Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.20990 del 22/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22986/2015 R.G. proposto da:

Informatic Point S.r.l., in persona dell’amministratore unico L.R.

pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Fulvio Ceglio, elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio Capece Minutolo del Sasso, via dei Pontefici 3;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 1838/44/15, depositata il 24 febbraio 2015, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/03/2021 dal Consigliere Adet Toni Novik.

RILEVATO

che:

– emerge dalla sentenza impugnata che Informatic Point S.r.l., a seguito della verifica disposta dalla Guardia di Finanza che aveva fatto rilevare maggiori ricavi, è stata destinataria di avviso di accertamento induttivo per Iva, Irap, Ires e relative sanzioni per l’anno di imposta 2005;

– il ricorso innanzi alla CTP di Napoli è stato respinto;

– la CTR, con sentenza n. 1838/44/15 depositata il 24 febbraio 2015, ha rigettato l’appello della contribuente;

– ha affermato che: – era corretta la motivazione dell’avviso di accertamento per relationem al processo verbale della Guardia di Finanza; – il reddito d’impresa era stato calcolato induttivamente, anche sulla base di accertamenti bancari, che avevano dato luogo all’applicazione della presunzione secondo cui prelevamenti e versamenti non giustificati costituivano maggiori ricavi o maggiori imponibili Iva; – in ordine all’estensione delle indagini bancarie anche ai conti intestati ai soci ed alle società di cui uno di essi, S.L. era titolare, osservava che la ristretta base familiare era sufficiente ad estendere il controllo bancario anche ai conti di tali soggetti; – nessuna prova era stata fornita per contrastare i rilievi contestati, non potendosi opporre una prova generica a quella costituita dalla presunzione legale;

– il ricorso è affidato a quattro motivi;

– l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia la “Violazione dell’art. 112 c.p.c.. Falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, in particolare, (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, e comunque – esclusa la ricorrenza della cd. “doppia conforme” – n. 5)”: in particolare, ad avviso della ricorrente, la CTR avrebbe parzialmente esaminato la doglianza relativa alla nullità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione proposta sotto molteplici profili: a) inammissibilità della motivazione per relationem al verbale della Guardia di Finanza, mai notificato alla contribuente, e omesso esame dell’eccezione di nullità correlata al difetto di motivazione del provvedimento impugnato; b) mancata indicazione delle aliquote; c) incongruenza tra il periodo riportato nell’accertamento “1 giugno 2005 – 31 dicembre 2005” e la ripresa fiscale concernente l’intero anno 2005; d) omessa motivazione della percentuale di ricarico del 20%, superiore a quella normalmente applicata nel settore specifico; e) l’inammissibilità del rinvio per relationem era anche correlata all’obbligo dell’ufficio di valutare criticamente l’operato dell’organo di controllo e non era consentito quando esso “rimandi a successive determinazioni dell’ufficio, come precipuamente avvenuto nel caso di specie”;

– la censura, articolata in modo contorto mediante la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, è inammissibile;

– con riferimento al parametro costituito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, diversamente da quanto afferma la ricorrente, ricorre il profilo d’inammissibilità della c.d. “doppia conforme”, in ragione delle pronunce dei due gradi di merito di analogo contenuto (art. 348-ter c.p.c.), che limita il ricorso ai motivi di cui al citato art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3), 4). Infatti, ai sensi del cd. Decreto Sviluppo, art. 54, comma 2 (D.L. n. 83 del 2012, come conv.), le regole sulla “doppia conforme”, si applicano “ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (12 agosto 2012), ossia ai giudizi introdotti in grado di appello dal giorno 11 settembre 2012 in poi (v. Cass. n. 5528 del 2014, in motiv.; cfr. Cass. n. 26860 del 2014, Cass. n. 5993 del 2016). Nella specie, il giudizio in grado di appello, che ha originato la sentenza impugnata col ricorso in esame, è stato introdotto sicuramente dopo l’11.09.2012, attesa la data della sentenza di primo grado, pronunciata il 13 dicembre 2012 e depositata il 14 gennaio 2013 (v. ricorso pag. 6); come si legge dal riepilogo dei motivi di gravame riportati alle pagine 7-8 del ricorso le ragioni di annullamento dell’avviso di accertamento sono rimaste immutate in entrambi i gradi di giudizio, cosicché sono inammissibili le censure sub c) e d) attinenti al tessuto motivazionale;

