LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –
Dott. NOVIK Adet Toni – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25557/2016 R.G. proposto da:
Informatic Point S.r.l., in persona dell’amministratore unico L.R.
pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Fulvio Ceglio, elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio Capece Minutolo del Sasso, via dei Pontefici 3;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 2937/03/16, depositata il 24 marzo 2016, non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/03/2021 dal Consigliere Adet Toni Novik.
RILEVATO
che:
– emerge dalla sentenza impugnata che Informatic Point S.r.l. è stata destinataria di avviso di accertamento analitico-induttivo per Iva, Irap, Ires e relative sanzioni per l’anno di imposta 2010;
– l’accertamento recepiva il PVC del 12/11/2010, emesso all’esito della verifica disposta dalla Guardia di Finanza, estesa ai conti correnti dei soci S.C. e S.L. e di due società riferibili al solo S.L., che aveva fatto rilevare maggiori ricavi;
– il ricorso innanzi alla CTP di Napoli è stato accolto sul punto della redditività determinata nel 20%, sul rilievo che l’accertamento non era supportato da valide presunzioni; l’accertamento è stato confermato nella parte in cui si era fondato su quanto emerso dagli accertamenti bancari eseguiti sui conti correnti dei due soci e delle società riferibili al socio S.L.;
– l’agenzia delle entrate ha impugnato la sentenza;
– la CTR con sentenza n. 2937/03/16 depositata il 24 marzo 2016 ha accolto parzialmente l’appello dichiarando “legittimo l’avviso di accertamento impugnato, con l’esclusione dalla base imponibile dei soli importi relativi alle movimentazioni di cui ai conti bancari intestati alle società Beta Srl e Sedici Idee Srl”;
– ha affermato che: – premesso che, contrariamente a quanto opinato dal primo giudice, l’accertamento era fondato sul metodo induttivo puro, ne ha ritenuto la legittimità in relazione alle irregolarità gravi, numerose e ripetute emerse nel corso della verifica (in particolare, omessa registrazione di operazioni imponibili, annotazione dei corrispettivi giornalieri in un unico importo complessivo, presenza di merci in contrasto con le giacenze contabili, diversità di codici operativi dichiarati, incongruità su incassi e pagamenti avvenuti per banca ma registrati per cassa contanti, dalle quali non risultava identificabile l’effettivo socio erogante, rinvenimento di documentazione extra contabile incoerente rispetto alle scritture contabili); – legittimo era altresì il richiamo per relationem al PVC, copia del quale era stata consegnata all’amministratore, che aveva assistito alla verifica, unitamente ai soci e al difensore; – quanto alla presunta percentuale di ricarico, in realtà l’ufficio, a fronte delle risultanze degli accertamenti bancari, con una operazione di favore aveva induttivamente determinato i costi all’80%, e imputato il residuo a ricavi; – ha altresì ritenuta corretta la riconducibilità alla società delle movimentazioni bancarie sui conti intestati ai soci, ad esclusione di quelli afferenti alle società di pertinenza del socio S.L.; – in ordine ai movimenti di denaro su quattro carte di credito ricaricabili poste-pay, la Commissione escludeva una duplicazione d’imposta, ritenendo mancante la prova della registrazione nelle scritture contabili delle operazioni bancarie contestate;
– il ricorso della società contribuente è affidato a cinque motivi;
– l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO
che:
– Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia la “Falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in ordine alla valutazione delle prove documentali offerte dalla contribuente e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per aver la CTR, in contrasto con la sentenza del primo giudice, ritenuto sussistenti i presupposti legittimanti il ricorso al metodo induttivo puro;
– la censura è inammissibile;
– “In tema di rettifica dei redditi d’impresa, il discrimine tra l’accertamento con metodo analitico induttivo e quello con metodo induttivo puro sta, rispettivamente, nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, in quanto l’Ufficio accertatore può solo completare le lacune riscontrate, utilizzando ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 c.c.; nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” sono così gravi, numerose e ripetute da inficiare l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), sicché l’amministrazione finanziaria può “prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c.”. (Sez. 5 -, Ordinanza n. 33604 del 18/12/2019, Rv. 656397 – 01): nella fattispecie, come riportato nel “Ritenuto”, la CTR, con motivazione ineccepibile ha indicato gli elementi costituenti “irregolarità gravi, numerose e ripetute” che rendevano inattendibili le scritture contabili.
