LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24069/2019 proposto da:
N.M., domiciliato in ROMA, Piazza Cavour n. 1, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, difeso dell’Avv. Antonino Ciafardini, del foro di Pescara, che lo rappresenta con procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
contro
PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI L’AQUILA;
– intimata –
avverso il decreto n. 1681/2019 del Tribunale di L’Aquila, depositato il 19/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 07/10/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona con provvedimento notificato il 17 aprile 2018 rigettava la domanda del ricorrente volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;
– avverso tale provvedimento interponeva opposizione N.M., che veniva respinta dal Tribunale di L’Aquila con decreto del 19.06.2019;
– la decisione impugnata evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando, in primo luogo, che la vicenda narrata, di avere abbandonato il proprio Paese per questioni religiose (in quanto la sua famiglia apparteneva a una D.M. e lui era responsabile dei giovani, ma nel 2011 nel seguire un amico che lo aveva invitato ad un pellegrinaggio cristiano e ne era rimasto colpito, per cui nel 2012 aveva comunicato ai propri familiari i propri dubbi religiosi e di lì erano iniziati i suoi problemi), che anche a volerla ritenere verosimile, in ogni caso era in netto contrasto con le informazioni acquisite (rapporto COI del 30 ottobre 2017, oltre a quotidiani di settore), sulla situazione religiosa nel Paese di origine del richiedente, il Senegal, che indicano che nel paese africano i cristiani sono percentualmente una minoranza, ma tuttavia la convivenza coi musulmani era assolutamente pacifica.
Aggiungeva che oltre ad essere poco credibile il racconto, in ogni caso si tratterebbe di una questione di esclusivo rilievo privato e personale, perché avrebbe potuto vivere autonomamente il proprio agnosticismo, senza alcun rischio di persecuzione. Ne’ risultava che il richiedente fosse sottoposto a forme di persecuzione in Patria, né sussisteva il rischio che potesse esserlo in caso di rimpatrio.
Inoltre rilevava che provenendo il ricorrente dal Senegal, dal rapporto COI 2017 redatto dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo risultava che l’unica regione del Senegal interessata da tensioni interne era quella del Casamance, diversa da quella di provenienza del ricorrente. Veniva esclusa anche la protezione umanitaria, giacché non sussistevano i presupposti per potersi dire avvenuta l’integrazione del ricorrente in Italia;
– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il N. affidato a quattro motivi;
– il Ministero dell’Interno intimato ha depositato solo “atto di costituzione” per eventualmente partecipare alla discussione.
Atteso che:
– con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per non avere il Tribunale valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e non avere fatto applicazione nella specie del principio dell’onere probatorio attenuato come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27310 del 2008.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, nonché difetto di motivazione, travisamento dei fatti e omesso esame di fatti decisivi, in particolare per non avere il Tribunale tenuto conto del ruolo del richiedente all’interno della confraternita religiosa musulmana D.M. e come la decisione di allontanarsi dalla stessa avesse finito per esporlo ad atti di minaccia e violenza da parte dei suoi stretti parenti.
Le censure – da trattare unitariamente per la stretta connessione argomentativa che le avvince – sono è inammissibili prima che infondate, in quanto oltre ad essere del tutto generiche, non si confrontano con la duplice ratio decidendi su cui si fonda il provvedimento impugnato.
Da un lato infatti il Tribunale – analizzate specificamente e congruamente le vicende relative alla affermata inattendibilità del racconto del richiedente in ordine alla non tolleranza dei propri familiari alla sua conversione religiosa proprio alla luce delle informazioni acquisite sulla pacifica convivenza religiosa in Senegal – rilevava che già sulla base di tali incongruenze non fosse possibile ritenere credibile il ricorrente. Dall’altro lato, affermando che in ogni caso, il racconto del ricorrente seppure non fosse credibile, poneva comunque una questione del tutto privata, ben potendo egli vivere autonomamente il proprio agnosticismo.
Va ribadito che la valutazione operata dal Tribunale costituisce un accertamento di fatto insindacabile, ove adeguatamente motivato, come nella specie (Cass. n. 30105 del 2018) e che non ricorre il dovere di attivazione del potere ufficioso in ordine al danno ex art. 14, lett. b), se il racconto del richiedente non è ritenuto credibile, come avvenuto nella fattispecie (Cass. n. 16925 del 2018 e Cass. n. 14283 del 2019), non censurata la ulteriore autonoma argomentazione circa la natura privata della vicenda che ben avrebbe potuto indurre il ricorrente a vivere per suo conto, senza alcun rischio di persecuzioni;
Non è ravvisabile la nullità del provvedimento per motivazione apparente, posto che il Tribunale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione. In particolare, il Tribunale ha giudicato il racconto del ricorrente inattendibile, poco credibile, confuso e privo di una logica unitaria, soprattutto per la mancanza corrispondenza di quanto riferito alle informazioni acquisite da fonti ufficiali circa la situazione religiosa nel Paese di origine del richiedente, il Senegal, che indicano che nel paese africano i cristiani sono percentualmente una minoranza, ma tuttavia la convivenza coi musulmani era assolutamente pacifica; ha, inoltre, rilevato che ove veritiera la circostanza delle minacce di morte del padre, si riferivano ad una vicenda del tutto privata e personale. Il giudice di merito ha, altresì, escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutando nel merito la vicenda narrata ha in ogni caso ritenuto che la stessa esulasse dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale in quanto il racconto del ricorrente aveva ad oggetto vicende che non integrano il c.d. timore persecutorio, in mancanza di atti persecutori diretti e personali.
Tale statuizione è conforme a diritto;
– con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c), per non avere il Tribunale riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata, come meglio definita nella sentenza della Corte di Giustizia proc. n. C465/07.
La censura è priva di pregio per avere fatto il giudice di merito specifico riferimento al rapporto COI 2017 redatto dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e valutato differenti fonti quanto alla specifica situazione religiosa in Senegal escludendo che l’area di provenienza del richiedente fosse interessata da una situazione di violenza generalizzata di tale gravità e diffusione da mettere a repentaglio l’esistenza ed incolumità della persona.
A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).
Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare le norme e talune pronunce della giurisprudenza di merito, asserendo che è da tempo orientata a riconoscere tale forma di protezione ai cittadini nigeriani in virtù della situazione di instabilità del Paese, anche per quanti provengono dalle regioni meridionali.
Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).
Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakite’, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).
Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721);
– con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente deduce la violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non avere il Tribunale riconosciute la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela.
E’ da ritenere inammissibile anche siffatta censura.
Questa Corte, infatti, ha già avuto occasione di chiarire, nella recente sentenza 23/02/2018, n. 4455, che, “se assunti isolatamente, né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza integrano, di per sé soli e astrattamente considerati, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto” alla protezione umanitaria, in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06 caso Nnyanzi c/ Regno Unito, par. 72 ss.)”.
La censura del ricorrente, invece, come si è visto, non va oltre l’allegazione di una generica criticità della situazione in cui versa in Senegal il richiedente, superata dal giudice del merito, come osservato con riferimento ai mezzi che precedono.
Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va respinto.
Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo il Ministero svolto alcuna attività difensiva.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021