– relativamente alla eccezione di nullità dell’accertamento di cui sub a), riproposta dalla contribuente in appello e riprodotta in ricorso, occorre richiamare il consolidato orientamento della Suprema Corte, per il quale la violazione dell’art. 112 c.p.c., non impedisce alla Corte di Cassazione di pronunciarsi nel merito se la questione proposta, come nella fattispecie, è di puro diritto: infatti, “alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (v. Cass. n. 2313 del 01/02/2010; Cass. n. 21257 del 08/10/2014; Cass. n. 21968 del 28/10/2015 e, da ultimo, Cass. n. 16171 del 28/06/2017);

– sulla questione specifica della legittimità del rinvio per relationem al PVC della GdF, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 13110 del 2012; Cass. n. 4176 del 2019) “l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione, però, che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento, o, ancora, che gli atti richiamati siano già conosciuti dal contribuente per effetto di precedente notifica”; inoltre, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che “In tema di avviso di accertamento, la motivazione “per relationem” con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivato l’avviso di accertamento che, richiamando il processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, evidenziava che la società contribuente aveva annotato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse da altra società “cartiera”, così registrando costi indebiti)”. (Sez. 5 -, Sentenza n. 32957 del 20/12/2018, Rv. 652115 – 01);

– tale motivazione è quindi sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero a tassazione in relazione al contenuto dell’atto richiamato, contenente tutti gli elementi previsti dalla normativa tra cui la specifica indicazione delle aliquote applicate, ed a porre i contribuenti in grado di adeguatamente spiegare le proprie difese, sia negando i fatti costitutivi della pretesa fiscale, sia contrastando le risultanze dell’atto impositivo mediante acquisizione di ulteriore documentazione e di altri elementi probatori idonei a dimostrare la insussistenza della pretesa fiscale; l’ufficio, quindi, avvalendosi legittimamente delle prestazioni di altri organi, come la guardia di finanza, non ha necessità assoluta di svolgere ulteriore, autonoma ed integratrice attività istruttoria, o di esporre con diverse parole gli stessi concetti, quando questi siano condivisi (Cass. n. 1236 del 2006, Cass. n. 10205 del 2003, Cass. n. 8690 del 2002, Cass. n. 2780 del 2001);

– infine, deve ritenersi che lo Statuto del contribuente, art. 7, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento da esso richiamato in motivazione, si riferisca esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza (Cass. n. 15327/2014);

– nel caso in esame, non è in dubbio che la contribuente avesse piena conoscenza del contenuto del PVC, stanti i plurimi richiami a detto atto che si leggono alle pagine 2, 3, 4 del ricorso, con ciò dimostrando di essere stata in grado di difendersi efficacemente nei processi di merito (peraltro, alla pag. 6 del ricorso si legge che il giudice di primo grado aveva dato atto che il PVC era conosciuto dalla contribuente); erroneamente poi la contribuente ritiene che il PVC, per essere legalmente conosciuto, debba essere oggetto di notifica, trattandosi di adempimento non previsto atteso che la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, prevede solo che al termine delle operazioni di verifica fiscale sia rilasciata una copia del processo verbale;

– quanto all’obiezione che il rinvio al PVC non era consentito quando il medesimo “rimandi a successive determinazioni dell’ufficio, come precipuamente avvenuto nel caso di specie”, si osserva che non è pertinente il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 7149 del 2001, in quanto in quel caso il rinvio era relativo “ad una successiva determinazione degli Uffici finanziari… necessaria ai fini della valutazione degli sconti d’uso per determinare il ricarico”, di carattere integrativo rispetto a quanto emerso dalla verifica, mentre in questo caso il rinvio era diretto esclusivamente ad avvisare l’amministrazione finanziaria della possibilità di formulare ulteriori rilievi rispetto a quelli contenuti nel PVC, circostanza quindi eventuale e non accolta dall’amministrazione;

– la censura sub b), è oggetto anche del secondo motivo e sarà esaminata in quella sede.

