in subordine, qualora non si rilevasse il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza, censurato con il quarto motivo di ricorso, la violazione degli articoli di cui in rubrica nella parte in cui la sentenza della C.t.r. ha escluso la duplice tassazione del medesimo presupposto impositivo e ciò sulla scorta di una mera motivazione de relato;
i motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati e vanno rigettati;
invero, la sentenza impugnata non è incorsa in alcuna omissione, in quanto ha espressamente escluso che nella sentenza della C.t.r. di annullamento del secondo accertamento vi fosse un accertamento sulla fondatezza nel merito della pretesa impositiva;
i giudici di appello, infatti, hanno rilevato che la sentenza definitiva, con cui la C.t.r. ha annullato il secondo accertamento, è stata pronunciata in sede di riassunzione a seguito della sentenza con la quale la Corte di cassazione ha cassato con rinvio la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria regionale sull’appello avverso la sentenza di primo grado, con la quale la Commissione tributaria provinciale aveva annullato il secondo accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43;
inoltre, la C.t.r. osserva che dall’esame degli atti di causa risulta evidente che nessuna delle sentenze pronunciate nel giudizio promosso dal contribuente contro il secondo accertamento si è espressa su questioni di merito inerenti alle contestazioni formulate dalla Guardia di Finanza e poste a fondamento sia del primo che del secondo atto impositivo;
pertanto, i giudici di appello ritengono che, contrariamente a quanto sostenuto dal contribuente, l’annullamento del secondo accertamento per un vizio proprio dell’atto (nella specie l’accertamento integrativo non sarebbe stato emesso sulla base di nuovi elementi) non può aver travolto (o “assorbito”) il primo avviso di accertamento dal quale è derivata la cartella di pagamento oggetto della presente impugnazione;
sul punto, la C.t.r. richiama anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 23892/2007 (pag. 6 penultimo paragrafo), nella quale si legge che ” i due avvisi di accertamento de quibus sono formalmente e sostanzialmente diversi e che il secondo avviso non contiene alcuna revoca di quello precedente con il quale pertanto continua a coesistere, per cui sarebbe erroneo ipotizzare una qualche estensione del precedente giudicato (sent. 99/16A/1999 ndr) come sembra potersi desumere dalla motivazione che si censura (sent. 18/16A/2001 ndr)”;
dunque, secondo la C.t.r., “e’ evidente che, se il giudicato della sentenza sul primo accertamento non può essere esteso alla seconda sentenza, non è ipotizzabile nemmeno l’operazione inversa, soprattutto nella considerazione che la sentenza n. 14/18/2010 ha annullato definitivamente il secondo avviso di accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c., in quanto tra il primo e secondo atto impositivo non vi è stata sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”;
come già rilevato dal giudice di seconde cure, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di appello relativa al secondo accertamento, ritenendo che fosse priva di motivazione, non potendosi estendere il giudicato formatosi sul primo accertamento (sfavorevole al contribuente) all’impugnativa del secondo accertamento, atteso che i due avvisi di accertamento erano “formalmente e sostanzialmente diversi” e che il secondo avviso non conteneva alcuna revoca di quello precedente;
la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione (tra le altre, cfr. Cass. n. 20887/2018);
pertanto, appare evidente che la sentenza emessa dal giudice di rinvio, che ha annullato il secondo accertamento, non poteva contenere alcun accertamento di merito sulla sostanziale identità dei due atti impositivi, che sarebbe stata in contrasto con l’accertamento dei presupposti di fatto contenuto nella motivazione della sentenza di cassazione con rinvio;
nel caso in esame, come già rilevato dal giudice di appello, il giudice del rinvio non è entrato nel merito della pretesa tributaria, annullando il secondo avviso di accertamento (integrativo del primo) in quanto non sorretto dalla conoscenza di nuovi elementi;
ne consegue che l’annullamento dell’avviso di accertamento integrativo è una decisione che, pur se passata in giudicato, non crea contrasto con il giudicato – di merito – già intervenuto tra l’ente impositore ed il contribuente sul primo accertamento;
inoltre, in via di principio, l’autonomia dei singoli atti di accertamento, che possono essere impugnati solo per vizi propri, comporta l’autonomia dei giudizi di impugnazione;
non si ravvisa, quindi, il denunziato contrasto di giudicati ed il ricorso va complessivamente rigettato;
il ricorrente va condannato al pagamento all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, secondo la liquidazione effettuata in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021