– Con il secondo motivo di ricorso la contribuente denuncia la “Violazione dell’art. 112 c.p.c.. Falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, in particolare, (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, e comunque – esclusa la ricorrenza della cd. “doppia conforme” – n. 5)”: in particolare, ad avviso della ricorrente, la CTR avrebbe parzialmente esaminato la doglianza relativa alla nullità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione proposta sotto molteplici profili: a) inammissibilità della motivazione per relationem al verbale della Guardia di Finanza, mai notificato alla contribuente, e omesso esame dell’eccezione di nullità correlata al difetto di motivazione del provvedimento impugnato; b) mancata indicazione delle aliquote; c) omessa motivazione sull’applicazione della percentuale di ricarico del 20%, superiore a quella normalmente applicata nel settore specifico; d) l’inammissibilità del rinvio per relationem era anche correlata all’obbligo dell’ufficio di valutare criticamente l’operato dell’organo di controllo, e non era consentito quando esso “rimandi a successive determinazioni dell’ufficio, come precipuamente avvenuto nel caso di specie”; e) la parzialità della verifica; f) la mancanza del contraddittorio;
– la censura, articolata in modo contorto mediante la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, è inammissibile;
– relativamente alla eccezione di nullità dell’accertamento di cui sub a), riproposta dalla contribuente in appello, e riprodotta in ricorso, occorre richiamare il consolidato orientamento della Suprema Corte, per il quale la violazione dell’art. 112 c.p.c., non impedisce alla Corte di Cassazione di pronunciarsi nel merito se la questione proposta, come nella fattispecie, è di puro diritto: infatti, “alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (v. Cass. n. 2313 del 01/02/2010; Cass. n. 21257 del 08/10/2014; Cass. n. 21968 del 28/10/2015 e, da ultimo, Cass. n. 16171 del 28/06/2017);
– sulla questione specifica della legittimità del rinvio per relationem al PVC della GdF, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n.13110/2012; n. 4176/2019) ” l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione, però, che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento, o, ancora, che gli atti richiamati siano già conosciuti dal contribuente per effetto di precedente notifica “; inoltre, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che “In tema di avviso di accertamento, la motivazione “per relationem” con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivato l’avviso di accertamento che, richiamando il processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, evidenziava che la società contribuente aveva annotato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse da altra società “cartiera”, così registrando costi indebiti)”. (Sez. 5 -, Sentenza n. 32957 del 20/12/2018, Rv. 652115 – 01);
– tale motivazione è quindi sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero a tassazione in relazione al contenuto dell’atto richiamato, contenente tutti gli elementi previsti dalla normativa tra cui la specifica indicazione delle aliquote applicate, ed a porre i contribuenti in grado di adeguatamente spiegare le proprie difese, sia negando i fatti costitutivi della pretesa fiscale, sia contrastando le risultanze dell’atto impositivo mediante acquisizione di ulteriore documentazione e di altri elementi probatori idonei a dimostrare la insussistenza della pretesa fiscale; l’ufficio, quindi, avvalendosi legittimamente delle prestazioni di altri organi, come la guardia di finanza, non ha necessità assoluta di svolgere ulteriore, autonoma ed integratrice attività istruttoria, o di esporre con diverse parole gli stessi concetti, quando questi siano condivisi (Cass. n. 1236 del 2006, Cass. n. 10205 del 2003, Cass. n. 8690 del 2002, Cass. n. 2780 del 2001);
– infine, deve ritenersi che lo Statuto del contribuente, art. 7, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento da esso richiamato in motivazione, si riferisca esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza (Cass. n. 15327 del 2014);
– nel caso in esame, la CTR dà atto che la copia del PVC fu consegnata alla parte, cosicché non è in dubbio che la contribuente avesse piena conoscenza del suo contenuto anche alla luce dei plurimi richiami a detto atto;
– quanto all’obiezione (sub d) che il rinvio al PVC non era consentito quando il medesimo “rimandi a successive determinazioni dell’ufficio, come precipuamente avvenuto nel caso di specie”, si osserva che non è pertinente il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 7149/2001, in quanto in quel caso il rinvio era relativo “ad una successiva determinazione degli Uffici finanziari… necessaria ai fini della valutazione degli sconti d’uso per determinare il ricarico”, di carattere integrativo rispetto a quanto emerso dalla verifica, mentre in questo caso il rinvio era diretto esclusivamente ad avvisare l’amministrazione finanziaria della possibilità di formulare ulteriori rilievi rispetto a quelli contenuti nel PVC, circostanza quindi eventuale e non accolta dall’amministrazione;
– la mancata indicazione delle aliquote e l’applicazione della percentuale di ricarico formano oggetto di specifica doglianza e saranno esaminate nella sede propria;
– la doglianza relativa alla parzialità della verifica della Guardia di Finanza è incomprensibile: la parte ricorrente dà atto che la verifica è iniziata il 23 febbraio (pag. 20) e che il verbale è stato chiuso il 12 novembre, onde non si capisce a cosa sia riferita la lamentata parzialità: trattasi, peraltro, di doglianza che non risulta essere stata proposta nei giudizi di merito, come si legge nel riepilogo del “Fatto e svolgimento dei due precedenti gradi di giudizio” riportato alle pagg. 4 e seguenti;
– la dedotta mancanza di contraddittorio è smentita dalla sentenza impugnata;
– nessuna norma impone infine che l’atto di accertamento rechi l’indicazione dei mezzi di prova raccolti dall’ufficio essendo necessario e sufficiente che l’avviso enunci i criteri astratti in base ai quali sono stati determinati maggiori ricavi, salvi poi restando, in sede contenziosa, l’onere dell’Ufficio di provare gli elementi di fatto giustificativi del “quantum” accertato e la facoltà del contribuente di dimostrare l’infondatezza della pretesa anche in base a criteri non utilizzati dall’ufficio.