– Con il secondo motivo, la contribuente deduce la “Falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7 (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, laddove la CTR avrebbe omesso di rilevare a) la presenza di errori nella indicazione del periodo di riferimento dell’accertamento, b) l’omessa indicazione delle aliquote applicate al maggior imponibile accertato;

– la censura, come proposta, è inammissibile, in quanto non rispetta il requisito di cui all’art. 366, n. 6. Secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, questa norma, che costituisce il c.d. precipitato normativo del c.d. principio dell’autosufficienza del ricorso per Cassazione, implica quanto segue: “Il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile” (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016, Rv. 642130 – 01; Cass. 4 settembre 2008, n. 22303; quindi, ex multis, Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e Cass. sez. un. n. 7161 del 2010). Ora la ricorrente fonda il motivo evocando (pag. 18) quanto opposto “sin dal giudizio di primae curae”, ma non riporta nel ricorso il contenuto (trascrivendolo), né indica specificamente il locus processuale del loro ingresso nel processo, rendendosi inosservante del principio per cui, il ricorrente, il quale intenda dolersi dell’erronea valutazione di un atto o documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016);

– nel caso in esame, detto onere era ancor più indispensabile, posto che nella sentenza di appello manca ogni riferimento alla proposizione anche di queste doglianze: Sez. 6 5, Ordinanza n. 32804 del 13/12/2019 (Rv. 656036 – 01) ha affermato che “Qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa”.

– Con il terzo motivo, la contribuente deduce “Ancora sulla falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in ordine al profilo della cd. “percentuale di ricarico” e sulla falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e dell’art. 2729 c.c. (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, laddove la CTR, senza nessuna motivazione, aveva ritenuto adeguata la percentuale del 20% adottata dall’agenzia delle entrate, addossando al contribuente l’onere della prova in ordine alla corretta percentuale di ricarico applicabile nella concreta vicenda;

– la censura è infondata;

– come si ricava dalla sentenza, l’amministrazione ha proceduto alla ricostruzione induttiva del reddito, anche sulla base delle indagini finanziarie sui conti della società e dei soci, in presenza di una contabilità ritenuta “gravemente compromessa e non attendibile”;

– la CTR ha riconosciuto corretta la metodologia applicata, osservando quanto agli accertamenti bancari che essi “danno origine ad una presunzione legale relativa di maggiori ricavi ed i maggiori imponibili Iva”; quanto alla percentuale di ricarico implicitamente la CTR ha fatto applicazione del principio di favore per cui in caso di rettifica induttiva, alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere una incidenza percentualizzata dei costi da determinarsi induttivamente (“In tema di accertamento induttivo cd. puro, l’Amministrazione finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto”. (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26748 del 23/10/2018, Rv. 651111 – 01);

– non vi è stata nessuna inversione dell’onere probatorio, avendo l’amministrazione accertato i redditi e su di essi applicato forfettariamente i costi.

– Con il quarto motivo, si censura “Falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in ordine alla valutazione delle prove documentali offerte dalla contribuente e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 2, (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, laddove la CTR aveva ritenuto che la contribuente non avesse dato la prova specifica che nei conti bancari fossero transitate somme non riconducibili ad entrate della società; si afferma che la società avesse provato che nella determinazione del reddito imponibile erano confluite anche le risultanze dei conti personali dei soci S.C. e S.L. e di altre due società di cui il secondo era socio, da ciò derivando una duplicazione della tassazione; si esclude quindi l’applicabilità della presunzione di legge in ordine ai versamenti e prelevamenti con riguardo ai conti bancari intestati a persone diverse; erroneamente ancora erano state considerate movimentazioni gli spostamenti di denaro da una carta postepay alle di appoggio trattandosi dei medesimi fondi;

