Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.20884 del 21/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimmo – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

J.S., rappr. e dif. dall’avv. Maiorana Roberto, elett. dom.

presso il suo studio in Roma, viale Angelico n. 38, come da procura in calce all’atto, roberto.maiorana.avvocato.pe.it;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappr e dif. ex lege dall’Avvocatura dello Stato, elett. dom. presso i relativi Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– costituito –

per la cassazione del decreto Trib. Roma 29.1.2020, n. 2132/2020, in R.G. 19435/2018;

udita la relazione della causa svolta dal consigliere relatore Dott. Ferro Massimo alla camera di consiglio del 23 giugno 2021.

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. J.S. impugna il decreto Trib. Roma 29.1.2020, n. 2132/2020, R.G. 19435/2018 che ha respinto il ricorso avverso il diniego della Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Roma emesso in data 9.2.2017, che aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e ogni altra forma di protezione anche in via gradata;

2. il tribunale ha ritenuto: a) la vicenda di allontanamento di natura familiare e per esigenze per lo più economiche non indica alcun punto di contatto con i presupposti concessivi dello status di rifugiato ovvero della protezione sussidiaria, avendo il racconto del richiedente, che si è professato cristiano, messo in luce (avanti alla Commissione) un generico timore di “avvelenamento” o altro danno per via “spirituale” dalla madre o dalla sorella, rimaste in Gambia e convertite all’Islam; b) la non sussistenza di un pericolo grave per l’incolumità della persona – difettando esposizione a rischio – conseguente ad un conflitto armato, inesistente secondo le fonti citate; c) insussistente ogni ragione di vulnerabilità, già per difetto di allegazione dei relativi presupposti, nonché di conseguenze del riferito passaggio in Libia e di stabile integrazione.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il primo motivo si contesta: a) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in relazione all’assenza d’istruttoria in merito alle condizioni socio-economiche del Paese di origine del ricorrente, unitamente alle sue condizioni personali; b) il difetto di motivazione in relazione all’assenza di rischi per il ricorrente in caso di ritorno in patria;

2. con il secondo motivo si contesta: a) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per avere il tribunale escluso i gravi motivi necessari per concedere la misura residuale, nonché del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, così negando la protezione umanitaria, non riconoscendo che il richiedente rischia di essere perseguitato o comunque di correre gravi rischi al rimpatrio in un Paese tutt’altro che pacificato; b) omessa valutazione e ricerca delle fonti relative alla situazione economico-sociale del Paese di provenienza e delle condizioni personali per l’applicabilità della protezione umanitaria;

3. i motivi, da trattare congiuntamente perché connessi, sono inammissibili, per plurime ragioni ed in ognuno dei profili esposti;

4. essi, in primo luogo, si connotano per genericità, non confrontandosi con le reali rationes decidendi del decreto; il tribunale, infatti, non si è limitato a riportare il giudizio di non credibilità del narrato, quale espresso dalla commissione, ma ha premesso – decisivamente – la constatazione che le ragioni dell’allontanamento erano di natura privata, senza cioè offrire alcuno spunto per un apprezzamento in ambito persecutorio o di danno grave; si tratta di una decisiva ragione che non appare idoneamente censurata, conseguendone, appunto, l’inammissibilità della doglianza (Cass. 17182/2020);

5. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), si riferiscono, a loro volta, a situazioni in cui il richiedente è esposto ad un pericolo che direttamente lo riguarda, nella sua individualità, fattore che nel caso di specie non viene per nulla in questione, quali pena di morte, tortura o altre forme di trattamenti inumani o degradanti;

6. non appare poi avversato l’accertamento circa l’assenza di conflitto armato in Gambia, secondo un giudizio cui il tribunale è pervenuto in base alle fonti interpellate e citate, che però non trovano nel ricorso una specifica e alternativa rappresentazione critica (Cass.22769/2020); la nozione, infatti, è integrata, secondo Cass. 18306/2019, “ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), da… violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12),… nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia”; tanto più che questa Corte ha di recente precisato che detto conflitto, con la contesa bellica di un territorio, deve ascendere “ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza tenuto conto dell’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili, della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche, della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento, del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento – correrebbe individualmente, per la sua sola presenza su quel territorio, la minaccia contemplata dalla norma” (Cass. 5675 e 5676/2021);

7. la censura sul diniego di protezione umanitaria è inammissibile dovendosi ripetere, con Cass. 23778/2019 (pur sulla scia di Cass. 4455/2018), che occorre il riscontro di seri motivi (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente, altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, principio da ultimo ribadito da Cass. s.u. 29460/2019; in tema, il tribunale ha diffusamente argomentato in ordine alla insussistenza di prova, che il ricorrente ha omesso di fornire, circa più specifiche ragioni di vulnerabilità e di inserimento sociale, oltre che di postumi del periodo trascorso in Libia;

il ricorso va dunque dichiarato inammissibile; sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato (Cass. s.u. 4315/2020).

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. 228/12, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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