– Con il terzo motivo, la contribuente deduce la “Falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7 (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, laddove la CTR avrebbe omesso di rilevare che nell’accertamento mancava l’indicazione delle aliquote applicate al maggior imponibile accertato;
– la censura, come proposta, è inammissibile, in quanto non rispetta il requisito di cui all’art. 366, n. 6. Secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, questa norma, che costituisce il c.d. precipitato normativo del c.d. principio dell’autosufficienza del ricorso per Cassazione, implica quanto segue: “Il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile” (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016, Rv. 642130 – 01; Cass. 4 settembre 2008, n. 22303; quindi, ex multis, Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e 7161 del 2010). Ora la ricorrente fonda il motivo evocando (pag. 21) quanto opposto “fin dal primo grado giudizio”, ma non riporta nel ricorso il contenuto (trascrivendolo), né indica specificamente il locus processuale del loro ingresso nel processo, rendendosi inosservante del principio per cui, il ricorrente, il quale intenda dolersi dell’erronea valutazione di un atto o documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016);
– nel caso in esame, detto onere era ancor più indispensabile, posto che nella sentenza di appello manca ogni riferimento alla riproposizione anche di queste doglianze (sulle quali, a quanto si ricava, sembra esserci stato un implicito rigetto che avrebbe richiesto la proposizione di un appello incidentale): Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 32804 del 13/12/2019 (Rv. 656036 – 01) ha affermato che “Qualora una questione giuridica implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa”.
– Con il quarto motivo, la contribuente deduce “Ancora sulla falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in ordine al profilo della cd. “percentuale di ricarico” e sulla falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e dell’art. 2729 c.c. (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, laddove la CTR, senza nessuna motivazione, aveva ritenuto adeguata la percentuale del 20% adottata dall’agenzia delle entrate, addossando al contribuente l’onere della prova in ordine alla corretta percentuale di ricarico applicabile nella concreta vicenda;
– la censura è infondata;
– come si ricava dalla sentenza, l’amministrazione ha proceduto alla ricostruzione induttiva del reddito sulla base delle indagini finanziarie sui conti della società e dei soci, in presenza di una contabilità ritenuta affetta da “irregolarità gravi, numerose e ripetute”, con la conseguenza di potersi avvalere anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui al citato D.P.R., art. 38, comma 3 -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio. (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14930 del 15/06/2017, Rv. 644593 – 01);
– la CTR ha riconosciuto corretta la metodologia applicata, osservando che l’ufficio accertatore non aveva applicato alcuna percentuale di ricarico sui costi della merce acquistata ai fini della rivendita, ma, con una interpretazione a favore della contribuente, aveva determinato i costi in misura dell’80% dei ricavi accertati, “con conseguente considerazione del reddito imponibile del residuo 20%”; implicitamente, quindi, la CTR ha fatto applicazione del principio di favore per cui in caso di rettifica induttiva, alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere una incidenza percentualizzata dei costi da determinarsi induttivamente (“In tema di accertamento induttivo cd. puro, l’Amministrazione finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto”. (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26748 del 23/10/2018, Rv. 651111 – 01);
– non vi è stata nessuna inversione dell’onere probatorio, avendo l’amministrazione accertato i redditi e su di essi applicato forfettariamente i costi.
