LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI FLORIO Antonella – Presidente –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27719/2019 proposto da:
J.M., domiciliato ex lege in Roma, presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentato e difeso dall’avvocato LUCA BERLETTI;
– ricorrenti –
e contro
MINISTERO DELL’INTERNO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– resistenti –
avverso la sentenza n. 950/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 12/03/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.
RILEVATO
che:
1. J.M., cittadino del Gambia, chiese alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:
(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;
(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;
(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).
2. Il richiedente dedusse a fondamento delle proprie ragioni di esser fuggito dal paese d’origine per la paura di essere nuovamente arrestato per l’incendio causato mentre lavorava presso dei campi. Fu arrestato per tali fatti ma il suo insegnante di corano pagò la cauzione e lo fece liberare. In seguito a tali fatti il richiedente decise di fuggire dal Gambia e giunse in Italia nel 2015.
La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.
Avverso tale provvedimento J.M. propose ricorso dinanzi il Tribunale di Venezia che, con ordinanza del 1 ottobre 2017, lo rigettò.
3. Tale decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Venezia con sentenza n. 950/2019 pubblicata il 12 marzo 2019. La Corte ha ritenuto:
a) non credibile a vicenda narrata dal richiedente;
a) infondata la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato, perché il richiedente non aveva dedotto alcun fatto di persecuzione grave e personale;
b) infondata la domanda per il riconoscimento della protezione sussidiaria, perché nella regione di provenienza non era in atto un conflitto armato;
c) infondata la domanda per il riconoscimento della protezione umanitaria, poiché l’istante non aveva né allegato, né provato, alcuna circostanza di fatto, diversa da quelle poste a fondamento delle domande di protezione “maggiore” (e ritenute inveritiere), di per sé dimostrativa d’una situazione di vulnerabilità.
4. La sentenza è stata impugnata per cassazione da J.M. con ricorso fondato su cinque motivi.
5. Il Ministero dell’Interno si costituisce senza presentare alcuna difesa.
CONSIDERATO
che:
5.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa pronuncia su di un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione concernente la valutazione della credibilità del racconto dell’odierno ricorrente – travisamento dei motivi di appello”. La Corte d’appello avrebbe omesso ogni motivazione circa la fondatezza della specifica doglianza relativa alla negativa valutazione dell’attendibilità del richiedente.
Il motivo e’, in primo luogo, inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della pronuncia.
Infatti, come sottolineano i giudici della Corte territoriale il rigetto della domanda di protezione internazionale non è basato sul giudizio negativo di attendibilità quanto piuttosto sull’assenza dei requisiti per il suo riconoscimento, giudizio di merito non sindacabile in questa sede.
Inoltre il Tribunale prima e la Corte d’appello poi hanno ritenuto non verosimile il racconto narrato dal richiedente sulla base di un giudizio rispettoso dei principi elaborati da questa Corte, essendo non frazionato ma al contrario unitario e complessivo.
5.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per l’omessa valutazione del rapporto del 2015 sulle pratiche dei diritti umani in Gambia tratto dal sito del Dipartimento di Stato Americano USDOS e della relazione Amnesty International sul Gambia relativa al 2016 riportati dal patrocinio del ricorrente alle pagine 6 e 7 dell’atto di appello”, dalle quali fonti si evincerebbe un sistema della giustizia caratterizzato da tortura e trattamenti inumani degradanti.
Il motivo è infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente la Corte d’appello ha correttamente adempiuto al dovere di cooperazione istruttoria tramite la ricerca di informazioni aggiornate e ufficiali citando svariate fonti in merito alla situazione sociopolitica presente in Ghana, dalle quali ha dedotto l’assenza di un conflitto armato o di una violenza indiscriminata nel paese. Per tali ragioni le fonti riportate dal ricorrente, le quali sono datate al 2016, sono irrilevanti, stante il fatto che i giudici di merito hanno utilizzato per la loro decisione fonti più aggiornate tra cui proprio anche Amnesty International del 2018.
5.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, per avere la Corte di merito omesso di fare un corretto uso dei propri poteri istruttori officiosi con riferimento alla situazione giudiziaria del Gambia nonché sulla pena stabilita dal codice penale di quel paese per il delitto di incendio”.
Il rigetto del secondo motivo comporta il rigetto del terzo fondato su una censura sovrapponibile.
5.4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per il mancato riconoscimento della protezione umanitaria ivi prevista – insufficienza della motivazione”. Si duole dell’assenza di una effettiva valutazione dell’inserimento del richiedente nel contesto italiano, rapportato alla situazione in cui si troverebbe nel caso di rientro in patria, oltre che di una motivazione apodittica circa il rigetto della domanda in questione.
Il motivo è infondato.
Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente affermato che il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura residuale ed atipica, che può essere accordata solo a coloro che, se facessero ritorno nel Paese di origine, si troverebbero in una situazione di vulnerabilità strettamente connessa al proprio vissuto personale. Se così non fosse, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, misura “personalizzata” e concreta, finirebbe per essere accordato non già sulla base delle specificità del caso concreto, ma sulla base delle condizioni generali del Paese d’origine del richiedente, in termini del tutto generali ed astratti, ed in violazione della ratione della lettera della legge (Sez. 1 -, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01). Per quanto attiene, infine, alla deduzione dell’avvenuto inserimento lavorativo nel nostro Paese del richiedente, tale circostanza è da sola giuridicamente insufficiente ai fini del giudizio di comparazione per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in assenza di una situazione di vulnerabilità che, per quanto detto, deve dipendere dal rischio di subire nel Paese d’origine una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (che nel caso di specie è stata solo genericamente dedotta), condizione che non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli.
5.5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la “violazione di legge art. 360, comma 1, in relazione all’art. 91 c.p.c., comma 1, per l’intervenuta condanna alle spese processuali in favore del convenuto ministero degli interni rimasto contumace in entrambi i giudizi”. I giudici di merito, stante la contumacia del Ministero degli Interni in entrambi i giudizi, avrebbero erroneamente liquidato la somma di Euro 1.888,50 in suo favore, violando l’art. 91 c.p.c..
Innanzitutto la censura è inammissibile nella parte in cui lamenta la condanna alle spese in primo grado perché il ricorrente avrebbe dovuto impugnare la soccombenza alle spese nel processo di appello.
Essa, inoltre, è infondata nella seconda parte.
Come risulta dagli atti del fascicolo del giudizio di appello l’Amministrazione convenuta tramite l’Avvocatura dello Stato si è costituita, con comparsa di costituzione il 18 giugno 2008, resistendo al gravame. Quindi non si ravvisa alcuna violazione dell’art. 91 c.p.c., così come censurata dal ricorrente.
6. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato. L’indefensio degli intimati non richiede la condanna alle spese.
7. Infine, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021