– la censura è inammissibile sotto plurimi profili;

– in primo luogo essa è generica, non indicando quali siano state le prove specifiche fornite nel giudizio di merito a dimostrazione del proprio assunto che la CTR avrebbe erroneamente valutato, essendosi la parte limitata a richiamare “la nota di deposito dei documenti innanzi alla CTP di Napoli” (pagina 29), violando quindi il principio di autosufficienza del ricorso, a cui non pone rimedio nemmeno l’altrettanto generico riepilogo dell’atto di appello; va comunque ricordato che “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) ricorre solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime”. (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 18092 del 31/08/2020, Rv. 658840 – 02);

– in secondo luogo, investendo il ragionamento e la valutazione dei singoli elementi di fatto operata dal giudice di merito, che ha espressamente affermato che “nessuna prova contraria ai rilievi contestati è stata fornita dalla società contribuente che, in ogni caso, non può limitarsi a fornire una prova generica con riferimento alle singole operazioni risultanti dalla documentazione finanziaria. Infatti alla presunzione di legge va contrapposto una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale”, la doglianza integra una non consentita censura motivazionale, atteso che, oltre alla preclusione derivante dalla “doppia conforme”, venendo in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dopo la riforma del 2012, ammette le censure sull’accertamento di fatti solamente entro il minimo costituzionale della mancanza di segno grafico, della apparente motivazione, della motivazione inconciliabilmente contraddittoria o assolutamente perplessa (Cass. sez. un. 8053 del 2014);

– infine, per l’operatività della presunzione stabilita per le movimentazioni bancarie questa Corte, con orientamento costante da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, ha già affermato che: “In tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, n. 7, e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dall’Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame”. (per tutte Cass. sez. 5, Sentenza n. 27032 del 21/12/2007)”, “In tema di accertamento dell’IVA, i movimenti bancari operati sui conti personali di soggetti legati al contribuente da stretto rapporto familiare o da particolari rapporti contrattuali (nella specie, l’amministratore unico della società, il suo gestore di fatto e la figlia di quest’ultimo nonché socia) possono essere riferiti al contribuente, salva la prova contraria a suo carico, al fine di determinarne i maggiori ricavi non dichiarati, in quanto tali rapporti di contiguità rappresentano elementi indiziari che assumono consistenza di prova presuntiva legale, ove il soggetto formalmente titolare del conto non sia in grado di fornire indicazioni sulle somme prelevate o versate e non disponga di proventi diversi o ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla gestione dell’attività imprenditoriale. (Sez. 5, Sentenza n. 20668 del 01/10/2014, Rv. 632458 – 01)”; “Ne consegue in ordine alla distribuzione dell’onere probatorio che una volta dimostrata la pertinenza alla società dei rapporti bancari intestati alle persone fisiche con essa collegate, l’Ufficio non è tenuto a provare che tutte le movimentazioni che risultano da quei rapporti rispecchino operazioni aziendali, ma al contrario la corretta interpretazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, impone alla società contribuente di dimostrare la estraneità di ciascuna di quelle operazioni alla propria attività di impresa” (Cass. n. 16575 del 2013; Cass. n. 20199 del 2010);

– nella fattispecie, con giudizio di fatto non censurabile in questa sede, la commissione regionale ha escluso che la società contribuente avesse fornito la prova specifica della circostanza che nei conti correnti siano transitate entrate non riconducibili alla società;

– quanto alla omessa nomina di un consulente tecnico, di cui non risulta nemmeno essere stata fatta richiesta, si rileva che: “Anche nel processo tributario, la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio – e non prova vera e propria – sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, nel cui potere discrezionale rientra la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario, potendo motivare l’eventuale diniego anche implicitamente, con argomentazioni desumibili dal contesto generale e dal quadro probatorio unitariamente considerato”. (Sez. 5 -, Sentenza n. 25253 del 09/10/2019, Rv. 655530 – 01);

– pertanto, per le suesposte considerazioni, il ricorso non può essere accolto;

– le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità, liquidate in Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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