– Con il quinto motivo, si censura “Falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in ordine alla valutazione delle prove documentali offerte dalla contribuente e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 2, (in relazione al disposto di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, laddove la CTR aveva ritenuto che la contribuente non avesse dato la prova specifica che nei conti bancari fossero transitate somme non riconducibili ad entrate della società; si afferma che la società avesse provato che nella determinazione del reddito imponibile erano confluite anche le risultanze dei conti personali dei soci S.C. e S.L., da ciò derivando una duplicazione della tassazione; si esclude quindi l’applicabilità della presunzione di legge in ordine ai versamenti e prelevamenti con riguardo ai conti bancari intestati a persone diverse; erroneamente ancora, trattandosi dei medesimi fondi, erano state considerate movimentazioni gli spostamenti di denaro da una carta postepay a quelle di appoggio;
– la censura è inammissibile sotto plurimi profili;
– in primo luogo essa è generica, non indicando quali siano state le prove specifiche fornite nel giudizio di merito, a dimostrazione del proprio assunto, che la CTR avrebbe erroneamente valutato, essendosi la parte limitata a richiamare genericamente la produzione, fin dal primo grado, di documentazione giustificativa (pag. 29), violando quindi il principio di autosufficienza del ricorso, a cui non pone rimedio nemmeno l’altrettanto generico riepilogo del ricorso introduttivo; va comunque ricordato che “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) ricorre solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime”. (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 18092 del 31/08/2020, Rv. 658840 – 02);
– in secondo luogo, investendo il ragionamento e la valutazione dei singoli elementi di fatto operata dal giudice di merito, che ha espressamente affermato che “nessuna prova è stata fornita al riguardo, non avendo la parte esibita la documentazione bancaria attestante la registrazione nelle scritture contabili delle operazioni bancarie contestate, né la trasmigrazione di importi dall’una carta ricaricabile all’altra, sicché l’eccepita contestualità dei prelievi e versamenti per importi quali resta una mera dichiarazione”, la doglianza in esame integra una non consentita censura motivazionale, atteso che, venendo in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dopo la riforma del 2012, ammette le censure sull’accertamento di fatti solamente entro il minimo costituzionale della mancanza di segno grafico, della apparente motivazione, della motivazione inconciliabilmente contraddittoria o assolutamente perplessa (Cass. sez. un. 8053 del 2014);
– infine, per l’operatività della presunzione stabilita per le movimentazioni bancarie questa Corte, con orientamento costante da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, ha già affermato che: “In tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, n. 7, e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dall’Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame”. (per tutte Cass. sez. 5, Sentenza n. 27032 del 21/12/2007)”, “In tema di accertamento dell’IVA, i movimenti bancari operati sui conti personali di soggetti legati al contribuente da stretto rapporto familiare o da particolari rapporti contrattuali (nella specie, l’amministratore unico della società, il suo gestore di fatto e la figlia di quest’ultimo nonché socia) possono essere riferiti al contribuente, salva la prova contraria a suo carico, al fine di determinarne i maggiori ricavi non dichiarati, in quanto tali rapporti di contiguità rappresentano elementi indiziari che assumono consistenza di prova presuntiva legale, ove il soggetto formalmente titolare del conto non sia in grado di fornire indicazioni sulle somme prelevate o versate e non disponga di proventi diversi o ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla gestione dell’attività imprenditoriale. (Sez. 5, Sentenza n. 20668 del 01/10/2014, Rv. 632458 – 01)”; “Ne consegue in ordine alla distribuzione dell’onere probatorio che una volta dimostrata la pertinenza alla società dei rapporti bancari intestati alle persone fisiche con essa collegate, l’Ufficio non è tenuto a provare che tutte le movimentazioni che risultano da quei rapporti rispecchino operazioni aziendali, ma al contrario la corretta interpretazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, impone alla società contribuente di dimostrare la estraneità di ciascuna di quelle operazioni alla propria attività di impresa” (Cass. n. 16575 del 2013; n. 20199 del 2010);
– nella fattispecie, con giudizio di fatto non censurabile in questa sede, la Commissione regionale ha escluso che la società contribuente avesse fornito la prova specifica della circostanza che nei conti correnti fossero transitate entrate non riconducibili alla società;
– quanto alla omessa nomina di un consulente tecnico, di cui non risulta nemmeno essere stata fatta richiesta, si rileva che: “Anche nel processo tributario, la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio – e non prova vera e propria – sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, nel cui potere discrezionale rientra la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario, potendo motivare l’eventuale diniego anche implicitamente, con argomentazioni desumibili dal contesto generale e dal quadro probatorio unitariamente considerato”. (Sez. 5 -, Sentenza n. 25253 del 09/10/2019, Rv. 655530 – 01);
– pertanto, per le suesposte considerazioni, il ricorso non può essere accolto;
– le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
La Corte respinge il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità, liquidate in Euro 7.500,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021